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Il Sacrificio del Cervo Sacro, Lanthimos e lo spettro di Lars von Trier

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Alzare il tiro dopo The Lobster – film dell’anno 2015 a opinione di chi scrive – è operazione ardita che Yorgos Lanthimos, quarantacinquenne regista greco raccoglie ne Il sacrificio del cervo sacro, da poco nelle sale italiane. Alzare il tiro – per uno di quei paradossi che piacerebbero a Lanthimos stesso – non implica però cambiare necessariamente il bersaglio: si tratta sempre della violenza implicita del convivere umano, fotografata prima a livello di coppia in The Lobster (ricordiamo in breve: il celibato curato clinicamente fino alla trasformazione in animale per chi non si piega alla dittatura sociale dei sentimenti) e ora diagnosticata a livello di nucleo familiare, con esiti non meno tragici.

Steven Murphy (il Colin Farrell già straniato protagonista di The Lobster), affermato cardiologo dei quartieri-bene della città e padre di una famiglia sull’orlo della crisi di nervi, intrattiene un non risolto rapporto d’amicizia con il giovane Martin (Barry Keoghan). Quest’ultimo è l’orfano dissociato e perturbante di un paziente inaspettatamente morto sul tavolo operatorio di Steven forse non deontologicamente irreprensibile nell’occasione. Se Euripide e Girard hanno già fatto capolino nelle prime scene del film, non sorprende che dal senso di colpa alla nemesi il passo sia breve: Martin svelerà a Steven che la sua splendida prole – l’adolescente Kim, all’alba delle prime turbe d’amore, e il piccolo e indifeso Bob – sarà presto vittima di una misteriosa malattia paralizzante degli arti inferiori, che avrà come esito la morte di ogni affetto del chirurgo. Si tratta di una damnatio inesorabile (per stessa ammissione di Martin, la cosa più vicina alla giustizia ch’egli riesca a concepire) cui la scienza non troverà rimedio fintanto che Steven non ucciderà con le sue mani un figlio per salvare l’altro.

Lanthimos – senza il filtro dei Simpson, crediamo – recupera il mythos estremo dell’Ifigenia in Aulide senza alcun compiacimento o riedizione “colta”; il patrimonio simbolico della sua terra d’origine è invece la miccia per una ricognizione asettica e chirurgica sul “fascino discreto” e la violenza recondita dell’upper class occidentale. Dismessi i toni satirici e il filtro distopico di The Lobster, il regista non ne ripudia però la poetica pessimistica e il fascino voyeuristico (ma mai fine a se stesso) per sangue, ferite, dolore. Il dilemma affettivo di Steven è chiave di analisi della psicopatologia quotidiana di un universo borghese che alla fine non esploderà né imploderà perché la violenza (reale o simbolica) è il vero collante della società contemporanea.

Che si voglia credere o meno come spettatori a questa visione del mondo, non si può negare l’abilità registica che sorregge il tutto. Il sacrificio del cervo sacro non ha accelerazioni, apici o scioglimenti; è piuttosto il ritmo impassibile della macchina da presa a rendere con evidenza il teorema dell’autore. L’archetipo del sacrificio (o meglio: della sua necessità inderogabile, anche nelle società moderne) detta i tempi rarefatti e disseccati dell’azione, mentre i contrappunti musicali e le simmetrie kubrickiane, forse cercate con troppa maniera, illustrano con acribia razionale il funzionamento del meccanismo di colpa e punizione. Il tragico è insomma così naturalmente acclimatato nel mondo di Steven e di sua moglie Anna (Nicole Kidman) che quasi il finale ci parrà la più logica delle conclusioni.

Sia ben chiaro: Lanthimos lavora con materiali pressoché desueti (la violenza dei legami intimi della famiglia, l’incomunicabilità soffocante, l’ossessione per il sesso, accenni di conflitto di classe e tanti scheletri nell’armadio) ma li trascende con una mano registica ferma e matura, già ammirata con ancor maggior provocante bellezza in The Lobster. La gran capacità di scrittura, coadiuvata dalla penna di Efthymis Filippou e particolarmente apprezzata in quel di Cannes, rifiuta poi le secche dello psicologismo empatico o del bamboleggiamento supernaturale, trovando un valido alleato in prove attoriali maiuscole: quella di Farrell innanzitutto, che forse dopo i quarant’anni e con Lanthimos ha trovato la quadra di talento non sempre rettilineo, ma anche quella della Kidman, che con gran classe torna dopo anni a (s)vestire i panni della nevrosi eyes wide shut.

Alla fine però, sacrificate le vittime, ciò che preoccupa di più non è che la medicina sia stata sconfitta dal fato, ma che un Autore (la maiuscola non è un refuso, ma un pronostico già in parte confermato) rischi di rimanere incastrato nei suoi stessi meccanismi, perversi e fascinosi nella loro carica demistificatoria ma anche difficili da abbandonare dopo che li si è giostrati con tale rigore. Insomma, non vorremmo che Lanthimos diventasse un von Trier qualunque. Non lo meriterebbe; The Favourite sarà il deus ex machina che ci dirà la verità?