Un procedimento lento e laborioso è alla base della scrittura di Le fasi notturne di Jane Urquhart (pubblicato da Nutrimenti con la traduzione di Dora Di Marco). La storia segue la vicenda di Tamara, una ex aviatrice che rimane bloccata nell’aeroporto di Gander, in Canada, e si trova a ripercorrere la propria vita con l’amante Niall. Il filo dei ricordi la collegherà anche alla storia di Kieran, giovane fratello di Niall, mentre, su tutti, veglierà il racconto di una parte della vita dell’artista canadese Kenneth Lochhead.
Nello stile della Urquhart prevale la capacità di rendere fluidi i confini storici delle tre vicende: il continuo passaggio dall’una all’altra è caratterizzato da un tempo verbale uniforme, mentre l’andamento ritmico della trama è caratterizzato da spinte opposte rispetto a quello della scrittura. Si avverte una dualità discordante tra il lento procedere della narrazione e uno dei nuclei tematici che caratterizzano le vite dei protagonisti: la velocità e l’inevitabilità di storie già vissute. La velocità si riconosce nel guizzo di Kieran, il ribelle viaggiatore delle terre irlandesi: la sua ostinata ricerca per placare la sete di scoperta e di indipendenza diventerà simile al viaggio nelle origini tra racconti e leggende. La bicicletta e la preparazione per la gara d’Irlanda, che vedrà scontrarsi i due fratelli, sono in realtà un espediente che la Urquhart utilizza per riportare alla memoria la tradizione orale, il perno identitario delle comunità irlandesi.
C’è poi Tamara, donna votata all’istintualità mitigata dalla saggezza. In una carriera alla guida di aerei durante la seconda guerra mondiale è stata in grado di equilibrare se stessa a ogni umore meteorologico, e a riprodurre nei rapporti umani l’indeterminatezza delle brevi tappe, destinate a non essere più visitate. Fino a trovarsi prigioniera di una lentezza che non le appartiene:
La maggior parte della sua vita è stata ingoiata dall’attesa, pensa ora. Ha preso la tua vita, dice la sua voce interiore, ma anche quando la sente sa quanto sia estremo questo pensiero. Eppure, eccola qui, ancora in attesa. Lei che ha pilotato ogni possibile aereo da guerra, ora è qui seduta in attesa da due giorni interi, in attesa del più banale volo nazionale, costretta a terra dalla nebbia.
L’attesa della vecchiaia si unisce a quella amorosa: «La mancanza di sicurezza, l’ambivalenza, l’impossibilità e la totale assenza di speranza di trovare una soluzione erano tutte cose che lei aveva aggirato, a volte completamente ignorato». La contemplazione è un processo doloroso e la Urquhart è abilissima nel raccontare quel cambiamento della personalità che può solo essere visibile col tempo.
C’è, infine, il pittore Kenneth Lochhead, autore del Volo e le sue allegorie, il murale dell’aeroporto di Gander. Un’opera di circa venti metri che diventa finestra non tanto delle sua interpretazione quanto del significato nella vita di chi lo guarda. L’autrice ripercorre la vita dell’artista, dalla formazione fino alle sue influenze: dalla rotondità delle forme a una sorta di astrattismo dai guizzi netti e spigolosi. Il livello di dettaglio biografico passerà in secondo piano rispetto al discorso artistico: la capacità dell’arte di rendere universale il suo soggetto si scontra con l’eventualità che l’opera d’arte sia il prodotto di una sensibilità molto diversa da chi si trova a guardarla. Stride il confronto con lo sguardo di Tamara che ricerca la reciprocità lì dove le biografie dei due protagonisti non potrebbero essere più lontane.
“Che tipo di artista potrebbe catturare una simile precarietà, una simile fragilità, in qualcosa di tanto fisso come un affresco?”, stava chiedendo il professore. “È qualcosa che dobbiamo imparare se vogliamo dipingere degli affreschi murali; come creare la fragilità – che sia innocua o manipolatoria – come creare un momento simile, una serie di momenti simili, come rendere tutto questo, e la vita umana che batte in esso, permanente?”
Lo squilibrio narrativo di tre vite così diverse rallenta il romanzo e lo sbilancia a causa di livelli di dettaglio superflui. Tutto si concentra su quel tipo di ricordo che ha la dolce mancanza della malinconia e la premonizione del rimorso e dell’attesa: un tenore che avrà fine solo nel momento in cui le vicende s’incontreranno. Una soluzione simile alla brevità di un racconto, di dettagli lasciati all’intuizione più che al completo sviluppo, avrebbe donato spinta a periodi di lento incedere narrativo.
L’abilità di gestire più piani temporali ricorda, infatti, i racconti della Alice Munro di In fuga. Le due autrici, oltre a condividere la terra d’origine, intrecciano più scene temporali per muovere la storia. Nei suoi racconti la Munro sfrutta il non detto per iniziare dalla fine e procedere a ritroso. Le cornici delle sue protagoniste si completano nel giro di poche pagine, ma il tempo trascorso occuperà anche decenni. Fatalità, Fra poco e Silenzio sono tre racconti che racchiudono la vita di Juliet catturata in fermi immagine: la ragazza che incontra l’amore, la madre e la donna che sta invecchiando. Quelle lacune che rendono singhiozzante la biografia della protagonista sono in realtà spazi destinati a rimanere vuoti, riempiti però dalle parole che colgono momenti di significativa metamorfosi.
Un tipo di brevità che anche la Urquhart avrebbe potuto sfruttare al meglio, lasciando all’intuito alcuni dettagli delle voci maschili. Allo sguardo femminile è infatti affidata la visione d’insieme e la capacità di riunire le tre storie con una prospettiva rivelatrice. Fino a coincidere con il significato che la Urquhart conferisce a un’opera d’arte: racchiudere la fragilità e l’immutabilità in un’opera dell’intelletto che è, allo stesso tempo, continuamente soggetta alla fluidità degli sguardi che la leggeranno.