È uscito di recente per Interlinea Edizioni Dolore minimo, l’opera d’esordio di Giovanna Cristina Vivinetto. L’autrice, finita nel mirino di ProVita Onlus e bersagliata da insulti solo in quanto transessuale, è riuscita comunque ad emergere con forza nel panorama letterario, sfondando il vetro oscurato che di norma nasconde la nicchia della poesia contemporanea e, soprattutto, ottenendo consensi entusiastici da parte di molti poeti di spicco, tanto da spingermi a leggere il libro.
Dolore minimo è, già secondo le dichiarazioni dell’autrice, un romanzo in versi con tema la transizione, un vero e proprio autoritratto nel periodo del passaggio. Effettivamente, quasi tutta la prima sezione, Cespugli d’infanzia, è costruita su un passato remoto dal forte sapore narrativo, e si prende il compito di portare il lettore dentro una trasformazione tanto interiore quanto esteriore; le altre due sezioni, La traccia del passaggio e Dolore minimo (divisa a sua volta in tre parti), tendono a rimescolare un po’ le carte, ma sempre mantenendo fisso lo sviluppo del personaggio, ad ogni evidenza sovrapponibile all’autrice del libro. Ci troviamo dunque di fronte a un’autobiografia in versi, con tutti i vantaggi e i rischi che questa scelta può comportare; ma anche all’interno di un teatro della coscienza, in cui Giovanna e Giovanni si confrontano, affrontano e compenetrano, fino alla morte simbolica di quest’ultimo.
Da questo punto di vista, Vivinetto ha il merito di aver trattato una tematica finora inedita nella poesia italiana, quella della transessualità; si è inoltre, volente o nolente, fatta carico della responsabilità di rappresentare in versi tutta una minoranza ancora oggi ignorata, screditata e in molti casi vituperata dalla popolazione nazionale. Dall’altro lato, Dolore minimo è un libro riuscito a metà, che brucia la potenziale efficacia di partenza attraverso un riuso di moduli tradizionali poco metabolizzati, un lessico tra il desueto e il poetese e un sentimentalismo a tratti esasperante.
Più nello specifico, i testi di Vivinetto sono costruiti su lasse narrative dal tono confessionale (soprattutto nella prima sezione) o, più raramente, su strutture di tipo anaforico-parallelistico (Quando lui avanti cammina…, Guardate quella madre: non porta…). Il tenore oscilla costantemente tra il melodramma intimistico e la leggerezza retorica, seguendo l’esempio della poetessa più amata dall’autrice, Wisława Szymborska, e puntando tutto sulle chiusure a effetto: alcune caratterizzate da un’effusività marcatamente pop («L’ultima toppa | sgraziata da ricucire – sul cuore»; «lo presi infine per mano»; «questa sera mi faccio donna. Completamente»), altre dal sapore più provocatorio («Essere normali – sorrido – come | suonano vuote queste parole»; «Allora, che nome hai scelto, papà?»). Il repertorio delle immagini pesca prevalentemente dal regno vegetale («tronco di betulla», «la corteccia sottile dell’albero», «Siamo foglie d’autunno»), dal mondo dell’infanzia («il secchio dei giochi») o dal più inflazionato vocabolario del corpo (parole come “ventre”, “grembo” e “ferita” ricorrono continuamente); sullo sfondo, quando presenti, ambientazioni quasi sempre topiche (il bosco, la soffitta) che vanno a definire un mondo vago, edulcorato, con scarsa o nulla aderenza al reale – anche laddove il collegamento con il dato autobiografico è tangibile (è il caso di Che nome scegli papà-giudice… in cui la scena del tribunale è talmente teatralizzata da sembrare una mera allegoria).
Unica eccezione i riferimenti, concreti, alla transizione: le modificazioni del corpo, le pillole, le reazioni degli altri personaggi che popolano i testi (frequenti, queste ultime, nella terza parte dell’ultima sezione) sono descritte con tanta schiettezza e ricchezza di dettagli da risultare vive, sebbene pesino poco nell’economia complessiva del testo, lungo più di cento pagine. Sul versante più squisitamente formale, infine, troviamo vocaboli e costruzioni classicheggianti, da comodato d’uso, enjambement manieristici (quando non del tutto superflui) e una sintassi monocorde, spesso ripetitiva.
La poesia di Vivinetto, comunque, non può essere bollata come totalmente ingenua: l’uniformità dello stile e della tematica permettono all’autrice di confezionare una raccolta fruibile e tutto sommato leggermente superiore alla media dei poeti coetanei, anche in virtù dell’argomento affrontato. Né mancano, va detto, alcuni momenti brillanti: penso, per esempio, a Il simbolo del corpo transessuale…, che affronta in modo riuscito il tema del post-umano, o alla sincera insicurezza di Ho l’abitudine di pulire…, e ancora al testo finale della raccolta, dove la voce sembra finalmente trovare un’altezza tragica libera dalla nenia autocentrata; ma i pochi esiti felici non riescono a cancellare l’impressione di un libro buttato giù un po’ di fretta, un po’ a tavolino, la cui autrice, al netto della sua esperienza extra-ordinaria, non si sforza granché di andare oltre la confessione personale. È un peccato, perché le premesse erano buone, e la poesia italiana avrebbe potuto fregiarsi, una volta tanto, di un titolo fresco anche all’estero: ha vinto, evidentemente, l’impazienza di emergere.
Ciononostante, Dolore minimo è un libro importante. Non dal punto di vista letterario, e forse nemmeno per il valore politico dei suoi presupposti. Dolore minimo è un libro importante perché fa intravedere la probabile direzione della poesia futura. Per esempio, se è comprensibile l’immaturità stilistica di un’autrice così giovane, se è prevedibile il successo commerciale a cui sta andando incontro il libro, meno comprensibile è la consacrazione da parte di scrittori e poeti molto noti (per citarne alcuni: Dacia Maraini, Franco Buffoni, Cesare Viviani). Il primo sospetto è quello di un’eccessiva sensibilità alla tematica, che porta a trascurare la riuscita formale del testo in sé per premiare un’efficacia più direttamente sociale e di brand. Tuttavia, la mia sensazione è che il fascino nei confronti di un’opera come quella di Vivinetto, da parte di autori nati all’incirca entro gli anni Quaranta-Cinquanta, sia dovuta soprattutto a una scarsa percezione (più che legittima) di ciò che è desueto: versi come «c’è in noi un’antichissima madre», «amatissima figlia | quando giocavi coi lacci del tempo», «e mi troverai crisalide intatta» possono lasciare interdetto un lettore della mia generazione, ma non chi su quella lingua si è formato approfondendone poi, con risultati importanti, le possibilità espressive. Per finire, stupisce ancor di più il silenzio della critica militante, che finora ha preferito ignorare il fenomeno piuttosto che problematizzarlo.
La scrittura di Vivinetto è però allarmante soprattutto per il motivo accennato sopra, e cioè la svalutazione pressoché totale della forma (dove per forma non intendo solo lo stile, ma l’intero sistema di esplorazione e rinnovamento linguistico in grado di produrre significati nuovi) in favore del mero contenuto, sia questo un “tema caldo”, come nel caso presente, o pura biografia reputata interessante dai più; contenuto che, riferendoci ancora a Dolore minimo, sceglie la corsia preferenziale dell’emotività superficiale, piuttosto che tentare una faticosa apnea nel reale, uno scandagliamento delle contraddizioni che pagherebbe di meno ma (azzardo) servirebbe di più. È una tendenza di cui ho già parlato altrove, a proposito dei video virali di Button Poetry: la differenza, qui, sta nell’avallo (o nella sottovalutazione) da parte della critica e degli autori forti.
Ci troviamo, in fondo, di fronte al pessimo incontro tra Cultural Studies e industria culturale, per il quale la tematica vince sulla qualità del testo e, a sua volta, il potenziale commerciale del prodotto vince sulla tematica. Se i risultati di tale compromesso sono da tempo visibili in narrativa, mancava un esempio del genere nella poesia italiana: finora, gli autori di successo commerciale, come Alda Merini o Guido Catalano, sono emersi solamente grazie alla fruibilità (banalità) dei testi o al carisma del singolo personaggio; qui cambiano le motivazioni, ma non la sostanza. Il rischio è che la poesia italiana, nell’epoca di questa millantata nuova primavera, finisca con l’incacrenirsi in una koinè patinata, sciatta, addirittura normativa, lontana anni-luce da quell'”oltranza oltraggio” che ha reso Zanzotto un caposaldo del Novecento: la koinè di Button Poetry, la koinè di Dolore minimo, quella, insomma, dal contenuto efficace, dall’argomento accattivante: poesia (così verrà chiamata) senza complessità e senza stile.