[Prosegue la rassegna estiva Da Zero a Dieci, dedicata ai romanzi italiani degli anni Zero (2000-2010). Dopo gli interventi di Marco Mongelli, Lucia Faienza e Marco Malvestio, Filippo Pennacchio, Lara Marrama, tocca a Lorenzo Marchese]
Quanto sono lontani gli anni Zero?
Quando nel 2011 Andrea Cortellessa licenziava la monumentale antologia Narratori degli anni zero (ripubblicata poi, in versiona ampliata, qualche anno dopo), il panorama della narrativa italiana degli anni compresi tra il 2000 e il 2010 appariva ancora difficilmente mappabile, riconducibile alternativamente ai topoi della terra (della prosa) o della palude, a seconda dei punti di vista. Anche per questo, forse, in quella discussa ma fertile antologia, gli autori inclusi erano stati tanti, forse troppi: 25 nella prima edizione, 30 addirittura nella seconda, assecondando un criterio inclusivo che, al netto delle pretese di canonizzazione, si rivelava senz’altro funzionare a un primo esercizio cartografico.
Oggi, giugno 2018, ci avviciniamo alla fine di un nuovo decennio, e, se ci guardiamo indietro, la prima decade del secolo assume una fisionomia più chiara, un profilo meno proteiforme: il corso del tempo ha fornito diverse conferme, rivelato alcuni bluff, offerto gli strumenti per giudicare gli abbagli presi e gli errori di sottovalutazione. A distanza di quasi dieci anni, siamo in grado di vedere quali autori e quali opere di quel decennio hanno fatto scuola, quali hanno generato epigoni, quali “semplicemente” hanno imposto il proprio sguardo sul reale.
A partire da queste considerazioni, abbiamo pensato di interrogare alcuni critici, chiedendo loro di indicare dieci titoli di opere narrative italiane che, a loro modo di vedere, hanno segnato il decennio degli anni Zero. E l’abbiamo chiesto a chi, nato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quel decennio l’ha vissuto per metà – almeno in termini “critici”. L’abbiamo chiesto, cioè, a chi quel decennio l’ha dovuto anche ricostruire a posteriori, recuperando letture perse per inevitabili distrazioni di gioventù, facendosi guidare da strutturate letture accademiche o da idiosincratiche traiettorie di gusto. Ne viene fuori un quadro sfaccettato, non sempre eterogeneo, ma per molti versi indicativo.
Si badi bene, però, abbiamo chiesto una lista, non una classifica: l’interesse infatti era quello di selezionare, non di gerarchizzare. D’altra parte, come si sa, le liste sono strumenti infidi. Non lasciano spazio all’articolazione di un discorso, non consentono spiegazioni, giustificazioni, contestualizzazioni – se non minime. Hanno però il pregio di essere icastiche, di offrire un immediato quadri dei rapporti, a partire dal quale è poi possibile elaborare più complessi schemi di comprensione.
E così, nella speranza che da questo piccolo gioco estivo possa svilupparsi un confronto più ampio e articolato, nelle sedi e nei modi più disparati, diamo inizio oggi alla rassegna Da zero a dieci: i romanzi del decennio passato.
Lorenzo Marchese
Aldo Busi, Casanova di se stessi (2000)
Dietro l’immagine televisiva di Busi, ce n’è una ancora più ingombrante e scomoda, ricapitolata in questo romanzo di gestazione decennale. Oltre il mistero del duplice suicidio del giudice Eros Torellino e del maestro elementare Amato Perche, ci sono un romanzo giallo con la sapienza di un saggio e un’autobiografia vasta come una nazione. Restituire Busi a se stesso e confrontarsi soltanto con la sua pagina, oltre l’incrostazione mediatica: perché non ricominciare?
Roberto Alajmo, Notizia del disastro (2001)
Il 23 dicembre 1978 un aereo DC9 in volo da Roma a Palermo si schianta in mare per un errore nell’atterraggio a Punta Raisi. Di (quasi) tutti i centoventinove passeggeri, più uno “assente”, Alajmo ricostruisce la prospettiva prima, durante, dopo la caduta. La ripetizione incessante del disastro da tante angolature diverse, capitolo per capitolo, aumenta la claustrofobia, impedisce al lettore di evadere dall’aereo, mima il trauma. Da leggere durante l’Interrail.
Umberto Casadei, Il suicidio di Angela B. (2003)
Ultima opera di un esordiente, è un “faldone” a scatole cinesi, affollato di eteronimi, fughe mancate e vicoli ciechi. Non romanzo-fiume, ma romanzo-palude, senza sbocchi né continuatori negli anni successivi: una lunga accumulazione nevrotica di riscritture incomplete e reazioni strozzate al suicidio indecifrabile della studentessa Angela Burzo, che lascia dietro di sé un biglietto in cui dà la possibile chiave di lettura del libro: “Non è colpa di nessuno. Non c’è colpa, in queste cose”.
Valeria Parrella, Mosca più balena (2003)
C’è più “mosca” che “balena” nei piccoli racconti di questo libro d’esordio intorno a Napoli: leggerezza, scene impressionistiche e sospese che si aprono, svoltano e si chiudono nel giro di poche righe, finali evasivi, come se i personaggi volassero via prima di poterne afferrare un senso. Montecarlo fa parziale eccezione e si spinge più in là sui margini, nei pressi della Nuvola di smog di Italo Calvino: forse il suo racconto migliore, anche quindici anni dopo.
Antonio Franchini, Cronaca della fine (2003)
Due anni dopo L’abusivo (2001), è come se Franchini avesse voluto completare quel libro rovesciandone i presupposti. Se Giancarlo Siani era un giovane cronista circonfuso di un’aura di martire che la scrittura s’incarica di mettere a fuoco, Dante Virgili è l’autore di due libri fieramente nazisti, sessuomane e impotente, morto solo e senza redenzioni: un mostro invaso dal bisogno di distruggere un mondo in cui non gli è concesso di vivere. Anche per questo non riusciamo a odiarlo.
Emanuele Trevi, L’onda del porto. Un sogno fatto in Asia (2005)
Lo tsunami nell’Oceano Indiano del 2004 è come una grande gomma da cancellare, il simbolo di una scrittura muta di fronte alla morte di massa, alla propria irrilevanza. Scrivere (e farlo bene) di questa voragine è lo scopo di Trevi: “Non è forse vero che la vita, in certe contingenze imprevedibili e in certi periodi più o meno prolungati, semplicemente perde il suo dizionario, riducendosi alla successione di eventi inclassificabili e privi di definizione, di premesse e conseguenze, di un significato apparente?”
Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (2007)
Invito a un esame di coscienza per letterati. Come ha fatto dieci anni fa a piacere a tanti critici e scrittori un libro con tali picchi difficilmente superabili di cattivo gusto e stile incontrollato, che svettano su una malta uniforme di umori epici, dannazione viscerale, belligerante logorrea e invettive a effetto (con l’uso contundente e retorico del giornalismo letterario che ci riporta nei pressi dell’ultima Oriana Fallaci)? Dieci anni dopo, la letteratura kitsch è per molti ancora un inconfessato piacere.
Massimiliano Virgilio, Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli (2009)
Fra i tanti stili da usare per raccontare Napoli, ce n’è uno ironico, sotto le righe, in dubbio costante. In un tempo segnato dalla fortuna transmediale del Brand Gomorra (Benvenuti), Virgilio non giudica né condanna, non (auto)mitizza, non si pone alla fine della decadenza o in stato di allerta: resta in equilibrio sulla superficie, con esercizi di lettura su un luogo e una società che di rado, ormai, vediamo rappresentati fuori dal fascino del male e dall’oratoria della denuncia. Anche per questo Virgilio è quasi invisibile.
Walter Siti, Autopsia dell’ossessione (2010
“Sei tornato a scrivere un romanzo per froci”, così Franchini (secondo la testimonianza poco affidabile di Siti in Resistere non serve a niente, 2012). Ma c’è altro dietro al desiderio infinito dei culturisti, l’orrore sacro della madre, il ritratto di una cultura italiana progressista e benestante che, autoreclusa fuori dal disordine della realtà, ha finito per divorare se stessa: un racconto straniato sull’amore, da parte di un sadico che non ne capisce i motivi; un ritorno alle ossessioni, definitivo come un congedo.
Antonio Moresco, Gli incendiati (2010)
Fine di un decennio? Piuttosto, della scrittura “cannibale”. I videogiochi non fungono da archivio di immagini, ma formano la struttura stessa di un’autodistruzione di linearità allucinante. Gli action movie sparatutto non sono un’ispirazione pop per sorridere, ma il linguaggio che Moresco adotta per costruire un racconto furibondo, apocalittico, a una dimensione. Fra l’incubo, la battaglia e la visione sacra: lo stile Novecento è ormai lontano, per capire come mai si può partire da qui.
Lorenzo Marchese ha studiato nelle università di Pavia e Pisa, dove ha svolto un dottorato di ricerca. Ora è assegnista di ricerca all’Università dell’Aquila con un progetto sulla prosa italiana contemporanea.