[Prosegue la rassegna estiva Da Zero a Dieci, dedicata ai romanzi italiani degli anni Zero (2000-2010). Dopo gli interventi di Marco Mongelli, Lucia Faienza e Marco Malvestio, Filippo Pennacchio, Lara Marrama, Lorenzo Marchese, Giuseppe Carrara e Ludovica del Castillo, tocca a Giacomo Raccis]
Quanto sono lontani gli anni Zero?
Quando nel 2011 Andrea Cortellessa licenziava la monumentale antologia Narratori degli anni zero (ripubblicata poi, in versiona ampliata, qualche anno dopo), il panorama della narrativa italiana degli anni compresi tra il 2000 e il 2010 appariva ancora difficilmente mappabile, riconducibile alternativamente ai topoi della terra (della prosa) o della palude, a seconda dei punti di vista. Anche per questo, forse, in quella discussa ma fertile antologia, gli autori inclusi erano stati tanti, forse troppi: 25 nella prima edizione, 30 addirittura nella seconda, assecondando un criterio inclusivo che, al netto delle pretese di canonizzazione, si rivelava senz’altro funzionare a un primo esercizio cartografico.
Oggi, giugno 2018, ci avviciniamo alla fine di un nuovo decennio, e, se ci guardiamo indietro, la prima decade del secolo assume una fisionomia più chiara, un profilo meno proteiforme: il corso del tempo ha fornito diverse conferme, rivelato alcuni bluff, offerto gli strumenti per giudicare gli abbagli presi e gli errori di sottovalutazione. A distanza di quasi dieci anni, siamo in grado di vedere quali autori e quali opere di quel decennio hanno fatto scuola, quali hanno generato epigoni, quali “semplicemente” hanno imposto il proprio sguardo sul reale.
A partire da queste considerazioni, abbiamo pensato di interrogare alcuni critici, chiedendo loro di indicare dieci titoli di opere narrative italiane che, a loro modo di vedere, hanno segnato il decennio degli anni Zero. E l’abbiamo chiesto a chi, nato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, quel decennio l’ha vissuto per metà – almeno in termini “critici”. L’abbiamo chiesto, cioè, a chi quel decennio l’ha dovuto anche ricostruire a posteriori, recuperando letture perse per inevitabili distrazioni di gioventù, facendosi guidare da strutturate letture accademiche o da idiosincratiche traiettorie di gusto. Ne viene fuori un quadro sfaccettato, non sempre eterogeneo, ma per molti versi indicativo.
Si badi bene, però, abbiamo chiesto una lista, non una classifica: l’interesse infatti era quello di selezionare, non di gerarchizzare. D’altra parte, come si sa, le liste sono strumenti infidi. Non lasciano spazio all’articolazione di un discorso, non consentono spiegazioni, giustificazioni, contestualizzazioni – se non minime. Hanno però il pregio di essere icastiche, di offrire un immediato quadri dei rapporti, a partire dal quale è poi possibile elaborare più complessi schemi di comprensione.
E così, nella speranza che da questo piccolo gioco estivo possa svilupparsi un confronto più ampio e articolato, nelle sedi e nei modi più disparati, diamo inizio oggi alla rassegna Da zero a dieci: i romanzi del decennio passato.
Giacomo Raccis
Incompleta come ogni lista che voglia provare a mappare un intero periodo, anche questa “decina” ha il suo specifico criterio: che a un gusto letterario che si vorrebbe equilibrato associa, com’è naturale che sia per chi negli anni zero si è formato come lettore forte, il riconoscimento di alcuni debiti assolti lungo questo percorso di formazione. Alcuni di questi libri non passeranno il vaglio del canone, cosa che faranno altri che qui non compaiono – perché non li ho letti oppure perché non mi sono sembrati segnare in maniera così marcata il decennio. D’altra parte il destino di chi si cimenta nella critica è d’esser smentito dal tempo. In questi dieci libri, che propongo in ordine cronologico di pubblicazione, c’è una parte non piccola della mia autobiografia di lettore, non solo degli anni Zero.
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte (2000)
Il secolo si apre con il congedo di uno degli ultimi grandi maestri del nostro Novecento letterario, un autore che ha influenzato i nuovi autori più di quanto normalmente non si dica. Un romanzo scritto per esorcizzare un trauma privato, ma anche per spiegarlo a chi l’ha vissuto senza darsene ragione. Una scrittura cristallina in un’architettura che anticipa le forme della nuova narrativa, frammentata e veloce.
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Roberto Saviano, Gomorra (2006)
L’opera spartiacque del decennio. Mentre molti scrittori si arrovellavano sui modi di stare “sul fronte occidentale”, Saviano scrive il libro che nessuno sapeva di voler leggere e di cui tutti improvvisamente hanno bisogno. Cambia il paradigma discorsivo intorno alla camorra, ma cambia anche il modo di guardare alla galassia della non-fiction.
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Walter Siti, Troppi paradisi (2006)
«La gayzzazione dell’Occidente»: la fine della trilogia autofinzionale di Siti consegna la metafora attraverso cui leggere la deriva del mondo occidentale. Una deriva fatta di reality, ma soprattutto di desideri insaziabili ma sterili. Il tutto raccontato attraverso lo scandalo di un “io” che si fa capro espiatorio e al tempo stesso esegeta del nostro tempo.
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Giuseppe Genna, Dies irae (2006)
La paranoia complottista come sistema di lettura dell’Italia contemporanea. E dentro, come in un magma incandescente che non consente lucidità d’osservazione, la disperazione delle droghe, la desolazione delle periferie, il totalitarismo dell’immaginario televisivo, la decadenza del mito umanista. Quello che resta è uno shock dell’immaginario.
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Vanni Santoni, Personaggi precari (2007)
L’intuizione narrativa più originale del decennio. La condizione precaria di un’intera generazione di italiani trasformata in forma del racconto, prima ancora che in tema. E poi l’arte della sintesi, dell’allusione, la capacità di innescare il riconoscimento da parte di chi legge grazie a pochi, minimi segni. Un sistema potenzialmente infinito, come infinita è la varietà delle precarietà esistenziali di questi anni.
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Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (2007)
Dietro il mistero di un nome – Babsi Jones, nom de plume di … – resta un testo ibrido, a metà tra la lettera, il reportage, la narrazione isterica su una delle più grandi tragedie dell’età contemporanea: la strage di Srebrenica. Un perfetto esemplare dei wuminghiani “oggetti narrativi non identificati”, retto da una retorica esibitamente letteraria e kitsch, che dà forma a un bisogno masochistico di espiare una colpa: l’indifferenza verso un delitto di cui la Storia chiederà conto a queste generazioni.
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Filippo Tuena, Ultimo parallelo (2007)
È il racconto della tragica e grandiosa spedizione di Robert Falcon Scott e dei suoi uomini verso il polo sud, raggiunto poche settimane dopo Amundsen, al prezzo di sofferenze, sacrifici e anche della morte di quasi tutti i componenti dell’equipaggio. Chi racconta è l’uomo in più, il fantasma incappucciato che gli esploratori delle nevi dicono di aver visto nei loro viaggi: qualcuno capace di rimettere insieme le tracce della storia, di camminare al fianco di chi non sarebbe tornato, di trasformare la tragedia in una storia epica.
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Giorgio Vasta, Il tempo materiale (2008)
«Colpire al cuore è una parola». Tutta la distanza tra parole fruste, usurate, rese inservibili dalla ridondanza mediatica e le cose, la realtà fatta da azioni che determinano svolte e cambiamenti. Il primo romanzo di Vasta è l’allegoria di una società, la nostra, che non riconosce più la condizione di cauterizzazione in cui vive, al riparo da traumi e ferite; è l’allegoria di una rivolta praticata attraverso le armi dello straniamento e dell’invenzione, efficaci ma al tempo stesso pericolose. Una condanna e un avvertimento: nel mezzo, labile, una strada da percorrere.
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Giorgio Falco, L’ubicazione del bene (2009)
Se può esistere una versione italiana di Raymond Carver, sono questi racconti. Ma sarebbe riduttivo dire così. Perché nell’immaginaria Cortesforza prendono corpo i fantasmi di una civiltà piccolo-borghese nutrita da decenni di televisione commerciale, retorica del successo e promesse di privilegi. Ma quando il modello pubblicitario si ritrova sul piano inclinato della realtà, affiorano i conflitti, le ipocrisie, le isterie: tutta quella miseria che una scrittura secca e puntuale riesce a restituire meglio di qualsiasi immagine.
Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa (2009)
L’opera matura di uno dei pochi “veri” narratori della sua generazione (Lagioia è del 1973). Per temi, è l’esatto pendant di Dies irae di Genna (classe 1969), ma il passo è quello del racconto tradizionale: l’irruzione della realtà da uno schermo del televisore, il giorno dell’Heysel, la diffusione dell’eroina che fa strage tra gli amici, il problema del lavoro e le altalenanti vicende dell’amore diventano dettagli di un affresco del Sud Italia anni Ottanta, scenario di un romanzo di formazione limpido e onesto. Una chiusa singolare per un decennio all’insegna delle ibridazioni e degli esperimenti.
Giacomo Raccis è assegnista di ricerca presso l’Università di Bergamo. Ha studiato l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato la raccolta “Quando l’orologio si ferma. Scritti 1958-1970” (il Mulino 2017) e su cui ha pubblicato “Una nuova sintassi per il mondo” (Quodlibet 2018). È uno dei fondatori della Balena Bianca.