[Fino al 9 settembre è stata prolungata la mostra Franco Fontana. Dietro l’invisibile, presso il Monastero di Astino di Bergamo, promossa da Fondazione MIA e a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Questa intervista è tratta dal catalogo della mostra, edito da Silvana Editoriale. Si ringraziano l’autore, i curatori e l’editore per la disponibilità a riprodurla]


 

Franco Fontana è tra i più internazionali dei fotografi italiani contemporanei. Pioniere del colore, molte sue fotografie sono entrate nel nostro immaginario. Il suo stile unico, che arriva a toccare i confini dell’arte astratta, ha reso i suoi scatti immediatamente riconoscibili. Pensiamo ai suoi paesaggi di terra e di mare, geometrie costruite con i colori e con la luce, o ancora gli scenari urbani e la serie delle ombre, tra i suoi lavori più suggestivi.

Il tema del paesaggio è da sempre centrale nella sua opera, declinato in modo originalissimo, esaltando la spettacolarità del dato naturale.

Le sue fotografie sono conservate nelle collezioni di più di cinquanta musei internazionali (dal MoMA di New York al Metropolitan Museum di Tokyo fino al Museum of Modern Art di San Francisco).

Le immagini di Franco Fontana, attraverso la superficie, raccontano la profondità. «I fotografi creativi – spiega il maestro del colore – riflettono se stessi nel mondo e del mondo si fanno specchio: così riescono a rendere visibile l’invisibile e a lasciare indelebile traccia del loro sguardo».

Corrado Benigni: «Fotografiamo quello che siamo», ha scritto nel suo primo libro, Skyline, del 1978. Ci spieghi meglio…

Franco Fontana: La fotografia è il fotografo, non la sua macchina. È la storia di chi fotografa, il mondo in cui vive, la sua esperienza. Ciò che fotografiamo non è quello che vediamo, ma quello che siamo, perché si scopre al mondo solo quello che ci portiamo dentro e abbiamo bisogno del mondo per scoprirlo e testimoniarlo come vorremmo che fosse. Dal punto di vista espressivo la fotografia è il linguaggio più difficile, anche se il più facile come mezzo. Se noi fotografiamo un albero, quest’ultimo esiste perché è stato rappresentato da chi l’ha visto. Così avviene per i miei paesaggi, che entrano dentro di me e diventano un autoritratto: c’è come una fusione tra la mia persona e il soggetto che fotografo.

Perché il colore in un momento in cui tutti sceglievano il bianco e nero?

Perché ho sempre visto il mondo a colori. Il bianco e nero è più facile dal punto di vista creativo, perché a livello artistico non accettiamo di mostrare il mondo come lo vediamo, vogliamo piuttosto rappresentarlo. Il bianco e nero parte già “inventato”. Il colore invece occorre reinventarlo. Io ho scelto la sfida più difficile. Attraverso il colore poi ho trovato la mia identità, esprimendomi per quello che sono.

Il colore è in rapporto stretto con la geometria delle sue immagini.

Nelle mie fotografie c’è sempre il significato della forma, che non è il formale. La forma identifica la vita, è la chiave dell’esistenza e io cerco di esprimerla in fotografia testimoniandola nello spazio, in correlazione con le cose coinvolte in esso. Nelle mie fotografie la geometria è un pretesto. C’è una sorta di sezione aurea nelle mie immagini, dove ogni linea e colore devono tenersi, e ogni elemento è necessario.

Quanto la pittura è stata importante nel suo lavoro? Penso soprattutto ad autori come Malevič, Mondrian, Rothko.

È stata importante non tanto per averla imitata, quanto per averla assorbita, così come ho assorbito molti film e libri. In generale ho sempre attinto da altri linguaggi creativi, non solo dalla pittura. Anche dalla musica, dal cinema, dalla letteratura. L’anno scorso sono stato a Cuba per fare un lavoro sul rapporto tra colore e musica. La mia vera scuola però è stata la vita di tutti i giorni, il mio sapere nasce da qui. Le fonti del mio lavoro sono l’entusiasmo e l’ispirazione, in una parola: la vitalità. E una parte importante è l’immaginazione.

La fotografia nasce prima nella sua mente o nel momento in cui punta l’obiettivo sul soggetto?

Io non vado a cercare, vado a trovare, come diceva Picasso. L’immagine che fotografo è sempre prima di tutto dentro di me, perché io sono la fotografia che faccio. Esiste nel fotografo quell’istinto che precede l’intuizione creativa, in quel momento egli diventa se stesso. L’attimo che illumina e concepisce quello che vede il fotografo è come un colpo di fulmine. Dunque sono i soggetti che fotografo a scegliermi. Tutto nasce sul momento, in modo spontaneo, dall’emozione, non c’è nulla di preordinato.

Le sue fotografie raggiungono l’astrazione partendo da immagini concretissime.

Le mie sono immagini astratte ma sempre leggibili, che non hanno bisogno di essere spiegate. In fotografia non esiste l’astrazione, esiste semmai il pensiero. Quello che cerco nel mio lavoro è la dimensione dello spazio: a mio parere è alla base di tutto l’equilibrio della vita, quindi anche di ogni forma artistica.

Fontana. Mar Liguere 2006

Quanto l’idea del paesaggio ha a che fare con l’invisibile?

Come ogni linguaggio artistico, la fotografia mostra della realtà quello che abitualmente non vediamo, ma è presente. La fotografia registra sempre qualcosa di reale, al quale il fotografo può aggiungere il suo pensiero astratto. Reinventa una verità già esistente, interpretando.

Nel corso della sua lunga carriera si è cimentato con diversi generi: il paesaggio, il reportage, il nudo, la moda e la pubblicità. A quale si sente più vicino?

La fotografia è per me innanzi tutto un pretesto. La fotografia sono io, sempre, qualunque tema o genere io affronti, è il mio sguardo, il mio modo di vedere le cose. Il mio approccio non cambia, sia che io sia davanti a un corpo nudo sia che stia guardando un albero. Certamente il tema del paesaggio è quello a cui mi sento più vicino, un tema che ho declinato in molte forme. C’è da dire che tutto quello che è davanti a noi è paesaggio, la vita stessa è paesaggio. E il fotografo è chiamato a cogliere le forme nelle quali la vita si manifesta.

Il tema del tempo come entra nella sua fotografia?

Non è il tempo che passa, ma siamo noi che passiamo nel tempo. Forse la fotografia ci mette sotto gli occhi proprio questa nostra condizione.

La sua fotografia è distante dall’idea “dell’attimo decisivo” alla Cartier-Bresson.

Il tempo è fatto di istanti ed è sempre tutto un istante che passa. L’istante è solo riuscire a fermare un’emozione.

Come è nato il tema delle ombre, che ha sviluppato nella serie Presenza Assenza?

Come un rifiuto. Nel 1981 Ralph Gibson mi invitò a partecipare a un suo libro, che era tutto di foto in bianco e nero. Io già allora fotografavo a colori e sentivo quel linguaggio molto distante da me. Accettai comunque per il gusto della sfida. Riflettendo sul da farsi, mi sono detto che bianco e nero si definiscono per contrasto, come buio e luce. Quindi ho pensato alle ombre. Allora sono andato a Roma, all’EUR, il luogo ideale per trovare contrasti fra ombre e luci. Man mano che scattavo, quello che inizialmente era un rifiuto si è trasformato: ho scoperto le ombre e dalla maturazione di questo seme è nato il progetto che ho intitolato Presenza Assenza. La verità è che le ombre fino a quel momento non le avevo viste. Esistevano già, ovviamente, ma non le avevo capite al punto da poterle esprimere con il mio lavoro, si disperdevano in un orizzonte infinito senza significati. Le ombre ci sono, occupano uno spazio ben preciso, ma la persona cui appartengono non si vede: la sua è una presenza immaginaria, carica di mistero e suggestione.

Quanto l’attività didattica, che lei svolge con workshop in Italia e all’estero, è importante nel suo lavoro?

Molto. Tengo corsi da quasi quarant’anni. Ma io non mi considero un insegnante, semmai un “maestro”, nel senso che provo a far emergere qualcosa dalle persone con cui mi confronto. Anche se alla fine spesso sono io a imparare dai miei allievi, perché alla base di tutto c’è il dialogo, il rapporto umano. Ai miei corsi ripeto spesso: voi siete degli “allievi” così come lo sono io e ognuno deve arrivare a identificarsi per quello che è, anche se il cammino a volte è come andare incontro a quell’immagine immaginaria dell’orizzonte che non si potrà mai raggiungere.

Oggi il mezzo fotografico, con i cellulari, è alla portata di tutti. Pensa che questa larga diffusione della fotografia possa usurarla come linguaggio creativo?

No, perché questo fa parte del progresso del nostro tempo. È solo l’evoluzione tecnologica del mezzo, il più democratico che esista. Alla fine, a fare la differenza tra una fotografia artistica e una non, sarà il pensiero, la sensibilità di chi la scatta. Prendiamo il cellulare e scattiamo: abbiamo una fotografia. Non è importante lo strumento, ma cosa vogliamo riprendere. E ciò che ci appare dipende dal nostro cervello, perché non tutti percepiamo la realtà allo stesso modo. Lo scrittore scrive con la testa, la penna è solo un mezzo. Allo stesso modo la macchina fotografica è solo lo strumento che permette di significare il nostro pensiero, niente di più. Io oggi uso il digitale e il computer è utilissimo per migliorare la qualità finale delle mie foto.

Dietro l’invisibile chiude una trilogia sul paesaggio, iniziata nel 2016 con la mostra di Luigi Ghirri e l’anno scorso con Mario Giacomelli. Che rapporto ha avuto con questi due maestri della fotografia italiana?

Con Giacomelli ho avuto un lungo rapporto di amicizia e tra noi c’era stima reciproca; è stato un personaggio unico e straordinario. Lui faceva fotografie “a colori” in bianco e nero. Utilizzava questa tecnica come una metafora, aveva capito che in natura il bianco e nero non esiste. Era un poeta, nel vero senso della parola. E in qualche modo lo era anche Luigi, con cui ho avuto una lunga frequentazione, ho condiviso discorsi, viaggi e progetti; siamo anche stati per diversi anni vicini di casa qui a Modena. È stato lui a voler pubblicare il mio primo libro sul paesaggio, Skyline, nella casa editrice Punto e Virgola, da lui fondata con la moglie Paola Bergonzoni.


fontana copFranco Fontana. Dietro l’invisibile, a cura di C. Benigni e M. Zanchi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2018, 96 pp. 20,oo€