Qual è l’eredità poetica di Simone Cattaneo (1974-2009) a quasi dieci anni dal suicidio? La sua parabola esistenziale, così coerente con la sua poetica, ha consegnato alla nostra storia letteraria una figura di reietto autentico (di fronte a tanti “maledetti” giocosi o farlocchi), con tutti i rischi che questa comporta.
L’aneddotica sulla sua vita vissuta antimontalianamente al 200%, sulla sua figura tragica e fascinosa, di muscoloso dio greco che si aggirava con eguale agio (o forse con egual disagio) fra redazioni culturali e “i peggiori bar di Caracas”, ne fa quasi – si direbbe oggi – un detective selvaggio bolañista, ultimo aggiornamento dell’ottocentesco maudit. Memorabile e fuori dal comune dev’essere stata un’esistenza capace di condensare in una sola serata gli «amici di Atelier» e le «parecchie migliaia di euro di danni al locale» per «quei tizi [che] volarono attraverso la vetrata».
Ma la sua vicenda di outsider risulta in questo senso tossica per il suo Fortleben di scrittore, tendendo a generare attorno a sé una prevedibile retorica che rende arduo distinguere apprezzamenti sinceri e motivati dall’ambiguo culto dell’antieroe. Di contro, un legittimo fastidio per la confusione tra umana pietas e meriti propriamente letterari porta altri a ridimensionare eccessivamente questo poeta, tacciato di sensazionalismo ingenuo e, magari, scarso lavoro sulla forma. Come più d’uno (ad esempio Fabrizio Bianchi) ha già osservato, l’ambiguo rapporto col successo pop era nel destino – da vivo e da morto – d’un poeta omonimo di un semicelebre DJ.
Penso che in realtà nel rimettere mano oggi alla sua opera vadano operate importanti distinzioni. Nelle poesie pubblicate sulle antologie L’opera comune (Atelier, Borgomanero 1999) e Dieci poeti italiani (Pendragon, Bologna 2002) e confluite in Nome e soprannome (Atelier, Borgomanero 2001) la violenza contenutistica ed espressiva che diverrà il suo marchio di fabbrica appare ancora mescolata a un lirismo “verticale”, visionario («ho tramutato il sudore in fiore | e il fumo in benzina, | ho scavato la mia carne | come fosse una vela», «quest’aria calda che suona | come un pianoforte a coda capovolto»), e a una sensibilità complessa che lascia aperture alla speranza, alla nostalgia, a un vitalismo non ancora arreso.
Un critico non amico della letteratura dell’eccesso come Matteo Marchesini (nel suo saggio su Gli esordienti degli anni ‘90, in Poesia 2002-2003, Annuario, a c. di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, Roma 2003, 162-164) segnalava già allora che «l’eccesso è il vero nemico della voce, senza dubbio autentica, di Cattaneo», mettendo in guardia dagli eccessi pulp e patetici, ma riconoscendogli il dono di una «musicalità istintiva». In chiusura del suo profilo, Marchesini individuava tre filoni nell’opera di Cattaneo: i quadretti periferici, il motivo della deformazione di un corpo in comunione con la realtà circostante, e il «racconto prosastico e quasi dimesso» alla Carver, scegliendo quest’ultimo come più promettente e più consono alla sua ispirazione.
Ma se Cattaneo si è poi effettivamente mosso verso una narratività scabra, allontanandosi da certe illuminazioni trascendenti alla De Angelis, non ha certo messo la sordina ai toni aspri. Nelle raccolte successive (Made in Italy del 2008, e la postuma Peace and Love pubblicata nel 2012 da Il Ponte del Sale insieme alle due precedenti), i tratti peculiari del personaggio autoriale s’intensificano fino al parossismo, e quasi alla caricatura. Ripulita dalle presunte scorie liriche, la sua emerge come una poetica del cinismo brutale. Ha il merito di mettere a nudo con onestà rara e senza cosmesi bellettristica la desertificazione morale dei suoi contemporanei; diventa però troppo prevedibile nella sua meccanica e monocorde nella sua temperie emotiva. I versi si allungano e si sfilacciano fino a una virtuale forma di racconto in quasi-prosa, i componimenti diventano apologhi in cui si calca sempre più la mano sull’elemento shockante, le sillogi si leggono come campionari ossessivi di abbrutimento e aberrazione.
L’antico sodale Davide Brullo (in La stella polare. Poeti italiani dei tempi “ultimi”, Città Nuova, Roma 2008) ha paragonato Cattaneo a Machiavelli (lo scomparso poeta di Saronno stimava il Principe «il più bel romanzo italiano») per la lucidità nello svelare la miseria e la malvagità umana; ma un Machiavelli che è al contempo Cesare Borgia, se nelle poesie di Cattaneo il personaggio (o la galleria di personaggi, peraltro senza volto e dunque intercambiabili) che dice “io”, lungi dall’essere un teorico o uno spettatore della spietatezza, è il primo a metterla in pratica e restarne vittima.
Nonostante il dissiparsi della speranza e con essa della trascendenza lirica, restano a squarciare l’opprimente iperrealismo dei testi certe similitudini e allegorie di sapore surrealista («Si credeva un obelisco che sapeva suonare la chitarra») o certi allucinati epifonemi («Vorrei essere una rugiada di sangue»), quasi una personalissima versione hard boiled di quelle concise, memorabili impennate sapienziali che sono forse il tratto distintivo dei poeti più dotati della sua generazione (da Andrea Rivali a Isacco Turina a Alberto Pellegatta). Soprattutto, Cattaneo si conferma insospettabilmente un grande pittore della luce: i suoi cieli metallici, liquidi e trasfigurati che segnano la temperatura emotiva dei testi e restano l’unico personaggio capace di sentimento. Così, pescando dalla prima raccolta: «il midollo di guerra | che colma ogni baratro del cielo», «quest’alba epatica […] disperde la liquida superficie del cielo rosso»; dalla seconda: «il cielo sembra un grande defibrillatore», «il sole che pareva una bomba a base di acetilene», «il cielo aveva bisogno di un’iniezione di rosa», «un cielo straziato dallo Scirocco», «una specie di bitume che sigilla il cielo del Mediterraneo»; e dalla terza: «il cielo si dissangua in feroci miraggi», «Vedo il cielo di Milano arrampicarsi lucido come | etichette contraffatte», «Il cielo pieno di larve», «il cielo sembra sempre avere bisogno di un’autopsia».
Com’è stato osservato, la lingua di Cattaneo sembra tradotta, estranea com’è alle varie koinai stilistiche della poesia italiana, e ricalcata piuttosto su traduzioni di letteratura russa e angloamericana. La sua violenza espressiva non è infatti violenza sulla lingua, l’espressionismo più o meno stilizzato tipico di tanta nostra letteratura o l’attentato “scientifico” alle strutture linguistiche messo in atto dalle avanguardie. Al tempo stesso, proprio perché in parte calcata su traduzioni di modelli stranieri non si può nemmeno dire che la lingua di Cattaneo echeggi un italiano davvero colloquiale. Si è d’altronde esagerata la presunta ingenuità di uno scrittore che aveva alle spalle approfondite letture, quasi fosse stato uguale ai desperados di periferia che popolano i suoi testi. In realtà, nella prima fase lirica si sorprendono passaggi di marcata, ricercata letterarietà, pure in qualche modo ravvivati da una presentazione già scontrosa e bizzarra («né mai fisserò le loro fronti marine | sature di gesso e pungiglioni ramati»). Eppure la lingua nuda e referenziale di Cattaneo (in ispecie dell’ultimo Cattaneo) non è così priva di meriti e d’interesse. Non fosse altro perché l’effetto che in lui si registra non è così antinaturalistico come parrebbe, dato che certe fonti che la abbeverano (dal traduttese della letteratura di genere a quello dei doppiaggi) influiscono oggi sul parlato di quasi tutti noi.
Comunque Cattaneo non è propriamente un pulp nel senso tarantiniano perché non gioca, non ironizza, non postmoderneggia, non è minimamente “meta”; la sincerità frontale dei suoi testi appare fuori moda tanto nei ‘90 “cannibali” e pop al termine dei quali egli fece il suo esordio, quanto nell’attuale clima post-post-ironico di nichilismo blasé dissimulato sotto una coltre di layers. Attualissimo è invece il cinismo (auto)distruttivo delle sue figure, quelle espressioni d’odio senza motivo e senza speranza che parevano esagerate e disumane, e oggi informano la cronaca, nonché i risultati elettorali. «Arrivano stranieri bramosi di niente dagli altri continenti | mi auguro non si integrino ma sgozzino i nostri ragazzi, violentino le nostre donne […] | mi ammazzino per primo sarà un piacere». Un testo come Non so se discutere di transazioni politiche o di ballerine… ha pochi o punti meriti stilistici, ma indovina la psicologia di un’epoca.
E nel campo letterario? Altri poeti della sua generazione seguitano oggi a pubblicare libri di vario livello, ma tanto diversi – anche nei loro esiti migliori – dalla cifra di Cattaneo, mentre i talenti più giovani, pur nella frammentazione delle poetiche, sembrano in generale lontani dalla sua lezione. Il male di vivere tende oggi a esprimersi in stili più intricati e intellettualistici, dalla superficie molto più pacata, propri di chi perlustra le angosce cosmiche dalla propria cameretta e magari da una connessione internet; nulla di più lontano dall’ethos stradaiolo di Cattaneo (o meglio della sua voce poetica). Se non la sua nera e intransigente visione del mondo, almeno la sua lingua secca e diretta, in cui le parole si presentano ormai alleggerite dalle risonanze acquisite in secoli di storia dell’italiano, e in un certo senso devono forgiarsele ex novo, può trovare affinità con quanto oggi si compone in àmbiti diversi da quelli più tradizionalmente letterari: ad esempio, nella poesia orale-performativa.