Essere Zerocalcare non dev’essere facile di questi tempi di smarrimento culturale e di bisogno di nuovi eroi pronti all’uso. In un attimo finisci etichettato come intellettuale e vieni schierato inconsapevolmente per la battaglia sbagliata. Questa è la sensazione che ho avuto all’incontro con Michele Rech, in arte Zerocalcare, avvenuta nella hall dell’albergo Broletto di Mantova, per evitare le centinaia di richieste dei fan in attesa del suo intervento al Festivaletteratura. Zero è disponibilissimo e ha l’aria di essere appena uscito dal suo appartamento per andare a trovare i suoi amici del quartiere. T-shirt d’ordinanza e sguardo sincero, mi invita a sedere e iniziamo la nostra chiacchierata.
Michela Murgia, in un recente incontro, ti ha definito “intellettuale”, sei stato finalista al Premio Strega con Dimentica il mio nome e ora sei qui ospite al Festivaletteratura di Mantova. Come vivi questo ruolo? Si tratta per Zerocalcare dell’ennesimo accollo o lo gestisci senza particolare pressione?
Non mi sento un intellettuale – mi sfilo subito da questo ruolo – ma non lo vivo come accollo, solo ho molti dubbi; mi chiedo spesso a questo punto cosa sia giusto dire, cosa non dire. Ma non perché io mi consideri un “intellettuale” – perché per me l’intellettuale è una persona che è in grado di offrire una chiave di lettura sul mondo e io non penso di avere gli strumenti, anzi aspetto invece che me li dia qualcuno – ma perché rispetto alle questioni in cui ci si deve schierare, ecco, io mi trovo sempre in difficoltà. Ho una posizione politica piuttosto netta che non so quanto sia giusto mischiare con quello che è il mio lavoro pubblico, perché temo di essere trasformato in un personaggio… Insomma non lo so, ho ancora un sacco di dubbi (ride).
I tuoi lavori sono fortemente autobiografici, come lo sono quelli di altri due fumettisti presenti qui a Mantova, Daniel Cuello e Paolo Bacilieri. Volevo chiederti le ragioni di questo bisogno di avere un alter ego e se hai in mente per il futuro una storia che non avrà Michele Rech/Zerocalcare come protagonista.
La faccenda dell’alter ego è semplice: io so fare solo quello. Ho anche provato a fare delle storie in cui non ero protagonista, però mi venivano male. Negli ultimi due libri ho iniziato a introdurre personaggi che agiscono senza il filtro del mio alter ego che li osserva e funge da narratore onniscente, però ci sto ancora lavorando, non mi sento ancora capace. L’alter ego nasce in fondo dal fatto che io conosco molto bene le mie emozioni e quello che mi passa per la testa: questo è quello che so raccontare molto bene. Quando cerco di descrivere esperienze ed emozioni che non mi appartengono spesso mi sembra di muovere burattini bidimensionali senza riuscire a dar loro un’anima, quindi di solito evito.
Quindi il personaggio di Zerocalcare non è un alter ego idealizzato, sei proprio tu, non c’è differenza tra Michele Rech e Zerocalcare.
No, tutt’al più mi rendo un po’ più “scemo” nei fumetti per dare modo al personaggio spalla di turno di spiegare qualcosa al lettore.
Quali sono i fumetti con cui sei cresciuto e quelli invece che ti piacciono ora?
Dragonball, l’Uomo-ragno, Topolino e Tank Girl, questi sono i miei macropunti cardinali. Mentre invece per quanto riguarda i fumetti di adesso, mi piacciono moltissime cose. Leggo tantissimo, dalle graphic novel ai fumetti seriali, specie quelli americani. La serie che mi è piaciuta di più ultimamente è Saga, un fumetto seriale americano e, anche se non è ancora uscito, L’età dell’oro di Cyril Pedrosa che è un librone ambientato in un medioevo fantastico dove c’è spazio per critiche alla politica e ai rapporti di genere.
E per quanto riguarda i libri, visto che siamo al Festivaletteratura? Cos’hai letto recentemente?
Il Selvaggio di Gugliemo Arriaga, l’ho finito settimana scorsa. Un libro bellissimo. Lo consiglio proprio a tutti, con tutte le mie forze. Poi sto leggendo l’ultimo di Lansdale, Il Sorriso di Jack Rabbit e il premio Pulitzer dell’anno scorso, La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead. Ma Il Selvaggio è decisamente una spanna sopra tutto quello che ho letto ultimamente. Sono solo 700 pagine (ride). È la storia di un ragazzino a Città del Messico negli anni 70, il cui fratello spacciatore viene ammazzato da un gruppo di ragazzi integralisti cattolici invasati che vogliono ripulire Città del Messico da tutte le devianze. Il protagonista quindi cerca vendetta per la morte del fratello.
Torniamo ora alle tue opere, in particolare all’ultima, Macerie prime e Macerie prime 6 mesi dopo che sembra assumere un tono molto più duro e cupo rispetto ai tuoi lavori precedenti. Qui evidenzi gli effetti disgreganti del perenne spettro della crisi anche sulle comunità più forti, persino quelle di amici di lunghissima data. Cose volevi raccontare con quest’ultimo lavoro?
Io volevo fare un po’ il punto di tutti i personaggi all’interno delle mie storie, che negli ultimi dieci anni erano rimasti un po’ fissi, cristallizzati. Poi mi sono guardato intorno e mi sono accorto che le nostre vite sono cambiate un sacco e io vedevo queste macerie intorno alle vite di chi mi era vicino, e vedevo anche le mie, non magari dal punto di vista professionale – perché le cose fortunatamente mi vanno bene ora – ma dal punto di vista personale. Come hai detto tu, il tema è sicuramente il frantumarsi di una comunità, come reazione naturale a una condizione di incertezza, in cui ognuno pensa per sé, cercando di salvare il proprio pezzetto di vita e pensa perennemente di essere rimasto indietro rispetto agli altri. Ma difficilmente questo atteggiamento paga – l’ho visto nelle vite di chi mi sta attorno – e sono fermamente convinto che la vera soluzione passi attraverso un’azione collettiva.
Nella storia compaiono strane creature che rappresentano sensi di colpa, paure, disagi, che misteriosamente prelevano “tasselli” dai protagonisti. Volevo chiederti se per realizzare questi mostri da incubo ti sei ispirato a qualche storia letta in passato, a un fumetto o un anime, o se si tratta di qualcosa che nasce direttamente dalla tua esperienza.
A livello conscio ti direi che non ci sono particolari influenze. Io da sempre sono abituato a personificare i sentimenti. Ai tempi questa tendenza la copiai da Boulet, ma in realtà anche altri libri ce l’hanno, come ad esempio I Kill Giants – di cui da poco è uscita anche la trasposizione cinematografica su Netflix – dove il cancro della madre è rappresentato come un mostro gigante. Forse non lo cito spesso, ma I Kill Giants è stata una delle mie principali fonti di ispirazione, fin dai tempi della profezia dell’armadillo. Per quanto riguarda l’aspetto grafico dei mostri invece, be’, quello arriva dalle paure che avevo da bambino, specie per il mostro che ha le fattezze del lupo Ezechiele. Per il resto invece ho dato un’occhiata su Instagram e ho preso spunto (risata).
A proposito di trasposizioni come quella di I Kill Giants per Netflix, hai per caso in mente di lanciarti in un altro campo, come l’animazione?
Sì, vorrei fare un cartone. Ho una storia in testa, inizialmente non sapevo se svilupparla in forma di libro o cartone. Non è ancora definita, è solo un tema generale. Mi sono reso conto che fare un lavoro a cartoni è un lavoro improbo che non si può fare da soli – mentre io inizialmente pensavo di lavorare in totale autonomia – ma ora mi metterò a studiare per avere il più alto grado di controllo.
Si può già sapere qualcosa sul tema?
Per ora non lo sto dicendo, però posso dirti che ci saranno i personaggi dei miei libri, me stesso, si svolge a Rebibbia ed è una storia nuova, non l’adattamento di uno dei lavori già realizzati. Con l’animazione parto proprio da zero, ma ho delle idee sul linguaggio visivo che voglio adottare per alternare, ad esempio, quello che accade in scena e quello che accade nella mia testa. Però devo ancora mettermi alla prova.
Ultima domanda: in Macerie Prime tra i vari argomenti affrontati c’è anche quello dell’attacco sui social da parte di troll. Quanto ti sei ispirato a situazioni realmente accadute e come reagisci a questo fenomeno?
Non me la vivo particolarmente bene, cerco di rispondere il meno possibile su internet. Faccio sempre una distinzione tra gli sconosciuti e i colleghi, nel senso che se mi scrive il signor nessuno e mi attacca pensando magari che non sia nemmeno io a leggere, e che tutto passi attraverso un qualche staff, allora evito di reagire. Ma se l’attacco arriva da una persona che conosco – un collega, un addetto ai lavori, uno che incontri alle fiere – è come se me lo stesse dicendo al bar, quindi è esattamente come dirmelo in faccia, e allora è probabile che reagisca.
Non hai quindi l’ossessione di rispondere a chiunque.
No, però ho l’ossessione di leggere tutto (ride).