Un politico veneziano dichiarò che Giuseppe Verdi non avrebbe dovuto impicciarsi di politica, e intimò il compositore di «attendere alle sue rime», cioè di badare alla sua musica. Non è qualcosa che un governante di oggi potrebbe dire a un rapper?
Ci pensavo una sera qualche tempo fa: ascoltavo rap dalla radio mentre stavo tornando a casa in auto dopo aver assistito a un’opera. Era La bohème di Puccini (1896) e il disco ascoltato in quella quarantina di minuti di macchina era The Infamous, un classico dei Mobb Deep (1995). Già dopo poche curve, nella mia testa le parole di quei due rapper si erano sedute accanto a quelle di Mimì e gli altri personaggi della Bohème.
Mi veniva da chiedermi cosa avessero in comune ciò che avevo da poco ascoltato dal palco e ciò che stavo ascoltando alla radio, l’opera e il rap. Una cosa era certa: in entrambi i generi si chiacchiera molto.
Decisi di accontentarmi di quella risposta, che mi fece tornare in mente quello che Edward Said, che era anche un idiosincratico ma ottimo critico musicale, scrive nel suo Sullo stile tardo: «Secondo me la domanda assolutamente centrale e radicale che l’opera pone è: “Ma perché questa gente canta?”», che è la stessa domanda che ricorda di essersi fatto quando, undicenne, i suoi genitori lo portarono a vedere la sua prima opera, Così fan tutte di Mozart, all’inizio degli anni Cinquanta: «ma perché diamine cantano?». Più l’auto avanzava, fra il pensiero della Bohème e le rime dei Mobb Deep, più ci pensavo, fra una curva e l’altra.
Chi frequenta i teatri dell’opera sa che ormai il più delle volte le parole cantate sul palco sono anche proiettate come sovratitoli (o, come alla Scala, nei piccoli schermi digitali di fronte ai seggiolini). Oltre che uno strumento per capire meglio quello che dicono i personaggi e il coro e seguire passo a passo i loro dialoghi e la storia, è anche un modo per rendersi conto del rapporto fra testo e musica, per cogliere il modo in cui quelle parole si articolano con la musica, e anche per percepirne meglio il valore estetico-letterario. A volte – non sempre, d’accordo – sarebbe bello se potesse accadere anche ai migliori concerti rap, per cogliere meglio le parole scandite più o meno velocemente dal rapper – o MC, Master of Ceremonies – di turno, e cogliere non solo il significato, ma anche metrica, figure retoriche, giochi di parole, modi di stare sul tempo, e così via.
Del resto, il rap ha molte affinità con le forme poetiche più antiche. La lunghezza dei versi è regolata da ritmi prestabiliti e fissi, con il beat a fare da metro poetico ben scandito e ben udibile, e il ritmo del linguaggio si articola con quello, perlopiù binario, della pulsazione ritmica della musica: per tutte queste ragioni, il rap emerge paradossalmente come una delle più rigorose forme di poesia composte oggi.
Certo, il rap soffre del cattivo rap, che si crogiola, spesso assecondato dal mercato, nell’idea che per fare rap non serva un opportuno apprendimento. Eppure, il miglior rap si basa su decisioni poetiche complesse (le analizza bene Adam Bradley nel suo Book of Rhymes. The Poetics of Hip-Hop). È una forma di poesia orale, e in quanto tale è obbligata a tenere conto di tutti i modi possibili per rimanere ancorata alla dimensione ritmica e musicale. La stessa cosa vale per il massivo ricorso a figure retoriche immediate quali le rime, necessarie tanto per la resa ritmica quanto come espediente mnemonico. L’efficacia delle rime si basa sulla nostra tendenza cognitiva ad anticipare quanto seguirà nella sequenza di suoni che stiamo ascoltando, e l’abilità sta nel trovare un buon equilibrio fra qualcosa di sorprendente e quello che, secondo quel meccanismo, l’ascoltatore si aspetta.
La complessità metrica e retorica del rap è aumentata in fretta dopo gli esordi degli anni Settanta, un momento cioè in cui i testi erano fatti di rime e schemi ritmici molto semplici. Poi sono arrivati innovatori quali Rakim: «My unusual style will confuse you in a while / If I was water, I’d flow in the Nile». Si parla di “flow”: è una cadenza lirica distintiva, con modi personali di alterare o esagerare, rispetto agli schemi metrici di base, accenti e figure retoriche e ritmiche per ottenere riconoscibilità e, insomma, uno stile, se non una poetica.
Ce lo ricorda Giuseppe Antonelli: il rap ricorre spesso alla paronomasia, o “bisticcio”, quella figura retorica che mette in relazione due parole – i “paronimi” – che si somigliano per il suono ma che hanno significato ben diverso: «Basta alla guerra fra famiglie / fomentata dalle voglie / di una moglie colle doglie / che oggi dà la vita ai figli /e domani gliela toglie» (Frankie Hi-Nrg, Fight da faida). Ma Antonelli pensava, opportunamente, in particolare al rap italiano, mentre riferirsi a quello anglofono o di altra lingua ci concede di aggiungere, in questo gioco degli accostamenti paradossali, un altro strato di sfasamento linguistico e di percezione.
La questione delle rime ossessionava tanto Rakim e gli altri rapper quanto, per esempio, Giuseppe Verdi e i suoi librettisti. In una lettera del 22 settembre 1846, durante la lavorazione dell’opera Macbeth (1847), Verdi scrive al librettista Francesco Maria Piave: «Se io dovessi levare via tutte le parole che dicono niente e che son fatte soltanto per la rima o per il verso bisogna levarne un buon terzo».
Oppure, in un’altra lettera, Verdi scrive: «Quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige».
Quella delle rime nei libretti era una delle preoccupazioni principali di Verdi. Pensiamo per esempio ai versi che Arrigo Boito ha scritto per la sua opera Simon Boccanegra (1857):
Piango su di voi, sul placido
Raggio del vostro Clivo
Là dove invan germoglia
Il ramo dell’ulivo.
Piango sulla mendace
Festa dei vostri fior,
E vo gridando: pace!
E vo gridando: amor!
Oppure quello che il librettista Temistocle Solera ha scritto per il primo successo di Verdi, Nabucco (1842):
Anch’io dischiuso un giorno
ebbi alla gioia il core;
tutti parlarmi intorno
udia di santo amore,
piangeva all’altrui pianto
soffria degli altri al duol:
chi del perduto incanto
mi torna un giorno sol?
Addirittura, in Alzira (1845), opera ambientata dalle parti del fiume peruviano Rio Rímac, Verdi e il librettista Salvadore Cammarano barano e, pur di far tornare la rima, storpiano il nome del povero fiume: «Il Rima / varcò nemico stuolo / arditi verso Lima / traggon que’ folli a volo».
L’iperletterarietà e l’inattualità linguistica dell’opera diventano un modo per affermare la propria natura di «evento drammaturgico favoloso», come suggerisce Vittorio Coletti nel suo bel Da Monteverdi a Puccini. Introduzione all’opera italiana (Einaudi, 2003). Quella dell’opera è un’estetica che, come scrive Carl Dahlhaus, si regge su «due presupposti imperiosi e tenaci: la dottrina degli affetti e l’idea del meraviglioso». In tale “meraviglioso”, le scelte linguistiche, talvolta anche bizzarre e sbilenche, sono decisive. Nella Traviata, per esempio, troviamo «mercé» per «grazie» e «amistà» e «amistade» per «amicizia», o «le mie grazie vi rendo», la chiesa è un «tempio», il prete un «ministro» e il carnevale un «commun tripudio», nel Nabucco l’eroina non è malata, ma «egra», le armi sono il «ferro» o «l’acciar», la lettera è un «foglio», se sei pronto sei «presto», se sei pazzo sei «furibondo» o «forsennato», e così via. Tutti i generi letterari in versi dell’Ottocento sono iperletterari: l’opera lo è di più e a maggior ragione. È in questa prospettiva che anche lo sfasamento fra la lingua corrente e la lingua del rap si fa interessante.
Fra opera e rap c’è un’altra grande differenza, mi dicevo all’ennesimo tornante fra i boschi e all’ennesimo passaggio dagli abbaglianti agli anabbaglianti e viceversa: che i cantanti d’opera non si scrivono il testo che canteranno, mentre i rapper sì. E non solo: che neanche i compositori delle opere si occupano di quei testi, che affidano ai librettisti. Ma anche in questo esiste un’analogia interessante, ovvero che sia nel rap che nell’opera ci sono notevoli eccezioni. Fra i tanti esempi possibili, perfino Chuck D, leader dei Public Enemy e figura centrale della storia del rap, ha chiesto a un altro rapper, Paris, di scrivere i testi dell’album Rebirth of a Nation (2006). E di altri possibili esempi ce ne sono molti. Così come, simmetricamente, di compositori d’opera che si scrivevano i libretti da soli ce n’erano molti, e notevoli: Wagner, Musorgskij, Berlioz e altri.
Servirebbe a poco soffermarsi sulle differenze della genealogia storica, sociale e politica del rap e dell’opera. Servirebbe a poco accostare la prima rappresentazione dell’Orfeo di Monteverdi a Mantova durante una festa di carnevale a Palazzo Ducale nel 1607 alle feste officiate da Grandmaster Flash nel South Bronx negli anni Settata, o accostare quella prima rappresentazione operistica in assoluto nella Camerata de’ Bardi nella Firenze del 1600 al decisivo blackout di New York del 13 luglio 1977. E certo è che, se vogliamo proprio dare retta a chi sostiene che il mero fatto che sia musica non permette alle parole del rap di essere prese sul serio da un punto di vista letterario, allora per equità dovremmo dare ascolto anche a tutti coloro che storcono il naso di fronte a chi riconosce ai libretti d’opera un’autonomia letteraria legittima e talvolta dai risultati sopraffini. Ma non è certo questione di difendere il rap da chi lo tratta come un genere infantile né l’opera da chi la considera un noioso status symbol aristocratico-borghese. Il rap non ha bisogno di nessuna legittimazione esterna a se stesso (critica, accademica, istituzionale e così via); tantomeno di, come spesso accade con forme artistiche del genere, legittimazioni dal tono paternalistico. L’importante è, come dicono i Public Enemy: «don’t believe the hype».
L’auto avanzava fra quelle colline – per una volta nessun cinghiale né altro animale selvatico stava facendo capolino – e continuavo a divertirmi con quell’accostamento. Il rap condivide con l’opera l’intento di raccontare una storia in una maniera inusuale e inaspettata, ed entrambi affidano tale racconto a una sublimazione estetica di tipo musicale. Entrambe hanno bisogno che quanto viene detto in scena sia immediatamente capito dall’ascoltatore, che ha bisogno anche di poter seguire la storia, attraverso elementi tematici ricorrenti che sostengono ed estendono la narrazione. Nel rap – dove la voce è generalmente solista e dove il racconto può essere frammentato, o anche solo intuito – questo avviene in generale, ma in maniera più evidente nel caso dei monologhi drammatici, quali I Got a Story To Tell di The Notorius B.I.G., Undying Love di Nas, Maxine di Gosthface Killah o Sing About Me, I’m Dying of Thirst di Kendrick Lamar. Quando invece in una canzone il rapper non fa altro che parlare di se stesso, di quanto è tosto e cool, di quante ne combina, della sua ricchezza e di cose del genere, allora quello si chiama “braggadocio”, parola che in effetti non sfigurerebbe in un’opera ottocentesca.
Del resto, come ricorda Jeff Chang nel suo Can’t stop Won’t stop. L’incredibile storia sociale dell’hip-hop (Shake, 2009), la genealogia del rap è da cercarsi prima di tutto nello spoken-word africano, nel dub giamaicano, nel blues degli Stati Uniti del sud: tutti discorsi in forma di musica. È un insieme di caratteristiche che sottrae il rap a molte delle argomentazioni di chi, con buone ragioni, rigetta l’equazione fra il testo di una canzone e una poesia.
In ogni caso, il fatto che si tratti di discorsi li allontana da una dignità letteraria? Forse, per rispondere, basterebbe ripensare alle parole di W.B. Yeats, secondo cui la poesia è «un’elaborazione dei ritmi del discorso comune e della loro associazione a sentimenti profondi». Come nel rap migliore, e come nell’opera, che, scrive Coletti, «ha bisogno dell’apporto compatto di tutti i livelli della lingua, che debbono concordemente partecipare al movimento di spaesamento, di dislocazione nell’altrove delle sue scene», spaesamento e dislocazione che permettevano di affrontare con ironia e distacco questioni di attualità. Che è quello che fa un rapper quando insegue e si fa inseguire da un quattro quarti inanellando rime sulla sua vita quotidiana, immaginata o reale, sognata o subita.
A proposito di vita reale: ero arrivato a casa. Parcheggiai l’auto. Il ricordo della musica e delle parole della Bohème vista quella sera si stavano già sedimentando nella mia memoria, e le rime e i beat dei Mobb Deep stavano agendo da acceleratori e assistenti benevoli e collaborativi di quella sedimentazione.
Prima di addormentarmi lessi qua e là qualche articolo della stampa. Mi ritrovai sotto gli occhi un’intervista a Kendrick Lamar, peraltro il primo rapper ad aver vinto un Pulitzer per la musica. La sua è una scrittura molto intimista e i suoi testi raccontano soprattutto cosa significa essere un nero giovane e povero nell’America di oggi. Nell’intervista, Lamar racconta dell’esercizio che gli faceva fare la sua insegnante d’inglese: doveva prima scrivere qualcosa che solo lui potesse capire, e poi passare il foglio al compagno accanto. Alla domanda dell’intervistatrice sulle sue abitudini di lettore, il rapper risponde: «leggo il dizionario».
Ed ecco che, mentre mi addormentavo, mi tornava in mente in mente quello che a un certo punto canta Rodolfo, personaggio di quella Bohème su cui, solo un’oretta prima, erano piovuti gli applausi finali: «Ch’io da vero poeta rimavo con carezze!».