In un attimo mi sono trovato nel mezzo di una pioggia intensa. Del resto fin dal mattino presto il tempo non prometteva nulla di buono; e poi siamo pur sempre nel periodo dei monsoni che arriva da sud-ovest superando i Monti Cardamomi e porta con sé la stagione umida. In questo periodo la Cambogia è un incanto. La sua fitta natura è rigogliosa e al massimo della sua espressione, il cielo sempre carico di nuvole nere rende la luce soffusa e uniforme, regalando scorci carichi e drammatici.
C’è un’interessante leggenda sulla nascita della Cambogia che mostra due cose: come sia un paese nato da influenze di elementi esterni, indiani e cinesi soprattutto. E come l’elemento principale della cultura cambogiana sia l’acqua, perché i primi abitanti della Cambogia sono stati i Naga, esseri mitici metà uomini e metà serpenti che dimorano nelle acque dei fiumi e dei laghi. L’acqua nella religione buddhista ha la proprietà della coesione, e per la teoria dei Cinque movimenti, o Wu xing, ad essa sono abbinate tutte le funzioni che sono proprie al riposo e alla quiete. È lo stato del grande yin. Come vedremo, la coesione, il riposo e la quiete sono fondamentali per la rinascita di questo paese.
La leggenda narra la storia di Addicavan, sovrano del regno indiano, che affida al figlio Preah Thaong il compito di proteggere le frontiere orientali dagli invasori barbari. Un giorno, arriva la notizia che il padre ha deciso di togliergli l’eredità. Il giovane torna subito a palazzo, ma ad attenderlo trova le guardie fedeli al sovrano. Viene così cacciato e mandato in esilio. Dopo un lungo ed estenuato viaggio, Preah Thaong giunge nel paese di Kuk-Thlok, e sfinito dal viaggio si addormenta. Al suo risveglio scopre di essere circondato dalle acque e guardandosi intorno smarrito vede la bellissima nagi Lieo-ye, foglie di salice, di cui s’innamora ricambiato. Il padre di Lieo-ye, per consentire la loro unione, beve l’acqua che ricopre quei luoghi e vi costruisce una città, ribattezzandola col nome di Kambuja.
Il mio accompagnatore con il suo tuk tuk si ferma perché non riesce più ad andare avanti. Le strade, non asfaltate e piene di buche, sono diventate una poltiglia rossastra. Questo è il primo impatto che ho arrivando nella regione di Mondulkiri, zona orientale della Cambogia al confine con il Laos e il Vietnam, la meno popolata dello stato, famosa per i suoi mahut, persone che all’interno del villaggio si prendono cura degli elefanti, e che i più romantici hanno ridenominato la “Svizzera della Cambogia” per i suoi tesori naturalistici, primo fra tutti la cascata di Bousra. Questa regione è conosciuta anche perché tra anni Sessanta e Settanta passava da queste foreste vergini una parte del sentiero di Ho Chi Minh, che serviva per portare armi dal Nord al Sud del Vietnam.
Io, sotto questa pioggia torrenziale e con un misero k-way che mi copre a malapena, mi trovo a Pou Lung, un piccolo villaggio di etnia bunong, a quindici chilometri da Sen Monorom, la capitale della regione, dove i gesuiti, molto intelligentemente, hanno reso possibile la realizzazione di una vera e propria armonia religiosa, facendo convivere valori e riti cristiani con culti animisti e buddisti theravada, specchio di quella che offre la natura stessa.
I bunong praticano l’antica medicina tradizionale, influenzata dall’ayurveda e dalla medicina cinese. Il tempio di Neak Poan era il centro della medicina khmer durante il regno di Angkor. Il tempio è situato su un’isola artificiale vicino al complesso di Preah Khan ed è stato costruito per ricordare l’Anavatapta, un lago leggendario che si dovrebbe trovare sull’Himalaya e che ha poteri curativi. Nelle foreste intorno a Sen Monorom si trova il Dialium cochinchinense, albero del tamarindo, o Kalagn in lingua bunong, che è una delle sostanze più utilizzate per la loro medicina tradizionale. Oppure la clausuna excavata, un’erba usata per curare il raffreddore e la febbre. François Chassagne, ricercatore in etnofarmacologia, ha realizzato un paio di anni fa un catalogo delle sostanze utilizzate dalla medicina bunong e ha scoperto che, oltre a molti tipi di piante, anche il latte delle tigri, perso mentre allattano i cuccioli, è un rimedio medicinale, soprattutto per le scottature.
Purtroppo le piante utilizzate per la medicina tradizionale, così come le tigri e più in generale questi villaggi di minoranze etniche, sono in pericolo a Moldulkiri a causa della endemicità dell’accaparramento dei terreni pubblici, il cosiddetto land grabbing. Il gioco è molto semplice: privati o enti governativi, che si sentono i padroni incontrastati della Terra, acquisiscono il diritto di sfruttare terreni che le popolazioni locali hanno coltivato per generazioni. A farne le spese sono proprio queste ultime, che vengono private della loro principale fonte di sostentamento. Tutti i segni di questo duro lavoro si ritrovano sui visi delle donne e degli uomini, per la maggior parte non ancora quarantenni che dimostrano vent’anni in più.
Pochi mesi prima che io arrivassi, una comunità di etnia phnong ha accusato le autorità locali di Sen Monorom di aver firmato segretamente la vendita di ottanta ettari di foresta da cui questa gente dipende per vivere. È successo tutto molto velocemente: un lunedì di marzo Ploen Phearum, un rappresentante del villaggio Laoka, si è svegliato e una volta uscito dalla sua capanna si è visto venire incontro una donna, accompagnata da otto energumeni che si è poi scoperto essere funzionari di polizia, che gli ha comunicato di aver comprato cinquanta ettari di foresta che, nel frattempo, tre lavoratori avevano cominciato a ripulire. Ma non solo, la donna ha continuato a parlargli dicendo che aveva ordinato ai tre operai di distruggere le capanne della comunità per prevenire ulteriori prese di terra nella zona, che ormai considerava “sua”. Il problema è però che questa foresta è demaniale, quindi sarebbe illegale venderla o acquistarla. Ma questo sicuramente non ha fermato e non fermerà la corsa all’accaparramento. Anche grazie alla connivenza tacita del potere locale: in questo caso, ad esempio, il governatore di Sem Monorom, Long Vibol, incontrando la comunità del villaggio Laoka ha candidamente detto che la terra era di proprietà privata e non statale, destando curiosità tra una popolazione per cui non esiste la proprietà privata della terra che invece viene divisa e coltivata in comune con la tecnica agricola del taglia-e-brucia. Si coltiva un terreno finché rende, poi si brucia rendendolo di nuovo fertile per ulteriori coltivazioni.
Il land grabbing è una forma nuova e strisciante di colonialismo che distrugge i particolarismi e tenta di unificare il tutto sotto il credo dell’economia globalizzata. La Cambogia, presa storicamente dalla morsa di thailandesi, vietnamiti e cinesi, ora è stritolata da un potere senza volto, il più pericoloso di tutti. A questo si deve aggiungere che il paese è stremato economicamente e socialmente da una guerra civile durata più di vent’anni, terminata solo nel 1998 con la resa degli ultimi khmer rossi che ha però impedito di lavorare per una ricostruzione pacifica e stabile del paese. Questo disordine ha avuto come vittima principale proprio la natura, in particolare con le deforestazioni che sono cominciate all’inizio del ventunesimo secolo ad un ritmo frenetico per esportare legname in Cina, Thailandia, Vietnam e Malesia.
Il mio accompagnatore, un ragazzo molto timido e riservato sui diciott’anni, mi porta a casa di una ragazza, sua amica, che va a scuola con lui. Fenomeno più che raro in questa regione trovare due ragazzi che studiano e frequentano la scuola superiore: di solito i bambini bunong smettono di andare a scuola subito dopo le medie, per aiutare i genitori nel lavoro dei campi. In queste comunità si vive principalmente di agricoltura e due braccia in più fanno sempre comodo. Chi ha la fortuna di aggirarsi in questa regione ancora molto selvaggia, può vedere lungo il suo cammino splendide e regolari coltivazioni di riso, fragole, caffè, anacardi e pepe, con le sue piante che si sviluppano verticalmente quasi a toccare il cielo. Oppure i ragazzi smettono di studiare perché le scuole superiori sono troppo lontane dai villaggi in cui vivono e quindi semplicemente decidono di non andarci più.
Servirebbe un’oasi
La dispersione scolastica è, insieme al land grabbing, un’altra piaga qui a Mondulkiri, ma direi in realtà che è una questione che riguarda tutta la Cambogia. È un’eredità che i cambogiani si portano dietro dal regime di Pol Pot, pseudonimo di Saloth Sar. Il folle ma lucido progetto di Pol Pot era una combinazione di anticolonialismo e maoismo radicale. Una volta al potere fece evacuare tutte le città per deportare la popolazione cambogiana in fattorie collettive. Dal momento che le città erano la causa principale dell’occidentalizzazione del modo di vita dei cambogiani divenne fondamentale un ritorno alla campagna, al lavoro nei campi, accompagnato da una forma radicale di autarchia. Questa fu accompagnata dall’abolizione del denaro, che era stato introdotto da una riforma imposta dalle autorità coloniali che avevano così instaurato un’economia di mercato, corrompendo i contadini che non avevano mai usato soldi. Infatti la prima cosa che fecero i khmer rossi, una volta entrati a Phnom Penh, fu di andare nella Banca Centrale della capitale cambogiana e bruciare tutto il denaro.
Pol Pot voleva far rivivere i fasti dell’impero di Angkor, di cui i cambogiani sono ancora oggi fieri come mi ha dimostrato Lee, che porta i turisti in giro tra le rovine dell’antica capitale. Durante una chiacchierata mi ha paragonato per importanza e forza l’impero khmer a quello romano.
La rivolta dei khmer rossi è stata la rivolta della gente di campagna contro la gente di città che li aveva sfruttati, la battaglia degli illetterati contro i letterati. Fu così che gli intellettuali divennero i nemici principali di Saloth Sar, perché immagine dell’occidentalizzazione della Cambogia e perché poco adatti alla vita in campagna. C’erano diversi modi per capire chi fosse intellettuale, ad esempio le mani troppo morbide e poco callose, oppure gli occhiali o infine, forse il carattere più ingegnoso, la capacità o meno di riuscire a salire fino alla cima di un albero di palma. In una sorta di gara al massacro, chi non ci riusciva era accusato di essere uomo di lettere più che uomo di campo e ucciso all’istante, spaccandogli il cranio contro il tronco per risparmiare pallottole.
L’idea purificatrice di Pol Pot, che diversi studiosi hanno definito “auto-genocidio”, ha lasciato profondi strascichi nel regno di Angkor. Tutt’ora in Cambogia non c’è una vera classe intellettuale, perché i sopravvissuti al regime del terrore dei khmer sono soprattutto persone che appartengono alla classe contadina, quindi più povera e meno istruita.
Il tentativo di costruire l’“uomo nuovo” ha condotto ad una aridità intellettuale che si rispecchia anche nel problema della dispersione scolastica. Parlando con il mio giovane accompagnatore ho scoperto che l’idea di una “istruzione per tutti”, nata dopo l’accordo di pace di Parigi del 1991 che autorizzava le Nazioni Unite alla supervisione del cessate il fuoco in Cambogia, era rimasta una chimera. Non solo è difficile per i più poveri frequentare la scuola, ma la stessa scuola pubblica non riesce a coprire il programma nazionale obbligatorio, il che ha consentito agli insegnanti di integrarlo con lezioni private dopo l’orario scolastico, sempre all’interno degli edifici scolastici pubblici. Lezioni private che sono una vera e propria tassa per i genitori e che i più poveri non possono chiaramente permettersi. A causa sempre dei bassi salari non è difficile, girando di sera a Siem Reap, Battabang o Phnom Pehn, trovare un passaggio in moto-taxi da chi durante il giorno fa l’insegnante.
Alla fine di questo discorso il mio accompagnatore, che viene da un villaggio bunong sperduto nella foresta di Mondulkiri, nonostante il prossimo anno finirà le scuole, ha un unico sogno: andare a Phnom Penh ma non per frequentare l’università, non gli interessa diventare medico, avvocato o ingegnere, vuole solo lavorare in un posto che gli offra la possibilità di allenare il suo povero inglese. Sembra ormai, nella visione degli stessi cambogiani, che la Cambogia debba essere sfruttata solo ed esclusivamente dal punto di vista turistico. Questo anche grazie a noi che da ormai dieci anni abbiamo fatto del triangolo Laos, Vietnam e Cambogia una delle mete più ambite per riposarci dalle fatiche lavorative annuali. È un cane che si morde la coda e mi sembra che il processo non sia destinato a fermarsi, anzi.
La salvezza viene anche dai fantasmi
Mentre parliamo addentrandoci, come novelli antropologi, in questo piccolo villaggio fatto di case in legno rialzate per proteggerle dalle piogge che qui si abbattono copiose tra maggio e ottobre, mi saltano all’occhio alcune pentole attaccate al muro di una cucina. Durante il regime di Pol Pot, oltre alla distruzione di tutti i simboli delle religioni, erano stati eliminati gli utensili da cucina delle famiglie, obbligate poi a mangiare insieme nelle mense delle fattorie collettive dove erano state deportate. Si è così assistito ad un sistematico annientamento dei nuclei familiari, portato avanti separando gli uomini e le donne ed educando i figli a fare le spie nei confronti dei propri genitori. Tutto questo perché il dittatore temeva che in famiglia, soprattutto durante i pasti, si potesse parlare male di lui e del suo governo. Le pentole, insieme a quattro bambini che, sorridenti e per niente intimoriti da me e dalla mia machina fotografica, giocano tra le pozzanghere insieme ai bufali bianchi, le galline e i maiali, mi fanno sentire il calore di un focolare domestico che tra il 1975 e il 1979 era stato vietato.
La Cambogia oggi è ancora alla ricerca della sua identità, spazzata via dai khmer come se niente fosse. Lo può fare, secondo il mio punto di vista, affidandosi alla famiglia e tentando di ricostruire una classe intellettuale. Il tutto mentre al governo da più di trent’anni c’è Hun Sen, che a vent’anni era entrato nella guerriglia dei khmer rossi, e il suo Partito del Popolo Cambogiano. Come un dittatore, da molti anni fa il bello e il cattivo tempo: ha condannato a dieci anni di carcere Sam Rainsy, leader dell’opposizione cambogiana, che da anni accusa Hun Sen di aver ceduto al Vietnam territori di confine. Anche in questa disarmante contraddittorietà sta tutta la bellezza di questo paese. La Cambogia è un paese in cui convivono, alterandosi, la memoria, il ricordo e l’oblio. Non è facile venire a capo di questa matassa ed è una delle prime cose che si sente, con forza, aggirandosi per il paese.
In Cambogia la ferita causata da Pol Pot e dai khmer rossi è ancora difficile da cauterizzare. La loro presenza è fisicamente viva nelle casette buddhiste che si trovano davanti a quasi tutte le case e ai negozietti che si vedono lungo la strada mentre si percorre lo Stato in autobus. In una sosta durante il viaggio che da Siem Reap mi porta a Phnom Penh, mentre mangiavo noodles fritti in queste mense costruite in mezzo al niente, ho avuto la possibilità di vederne una da vicino. Ha tutte le fattezze e i particolari decorativi di una pagoda, nonostante sia in miniatura. Questi piccoli templi mostrano che in quella famiglia c’è stata almeno una persona morta in modo violento che continua ad aggirarsi, irrequieta, tra i vivi in cerca di pace. Se ne sente molto forte la presenza. L’unico modo per calmare questi spiriti inquieti, i cosiddetti pii, è di costruire loro una dimora dove possano riposarsi e acquietare la loro sete di vendetta.
In Cambogia, seconda da questo punto di vista solo all’Indonesia, si crede molto alla magia bianca e nera, retaggio di antichi culti animisti mai sepolti. Tutti i cambogiani sanno che nel paese si aggirano ancora tanti fantasmi, la maggior parte uccisi durante il regime dei khmer rossi, i cui corpi sono stati gettati nelle fosse comuni da dove ancora, soprattutto durante i periodi di pioggia come questi, riemergono brandelli di vestiti e ossa. Al culto dei morti è legata la festività di Pchoum Ben, che cade tra settembre ed ottobre. Questa festa è collegata alla cosmologia del re Yama, il dio della morte. Durante questo periodo le porte dell’aldilà vengono aperte e i fantasmi della morte, i preta, affamati e assetati diventano molto attivi e sofferenti. I cambogiani vanno nelle varie pagode sparse per il paese a offrire cibo ai bonzi in rispetto e ricordo dei propri morti, ma anche per far sì che alcuni di questi fantasmi cessino il loro periodo di purificazione e trovino finalmente pace, terminando il ciclo di morti e rinascite. Questo accade nei templi che aderiscono al canone buddhista, ma in molti altri luoghi di culto ci si immagina che i vivi offrano direttamente ai morti il cibo, ad esempio lanciando in aria riso oppure buttandolo in un campo vuoto.
In Cambogia tutto ti parla, ossa incluse
Come per i nazisti e i loro campi di concentramento, anche per i khmer la barbara violenza era in netta contrapposizione con la freddezza e l’impersonalità dei luoghi del terrore, come nel caso di Tuol Sleng, che in lingua khmer vuol dire “collina del mango selvatico”, la più importante prigione del regime di Pol Pot, un tempo sede di una scuola media superiore francese.
Era qui che venivano torturati e interrogati i “nemici” del regime e come per i nazisti è solo grazie alla loro folle perizia burocratica, che li portava a trascrivere tutto quello che succedeva all’interno di queste mura, che noi fortunatamente ne abbiamo ancora testimonianza. Entrare in questa anonima scuola con un’architettura molto simile ad altri edifici scolastici che si possono trovare nel paese, dà una sensazione di profondo sconcerto. Un misto di sorpresa e raccapriccio accompagna chiunque entri in queste stanze con i pavimenti ancora incrostati di sangue e in fondo, verso la finestra, un letto di ferro, con catene con cui venivano legati i “traditori” dell’Organizzazione e i loro parenti, incluse le mogli e figli di qualunque età, e una scatola sempre di ferro che veniva data per i bisogni.
Ma si prova ancora più sgomento quando si vede, verso la fine di questo viaggio nell’orrore, le foto di tutte le vittime, fotografate all’ingresso di Tuol Sleng prima che cominciassero le torture. Queste foto furono anche l’unica possibilità che ebbero molti famigliari per capire dove erano spariti i propri cari, di cui avevano perso le tracce dopo la cattura da parte dei khmer rossi.
Tutti questi occhi verso di me, mi ammoniscono sulla crudeltà dell’uomo e molto spesso non riesco a sopportare lo sguardo accusatore, sento il bisogno di abbassare gli occhi. La stessa cosa accade se si visita Choeung Ek, il più importante campo della morte, dove una volta c’era un frutteto e un cimitero cinese. In particolare quando alla fine del percorso si entra nella stupa, un monumento buddhista la cui funzione principale è quella di conservare reliquie, dove si trovano ammassati in teche di plexiglass cinquemila teschi di vittime di Pol Pot.
La stessa natura parla di questo orrore: in Cambogia si dice che gli alberi da cocco più alti sono quelli che sono stati concimati con più morti, visto che per i khmer anche gli oppositori dovevano pur servire a qualcosa.
Il valore aggiunto della differenza
Ma come nel Ta Prohm, uno dei più suggestivi templi di Angkor, dove la natura non solo è un tutt’uno con la storia ma la sta inghiottendo, così in questo piccolo villaggio nello sperduto Mondulkiri il sorriso di questi bambini bunong sta letteralmente divorando la terribile storia del genocidio khmer.
Il sorriso fanciullesco mi ricorda lo sguardo sorridente ed enigmatico di diversi buddha che ho visto a Phnom Pehn, in particolare uno nella posizione del loto sotto un albero nel parco Wat Botum vicino a un monumento in perfetto stile sovietico rappresentante l’amicizia tra Vietnam e Cambogia. In realtà questa scultura commemorativa puzza solo di retorica vista la rivalità che ancora esiste tra vietnamiti e cambogiani per colpa di un senso di inferiorità dei secondi nei confronti dei primi, causato da una infinita disputa sui confini e aggravato dal ricordo delle passate glorie dell’impero di Angkor.
Ma ho scoperto, parlando con diversi guidatori di tuk tuk, che i cambogiani non sopportano neppure i cinesi della diaspora, quelli che vengono da Taiwan, rei secondo loro di considerare la Cambogia alla stregua di un grande supermercato, dove l’unica cosa da fare è investire in attività commerciali non sempre pulite.
Per questo mi viene da pensare che la Cambogia non debba ripartire dai suoi posti più turistici, meta soprattutto di americani e cinesi, che piano piano stanno smantellando la bellezza di un luogo ancora intatto e preda della sua struggente malinconia. Penso soprattutto a Siem Reap, sosta obbligata se si vogliono vedere i templi di Angkor Wat. Questo splendore era stato scoperto da Pierre Loti, pseudonimo dello scrittore Louis Marie Julien Viaud, che, ancora ragazzo, aveva scoperto il maestoso tempio di Angkor su una vecchia rivista coloniale. Anni dopo, nel 1901, una spedizione lo conduce in pellegrinaggio nei luoghi dei suoi sogni d’infanzia, svelando ai suoi occhi stupiti tutta la maestosità delle rovine e la bellezza del paese. La stessa fascinazione del luogo ebbe lo scrittore André Malraux che, una volta dilapidate le ricchezze della moglie Clara Goldschmidt, aveva deciso di andare in Indocina dove recuperare reperti archeologici. Rimuove così un bassorilievo dal tempio di Banteay Srei per rivenderlo ad un collezionista. Scoperto, viene condannato nel 1924 a tre anni di carcere. Sarà poi perdonato dallo stesso re Sihanouk che, parlando di Malraux, lo dichiarerà innocente perché il suo era stato un “furto d’amore”.
Che grande differenza tra la luce soffusa e piena di suggestione che regalano le tre guglie che si possono vedere se si decide di visitare Angkor Wat appena dopo l’alba e le luci artificiali e al neon di Pub Street a Siem Reap, dove la sera sembra di essere in una qualunque e anonima via della movida balneare. È un peccato vedere questa corsa sfrenata allo stile di vita occidentale, soprattutto in un paese che invece dovrebbe fare della sua differenza, nata grazie ad un intreccio di induismo, buddhismo e animismo, un valore aggiunto.
Ma mentre penso a queste cose nella stanza di un albergo spartano e molto economico, di quelli che fortunatamente ancora si possono trovare a Siem Reap, mi torna viva alla mente l’immagine dei bambini che corrono sorridenti verso di me, con un gesto di sfida. È proprio da questa innocente creaturalità, rappresentata dallo sguardo felice dei bambini, ossia dalla consapevolezza di debolezza, impotenza e nullità di fronte all’infinità del tutto, come insegna del resto il buddhismo, che la Cambogia deve ripartire. Ricordandosi quel detto birmano che recita: se incontri qualcuno senza sorriso, regalagli uno dei tuoi.