Ogni romanzo di Ian McEwan ruota attorno a un tema che lo scrittore viviseziona, rigirandoselo tra le dita, affidandolo alle mani di altri affinché anch’essi possano osservarlo dall’esterno. Il tema centrale della Ballata di Adam Henry (Einaudi 2014) è la verità della vita, che arriva a sovrapporsi e quasi oscurare i meri concetti di giusto e sbagliato attorno ai quali sembra articolarsi il romanzo. Non è, però, la trama il fulcro dei romanzi di McEwan quanto piuttosto lo sguardo che egli pone sul reale, sulla vita, sull’umano. Uno sguardo che è al contempo esterno e interno, una tecnica che ha appreso da scrittori modernisti come Virginia Woolf, come egli stesso ci lascia intendere in Espiazione (Einaudi 2003). Questo far sentire il lettore al contempo estraneo e coinvolto, dentro e fuori la vicenda, questo fargli cambiare continuamente idea e prospettiva, sembra quasi impossibile da rendere sullo schermo. Eppure in Il verdetto, il film tratto da La ballata di Adam Henry, in uscita nelle sale italiane il prossimo 18 ottobre, questo accade in diversi momenti, forse proprio grazie al fatto che la sceneggiatura del film è scritta dallo stesso McEwan. A funzionare è stata soprattutto la reciproca scelta di regista e sceneggiatore: “Se mai diventerà un film, tu sarai la persona che lo dirigerà” aveva detto McEwan a Richard Eyre, e allo stesso modo Eyre aveva preteso che fosse McEwan a scriverne la sceneggiatura. “In un primo momento ho avuto una reazione istintiva piuttosto negativa,” afferma lo scrittore britannico, “un romanzo ti consente di accedere alle riflessioni di una persona, mentre una sceneggiatura no e trovare un modo per trasferire quello che in un romanzo è pensato o implicito in dialoghi o azioni tra individui in un film è una sfida sul piano intellettuale ed emozionale”. Una sfida che risulta vinta anche grazie alla lunga esperienza teatrale di Richard Eyre, che regala alla pellicola la sobrietà, la precisione e la compostezza necessarie a mettere in scena i personaggi del romanzo.
Protagonista è Fiona Maye, una giudice della Sezione famiglia dell’Alta Corte britannica interpretata da una superba Emma Thompson. Avendo da poco presieduto un caso complesso sul piano etico e impegnativo sul piano emotivo che riguardava due gemelli siamesi, Fiona è chiamata a pronunciarsi con la massima urgenza sull’opportunità o meno di consentire a un ospedale di praticare una trasfusione ad Adam Henry, un quasi diciottenne Testimone di Geova affetto da leucemia, contro la volontà sua e della famiglia. Come sempre nei romanzi di McEwan (forse dovremmo semplicemente dire come sempre nella vita) più eventi hanno luogo contemporaneamente e su livelli diversi, e così mentre segue questa delicata vicenda Fiona si trova a dover affrontare una fase cruciale della sua vita privata, in cui il marito, il professore universitario Jack (un eccellente Stanley Tucci), reclama più attenzione e desidera riaccendere la passione tra loro. “Presumo vada ad aggiungersi al lungo elenco dei miei personaggi che cercano di condurre un’esistenza razionale, ma si rendono conto che non è facile e che la razionalità non sempre protegge dagli alti e bassi che la vita riserva”, spiega McEwan, e in effetti Fiona Maye ricorda a tratti Henry Perowne, il protagonista di Sabato (Einaudi 2005), un uomo fastidiosamente perfetto che è allegoria dell’illusoria sicurezza in cui viviamo dopo l’11 settembre. Come sempre però McEwan dota i suoi personaggi di grande umanità: “non hai mai l’impressione di guardare una scacchiera di imperativi morali: sono sempre individui che vivono la loro vita dalla quale scaturiscono delle azioni, a volte benevole, a volte disastrose”, afferma il regista. Per questo motivo McEwan sapeva, prima ancora di iniziare a lavorare allo screenplay, che il film avrebbe dovuto essere molto incentrato sull’attrice protagonista, per cui l’esperienza teatrale di Eyre e il talento duttile di Thompson si dimostravano un connubio perfetto. Fiona è una donna che ha dovuto imparare a sopprimere ogni emotività per poter svolgere la propria professione, e così al raggiungimento del culmine della carriera corrisponde una frantumazione del piano personale, e il giudice che sa sempre come dosare e usare le parole appare come un’analfabeta emotiva durante le discussioni col marito.
La sobrietà della recitazione si accompagna a una sobrietà registica. Il verdetto è un film dall’impianto classico, un courtroom movie senza particolari effetti scenici, con una fotografia quasi banale, tanto è cruda nei colori e nelle inquadrature. Ma è proprio questa banalità la cifra che lo rende rispettoso nei confronti del romanzo, dove lo scrittore più volte indugia su gesti e luoghi della quotidianità dei personaggi, poiché al centro della riflessione c’è proprio la conciliazione di straordinarietà e quotidianità. Lo scenografo Peter Francis sceglie di non far presiedere al giudice Maye un’aula di tribunale antica e sontuosa, ma un’aula moderna, cui accede dal corridoio del proprio ufficio, bussando con un singolo tocco. Tutto è domesticizzato, anche a livello emotivo, le forme e i colori sono rigorosi per descrivere il regimentato mondo giuridico inglese ma anche per raccontare come esso sia parte integrante di una normale routine lavorativa della giudice. L’unico luogo fortemente caratterizzato è l’appartamento di Fiona Maye alla Gray’s Inn, che racconta per inquadrature una rassicurante e raffinata dimensione domestica alto-borghese. Eppure, proprio nell’appartamento hanno luogo scene famigliari tutt’altro che quiete e rassicuranti; così quegli arredi ricercati e colti, quei legni che conservano una storia, contribuiscono a creare maggiore disorientamento nello spettatore, che riesce in questo modo a provare lo stesso dolore dei coniugi per la frantumazione di una vita potenzialmente perfetta. Se nel romanzo siamo spinti, attraverso una sapiente costruzione retorica, a convincerci a turno di una verità e del suo contrario, nella sceneggiatura McEwan agisce per sottrazione. Non cede alla tentazione di condurre per mano gli spettatori con lunghi monologhi o dialoghi, scegliendo piuttosto silenzi, frasi corte, incisive, fatte solo delle parole strettamente necessarie, e così facendo lascia spazio di riflessione allo spettatore. Anche le inquadrature fanno immediatamente entrare nella routine dei personaggi; non percepiamo mai la grandezza delle Royal Courts of Justice fino a quando non ne vediamo l’atrio attraverso gli occhi di Adam Henry che per la prima volta mette piede nella Great Hall e ne ammira il magnifico impianto architettonico gotico vittoriano, una visione che ben si accompagna alla sua idealizzazione del giudice Maye, che non solo gli ha imposto la vita ma, con una insolita intrusione nella sua stanza di ospedale per valutare il caso di persona, gli ha aperto gli occhi sulla bellezza, sulla musica e la poesia. E ci sarebbe tanto da dire sul potere salvifico dell’arte che fa capolino in ogni lavoro di McEwan.
Le scelte stilistiche del film sono tutte all’insegna di un rigore che sottolinea ancora di più il peso sulle spalle di Fiona, il suo ruolo di donna che deve sempre saper distinguere il giusto dallo sbagliato, che deve non solo conoscere ma decidere la verità. “Interpretare un personaggio che deve gestire un tale livello di percorso a ostacoli intellettuale è stato stimolante e rigenerante, perché da una simile capacità mentale scaturisce una grande energia che forse è quello che permette loro di andare avanti oltre un livello di normalità”, confessa Emma Thomson, che ha voluto conoscere donne magistrato esperte in diritto di famiglia per documentarsi: “Il lavoro che svolgono, la vita che conducono, la fatica e il peso della responsabilità mi hanno lasciata senza fiato.” Allo stesso modo lascia senza fiato la sua recitazione mai sopra le righe, in cui ogni gesto, ogni sguardo, ogni intonazione sembra corrispondere a quelli di una giudice dell’Alta Corte.
Thompson non è la sola a calzare perfettamente nella parte, anche il promettente Fionn Whitehead (il protagonista in Dunkirk di Christopher Nolan), è un perfetto Adam Henry. Ne rende la luminosa intelligenza già dalla prima apparizione, sdraiato nel letto d’ospedale; è brillante, lucido, ma è al contempo un animo puro, semplice, come richiede il suo essere cresciuto tra i Testimoni di Geova. Fiona comunica con lui attraverso la bellezza e la poesia – la canzone sulle parole di Down by the Salley Gardens di Yeats è il filo rosso che unisce tra loro le emozioni dei due protagonisti – e gli apre gli occhi sulle potenzialità che la vita gli offre. Ma proprio quel gesto troppo azzardato, l’unica perdita di equilibrio di Fiona, che le ha fatto mettere un piede nel territorio dei sentimenti anziché restare in bilico sulla ragione, lo travolge e stravolge clamorosamente la sua vita.
Il verdetto è un film sulla giustizia e sulla verità, termine che costella tanto il romanzo quanto il film, ma è soprattutto un film sull’umanità, perché non c’è nessuna verità, come non c’è alcuna giustizia, se non c’è umanità. Umanità che traspare dai piccoli gesti, dagli sguardi, da emozioni mai urlate ma lasciate allo spettatore, perché ognuno le elabori personalmente e privatamente, come ogni opera d’arte dovrebbe lasciarci fare.