Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione ragiona con Laura Di Corcia, autrice della recente raccolta poetica In tutte le direzioni (LietoColle 2018).
Cara Laura,
con la complicità di numerosi spostamenti in treno, ho avuto modo di leggere e rileggere In tutte le direzioni, e ci tenevo a lasciarti qualche impressione (prima di accingermi a leggere la tua raccolta precedente, Epica dello spreco).
Comincio da un giudizio sommario che tenterò poi di articolare nel resto della nota: il libro mi pare abbia molto potenziale ma sia diseguale nella riuscita complessiva. Più in dettaglio: la sua forza sta nella spinta di base, cioè nell’investire la poesia non tanto e non solo di un ruolo civile-sociale (mi appoggio alla bella nota di Giuseppe Langella su «Atelier») ma di un impianto corale, di un voler piegare un dettato essenzialmente lirico a finalità non-liriche, cioè di rappresentazione collettiva, di affresco fra l’esistenziale e il geopolitico, con effetti spesso potenti, quasi mitopoietici.
Per farlo, e qui sta il punto cruciale – la difficoltà intrinseca che porta a certe cadute – tu impersoni voci altre, dai loro parola, un po’ come un menestrello nelle sue ballate o un drammaturgo nelle sue opere. Questa è una via ben poco frequentata in Italia, e il coraggio di perseguirla ti fa onore. Non è però facile “entrare” nella psiche altrui, e meno ancora lo è entrare nella psiche collettiva: il prezzo è quello della stilizzazione, e cioè di una sorta di schematizzazione-semplificazione psicologica, se non una (almeno parziale) mitizzazione romanzata. Per illustrare il punto parto da Italiani a New York (p. 42), che – per tema e modalità – mi viene da accostare a Italiani d’Argentina e Naviganti di Ivano Fossati. Si comincia da un noi corale (lo stesso che, per esempio, nelle poesie a pp. 21 e 22), ma la confessione deve giocoforza restare generica: nella prima terzina un gruppo anonimo viene ritratto pensoso alla maniera dell’io lirico (gioca sulla suggestione anche le geometrie del mare, che mi pare metafora ornamentale, essendo io già in passato incappato in esempi come le geometrie dell’aria e affini: prototipicamente invece il mare pare il contrario dell’ordine, della geometria). Spingi il pedale sul registro emotivo-confessionale («ma eravamo soli», «rimpiangevamo le onde»), e l’impressione che ne deriva è che l’individualità di ciascun migrante – quale si potrebbe desumere da fonti documentaristiche – viene annullata, e quindi ogni possibile tensione e dialettica (per esempio, fra chi disperato grida e fra chi attende in silenzio) viene cancellata. Un discorso simile penso si potrebbe fare per Gruppo di ragazzini siriani (p. 67) e Gruppo di ragazzine siriane (p. 69), sebbene questi due testi siano di ben altra pasta espressiva (fenomenale, per esempio, la similitudine del «rancore che ribolle | come una pelle di serpente abbandonata», ma sulle scelte stilistiche singole mi soffermo più avanti).
Devo confessarti che questa mia visione è, oltre che assai parziale, estremamente militante: ho sempre male sopportato la presunzione (anche in buona fede) di “parlare per altri”, e a livello compositivo io vedo solo due soluzioni per sfuggire al rischio della retorica. La prima è quella di raccontare storie di singoli, soffermandosi su dettagli più idiosincratici: cosa che ti riesce assai bene nei versi 3-9 di Giovane uomo che viaggia da solo (p. 61), nei primi due versi a p. 40, ma anche, forse più sorprendentemente, in Madre (p. 58), probabilmente perché qui davvero c’è, più riconoscibile, un archetipo in cui sembri trovarti a tuo agio – quello della dolcezza e vigilanza materne, espresse in una sorta di “dialogo interiore” (mi appoggio a questa espressione ibrida perché il bimbo non è davvero un ricevente del dialogo, e quello della mamma non è davvero un monologo). L’altra possibile soluzione generale sarebbe quella di ammettere la propria estraneità dal principio, adottando una terza persona e un punto di vista limitato per inscenare (per lacerti, dettagli, voci) il dramma di chi lascia una terra, le sue speranze. Questo ridurrebbe senz’altro il potenziale empatico, di rispecchiamento o quantomeno allineamento di prospettiva, ma d’altra parte aiuterebbe a problematizzare il tutto. Mi sono soffermato molto su questo punto, mettendone senz’altro in ombra molti altri, perché era un discorso che mi premeva di fare, e il tuo libro me ne ha data l’occasione.
Trovo invece che quando parli di te, cioè quando io lirico e io empirico sembrano coincidere, i risultati siano altissimi. C’è in particolare una poesia che (perdonami l’iperbole) da sola varrebbe quasi quanto il resto del libro. Mi riferisco alla poesia a p. 39, Abbiamo eretto barriere, steccati (ma anche quella a p. 38, dove l’io e il tu sembrano gli stessi). Ricondurrei l’efficacia, e lo statuto quasi “classico” di questa poesia, a questi elementi: 1. L’allusione alla separatezza individuale (barriere) sullo sfondo di quella geopolitica (vedi Ungheria ecc.) che riverbera dal macrotesto; 2. la drammatizzazione di una polarità concettuale (mente-corpo); 3. la fusione, equilibratissima, fra argomentazione ed esperenzialità, fra il portare avanti una tesi («i corpi riconciliano») e il dimostrarla con un impeto di confessionalità disarmata: «non so se hai capito con quale disperazione | mi sono aggrappata al tuo collo», dove l’aggrapparsi è sì sensuale, ma anche funzionale al discorso sulla gravità e sulla caduta svolto in precedenza (il piombo); e 4. l’equilibrio stilistico, nel contrappunto fra versi inarcati e versi stoppati, l’evitare metafore e similitudini un po’ ornamentali che invece dissemini assai spesso nel resto del libro (nella prima parte soprattutto).
Finisco questa nota, molto parziale ma spero utile, soffermandomi appunto sul tuo amore per le similitudini. Certe sono (per il mio gusto e anzi la mia “teoria” estetica) molto convincenti, come la pelle di serpente menzionata prima, o «perle come bombe» (p. 14) perché la somiglianza visiva (sferoidi di diversa taglia) contrasta con lo scarto coloristico (bianco vs nero) e soprattutto concettuale (bellezza vs. distruzione). Insomma, molti e fecondi rapporti intercorrono fra target e source domain del paragone. Anche «braccia lunghe come navi» (p. 15) è riuscita, perché l’elemento comune è quello dell’accoglienza, un sema che struttura l’intero libro. «Una bestemmia bolliva | come un acino d’uva» (p. 23) è altrettanto riuscita, probabilmente perché l’archetipo rurale è in entrambe e perché acini e bestemmie vengono entrambe a contatto con la bocca. Ma «avvelenammo le navi come se fossero corvi» (p. 21), «hai agito come se il cervello | fosse un fenicottero» (p. 28) o «le luci della città sembrano balene» (p. 40) non rispondono a quei requisiti, hanno un ché di gratuito che sfiora il nonsense per via della distanza concettuale fra source e target domain. Ma vedo con piacere che queste costruzioni (così come le numerose metafore genitive) scemano nella Parte Terza, dove il tono si fa più asciutto (e fra parentesi vorrei lodare la riuscita ritmico-immaginifica del Preludio di pp. 51-3, eccetto alcuni passaggi come «al di qua ci siamo noi fermi e muti | in un eterno nulla», per il motivo spiegato nella prima parte della nota) e insomma è il discorso che guida lo stile, non lo stile che guida il discorso. Un altro tratto che non mi permette di partecipare la tua poesia come vorrei è l’uso molti sostantivi plurali non post-modificati, spesso a potenziale cosmico-archetipico (notte, silenzio, cielo, nuvole, luna…): questa, come forse sai, è un’altra mia battaglia estetica di lunga data. Credo che potresti assai ridurre queste presenze nei versi futuri senza che l’impatto abbia a risentirne, anzi.
Concludo dicendo che il libro contiene molte più intuizioni di quelle che ho potuto rilevare in questo spazio (i finali gnomici sono spesso riusciti, ad esempio, anche se la loro inappellabilità potrebbe essere stemperata in una visione più dialettica e meno definitoria-definitiva), e che da anni la mia sensibilità ammette in poesia molte meno cose di quante siano possibili – e quindi prendi, come so che farai, tutte queste mie indicazioni con la giusta distanza.
Davide Castiglione
Valenza, 19/08/2018
Caro Davide,
ti rispondo dopo due settimane di riflessione su quanto hai scritto palesando il mio imbarazzo e la mia difficoltà a parlare del mio lavoro. Prendere distanza dal proprio libro è in fondo un piccolo lutto, e bisogna rispettare i fragili tempi di elaborazione di queste tappe di iniziazione. Comincio col dirti che non so come ringraziarti per la profondità e puntualità con le quali ti sei accostato alla mia raccolta, una lettura – la tua – che ripaga le energie messe in atto per cercare di costruire un libro credibile. Parto da qualcosa di molto personale, che lo stesso Giuseppe Langella ha sottolineato nell’introduzione scritta per «Atelier»: la mia storia familiare è intrisa di spostamenti, da Sud a Nord, e per quanto mi riguarda dall’Italia alla Svizzera in età adolescenziale, un passaggio non proprio indolore. Per questo ho sempre percepito il tema del confine come qualcosa di strutturante la mia identità, una crepa, una faglia che mi fonda e al contempo mi sbilancia, costringendomi a sporgermi. Credo che questa sia la ragione profonda per cui i testi che compongono In tutte le direzioni sono alla ricerca delle voci altrui, voci che documentano spostamenti i quali fondano una nuova identità traballante, instabile, bisognosa di puntelli.
Ne approfitto per dire due parole sul mio modo di scrivere: non elaboro mai progetti a tavolino (almeno, non ad oggi). Il disegno generale, il fatto che mi stessi muovendo verso l’orizzonte tematico della migrazione mi è stato chiaro solo a metà percorso, dopo aver scritto quella che ora è riconoscibile come la prima sezione del libro, che era già compilata prima di pubblicare il mio primo lavoro in versi, Epica dello spreco. Posso ben comprendere il tuo scetticismo riguardo al parlare per altri – e un’altra obiezione che si potrebbe fare, e che mi sarei aspettata, è che la lingua utilizzata non è assolutamente mimetica: in effetti il mio scopo non era quello, pur rispettando chi si cimenta in questa operazione che trovo difficilissima, delicatissima. Il mio scopo (scopo è da intendersi come la “direzione”, perché nei territori della poesia – ma questa è una mia personalissima e discutibile posizione – si viaggia da ciechi, si inseguono piste che si palesano solo a fine lavoro, in una sorta di post-consapevolezza) era quello di scardinare e forzare il perimetro di un io franto, scisso, di riconoscere quanto di io c’è in quel voi.
I territori profondi dell’essere sono un basamento comune e lì mi piace rovistare, seguendo una traiettoria geopolitica ma anche psicanalitica, se è vero che esistono archetipi comuni e che la figura dello straniero ci appartiene e forse ci fonda come esseri umani (Girard scriveva che non ci fa paura ciò che è diverso, ma quello che riconosciamo come simile). Attraverso queste voci, che mi è piaciuto lasciar crescere così, una dopo l’altra, sono andata a scandagliare un substrato che il linguaggio stesso fonda e custodisce. Il dialogo, la scena che diventa quasi teatrale, è un modo per cercare chi siamo, riaprire il trauma da cui parte la ricerca di un’identità separata (senza distacco, crepa, trauma, saremmo ancora fusi nella simbiosi): tutti noi custodiamo dentro qualcosa di estraneo, ovvero «l’ebreo (mi cito) che nasce come un brivido in cantina» – è quel nucleo che ci tiene in vita e al quale apparteniamo, anche se paradossalmente lo conteniamo. In questo libro ho voluto rischiare anche a livello linguistico. La direzione in cui viaggia il libro è infatti anche quella diacronica: da un passato che affonda le radici nel mito (gli Argonauti) – e di qui l’uso dei sostantivi a potenziale cosmico-archetipico che non ti convincono – si arriva ad un presente un’altra volta scisso, franto. La realtà schizofrenica del presente, del mondo urbanizzato (non dico Occidente perché mi pare riduttivo). È come se il libro viaggiasse dal passato al presente, anche da un punto di vista delle suggestioni letterarie – tutt’oggi esistono realtà dove gli archetipi e il linguaggio ad essi legati sono ancora molto potenti, e penso al (a dire il vero non proprio recentissimo) saggio di De Martino sulla magia, che indirettamente ho citato in alcuni versi della prima sezione («cercheremo i cadaveri come i maghi d’Africa»). Mi piaceva richiamarle, in un percorso testuale che va davvero in tutte le direzioni, non solo da un punto di vista spaziale ma anche cronologico. Insomma, credo che nell’economia del libro, nella ricerca di una voce corale che però al contempo rispecchi lo straniero dentro di noi, la lingua scelta abbia un senso. Ci tenevo infine a ringraziarti di nuovo, perché con questa tua lettera mi hai stimolato a concettualizzare, esercizio che non pratico molto, non riguardo alle mie cose. Spero di aver risposto a tutti i dubbi e di aver fugato qualche perplessità.
Un abbraccio,
Laura