La visita alla nona edizione del Festiva della fotografia etica di Lodi (6-28 ottobre 2018) ha una sorta di antefatto, anch’esso legato a un’immagine fotografica. La fotografia è quella apparsa sui giornali nazionali dello squallido striscione esposto da una formazione della destra neofascista a sostegno dei noti provvedimenti assunti dall’amministrazione leghista lodigiana e discriminatori del diritto dei bambini di origine straniera ad accedere alle mense scolastiche. Nella fotografia si vede lo striscione appeso sulla cancellata del palazzo comunale, sovrapposto proprio ai pannelli che presentano i progetti inseriti nel circuito del festival. L’immagine sembra suggerire l’idea di due atteggiamenti verso il reale che sono – o vogliono essere – opposti. Fine dell’antefatto, il cui effetto a livello di suggestioni tornerà utile per una riflessione conclusiva.
L’ingresso in piazza della Vittoria, la principale di Lodi, offre un bel colpo d’occhio. Da là, sede della biglietteria del festival (per la precisione nell’attigua piazza Broletto), si dipana il filo dei possibili itinerari tra le ventitre esposizioni – a cui si aggiungono le numerosissime del Circuito Off Festival – dislocate in sette luoghi del centro cittadino di significativo interesse architettonico e artistico, che aggiungono valore alla visita.
Se l’attualità dello scontro politico pervade inevitabilmente l’atmosfera della cittadina, è proprio l’attualità dei titoli dei giornali di queste settimane a fare da filo conduttore di una parte dei progetti presentati. E’ il caso, ad esempio, di Vivere sotto una cupa minaccia, del genovese Michele Guyot Bourg. Il lavoro, realizzato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ha lo scopo di documentare la vita negli spazi esterni e interni vicino e sotto i viadotti che attraversano il capoluogo ligure. Inevitabile protagonista, agli occhi del pubblico in questi giorni, il ponte Morandi, la cui presenza in alcune delle fotografie motiva evidentemente l’inserimento in corsa del progetto di Guyot Bourg in questa edizione del festival. In realtà, superata la prima lettura emozionale e potenzialmente polemica che di queste immagini si fa oggi dopo il crollo del ponte, dal lavoro emerge un taglio meno cronachistico, e piuttosto rivolto alla più meditata documentazione di un’atmosfera e persino di una sorta di estetica potente e brutale prodotta dallo slanciarsi dell’oggetto ponte sopra la valle e sopra le case, dominate e in certi casi inglobate nell’opera ingegneristica. Ne emerge una riflessione critica sull’idea di appropriazione dello spazio, su quella poetica della forza e persino della pesantezza del calcestruzzo, oggi superata e disconosciuta, ma che nel dopoguerra era abbracciata come segno di riscatto e slancio verso una modernità finalmente raggiunta. In quest’ottica il progetto fotografico isola, finalmente, dal vociare intorno al fatto contingente del crollo, e riconnette a un livello di riflessione più profondo e dagli orizzonti più ampi sulla realtà, sulla sua complessità e sulle sue cause ed implicazioni, di cui gli eventi più o meno importanti che costellano la nostra cronaca sono conseguenza. E’ un merito del mezzo fotografico usato con sapienza e un ottimo suggerimento su come avvicinarsi, da visitatori del festival, agli altri molti temi contenuti nelle esposizioni.
Ad esempio, al “pieno” del cemento dei viadotti genovesi, fa da contraltare il “vuoto” di alcune immagini proposte in Vite afgane, di Shah Marai, esposta nello stesso Palazzo Modignani: l’Afghanistan come un paese svuotato. In una delle fotografie più belle, un bambino calcia un pallone e, sulla traiettoria del suo tiro, appare sullo sfondo la cavità lasciata vuota dalla distruzione di uno dei Buddha di Bamiyan: come una gigantesca porta da calcio, che ora individua un puro spazio. A un’altra idea di svuotamento, meno materiale e più culturale, forse persino umano, rimanda una seconda immagine, quella del gioco di due bambini – la cui esperienza di vita è evidentemente limitata al tempo di guerra – che si puntano a vicenda due pistole giocattolo alla fronte, sorridendo.
Accettando questa modalità di sguardo, al livello contenutistico delle fotografie si aggiunge, molto proficuamente (cosa ovvia, a ben pensarci, ma resa meno automatica dallo srotolarsi continuo delle notizie e dei dibattiti in corso), il concorso del loro livello formale alla resa di un significato più pieno. Ciò vale per le fotografie di Filippo Venturi (Fabbricato in corea / Sogno coreano) dalle due Coree, disposte sulle due pareti opposte di una sala separata da un simbolico trentottesimo parallelo. Più che le persone e gli oggetti ritratti, è la luce scelta per le immagini la migliore chiave di lettura del lavoro: vivace, ma di una vivacità artificiale, quasi da spot pubblicitario, quella dei luoghi di lavoro del terziario avanzato sudcoreano;; più ovattata e lattiginosa, invece, anche per via della nebbia e dello smog che avvolgono i massicci edifici nordcoreani, quella delle scene di vita sotto il regime locale, rappresentato nelle strade dalle onnipresenti divise grigioverdi che suscitano un’idea di primo Novecento.
In fatto di scelte stilistiche nella realizzazione delle fotografie uno dei lavori di maggiore interesse sembra Le bambine rapite da Boko Haram di Adam Ferguson, dedicato alle storie di giovanissime donne rapite, torturate, addestrate per la realizzazione di attentati e, infine, ribellatesi. Ritratte tutte con il volto coperto – le sagome appena illuminate e distinguibili su uno sfondo scuro – queste donne sono portate fuori dal tempo e dallo spazio: quasi portatrici di un dolore assoluto, appaiono qui come figure ultraterrene o sacerdotesse di un culto ancestrale. La loro storia di attraversamento del male fino al riscatto e a una nuova speranza è astratta dal contesto nigeriano e proiettata su una dimensione di carattere esistenziale e assoluto.
Per questa via si arriva a uno dei contenuti più forti di questa edizione del Festival della Fotografia Etica, vincitore del Master Award 2018 nella sezione World Report Award, e assunto a progetto di copertina del festival stesso: Apolidi, abbandonati e indesiderati: la crisi dei Rohingya di Paula Bronstein. Le fotografie documentano le scene di fuga disperata e, infine, di approdo nei campi profughi di individui sottoposti a persecuzione e costretti in condizioni e situazioni che eccedono per gravità l’immaginabile (è un’esposizione, questa, che può mettere alla prova il visitatore). Le immagini hanno sostanzialmente un carattere cronachistico e testimoniano scene di massa o azioni di individui isolati rispetto allo sfondo dell’esodo collettivo. Tuttavia, l’oggetto di ripresa giunge tanto a toccare un’idea di male e di dolore assoluti che molte fotografie di tale realtà sembrano assumere un carattere quasi simbolico, entrando in dialogo con un intero repertorio iconografico artistico: i giovani e le giovani che, avanzando nel fango, recano sulle spalle i padri e i figli sfiniti sono tanti Enea gravati dal peso di altrettanti Anchise, sono tante Pietà che forzano i confini di una tradizione religiosa per descrivere la sofferenza umana. Allo stesso modo, i corpi ammassati alla ricerca di un attimo di ristoro giacciono come sulla zattera della Medusa, sradicati, e in balia dell’indifferenza del mondo.
Urtato da queste e dalle molte altre schegge di realtà proposte nelle sedi espositive il pubblico del festival – lo si è verificato attraverso numerosi scambi di pareri – è impressionato, commosso, interpellato, sollecitato a una prospettiva critica e a una presa di posizione ideale. Se Il sottotitolo del festival è Quando la fotografia parla alle coscienze, il risultato può dirsi raggiunto.
Ma oggi, in Italia, in questa Lodi ascesa al piano dell’attenzione nazionale per ragioni, per alcuni, così negative, questa funzione di pungolo sembra un risultato parziale. Perché, ora più che mai, la sensazione è che ciò riguardi e coinvolga un pubblico tutto sommato già positivamente sensibile e attento nei confronti della realtà, oltre che disponibile, se non coscientemente alla ricerca dei sentimenti poco sopra elencati, senza che sia minimamente scalfito il fronte opposto: quello dei seguaci dei predicatori del sovranismo, della chiusura, della xenofobia e delle discriminazioni. E’ quell’idea di separazione e di totale opposizione tra due aree della nostra società emersa dall’antefatto. Lo si pensa uscendo dalle sedi espositive, riguadagnando la piazza centrale di Lodi, chiusa in uno dei suoi lati dal già citato palazzo comunale. Ci si mescola fisicamente a molte altre persone di passaggio, di sicuro anche a quelle che hanno approvato e sostenuto i noti provvedimenti leghisti. Infine, la coscienza sollecitata dal festival non è tanto quella dell’appagamento di un bisogno di informazione e di compartecipazione a uno sguardo critico sul mondo, quanto piuttosto quella di un problema: come trasmettere la consapevolezza e l’inaccettabilità delle ingiustizie e delle discriminazioni, come rendere partecipi di una comune base di cultura civile anche coloro che sembrano calpestarla? Proprio come i componenti dell’amministrazione lodigiana, che per protrarre il gioco del consenso hanno colpito bambini delle scuole cittadine: piccoli studenti in molti casi somiglianti a quello ritratto nello scatto di Bente Marei Stachowske (sezione Single shot award, spazio Ex Cavallerizza), avvolto dai soccorritori nella coperta termica. Nonostante il suo e i loro sorrisi impressionino e commuovano.