Mercoledì 7 novembre esce nelle librerie Tutte le ragazze avanti! (add editore), un’antologia curata da Giusi Marchetta, che ha raccolto le voci di 11 autrici (scrittrici, blogger, esperte musicali e di serie tv, ricercatrici, social manager), che hanno raccontato cosa voglia dire crescere “femminista” e che significato abbia per loro questa parola. Pubblichiamo di seguito un estratto dall’introduzione di Giusi Marchetta (che ringraziamo, insieme all’editore, per la disponibilità).
Di questi temi parleremo, insieme a Giusi Marchetta, Giulia Perona (di Senzarossetto, anche lei nell’antologia) e Alessandro Mari, durante un incontro a Bookcity Milano: Scrittrici e scrittori: generi a confronto, domenica 18/11, ore 18.30, al Circolo Filologico Milanese.
Vi aspettiamo!
Il ricordo più vivo che ho della mia infanzia è che non volevo essere una bambina. Mi sembrava che ci fosse qualcosa di diverso nel mio modo di stare al mondo rispetto a quello di mio fratello e dei suoi amici maschi: c’erano più regole sull’andare in giro da sola e più servizi da fare in casa; muri spessi separavano i piatti da lavare, i pavimenti e i panni sporchi dagli uomini come mio padre e mio nonno: per questo non li vedevano e non se ne occupavano. E poi c’erano parole solo per le ragazze, quelle che servivano per indicare chi metteva gonne troppo corte, rideva troppo forte, rincasava troppo tardi.
Dall’altra parte invece esisteva un mondo che mi pareva senza confini: per i maschi nulla era troppo. Potevano ridere forte, correre, sudare; non aiutare mai in casa; nessuno di loro sbagliava a vestirsi o a dare retta a una ragazza per tutta la sera. Non c’era una parola per dire che un ragazzo era una puttana; l’avevo anche cercata sul vocabolario: non esisteva. Al contrario si poteva dire Presidente, e poi ingegnere, architetto, sindaco, meccanico e, in certi casi, trovare specificato sul giornale che si trattava di una femmina come una piccola stortura o un imprevisto. Alcune parole poi, se usate per una femmina diventavano insulti: la parola “camionista” ad esempio, poteva essere molto offensiva per una ragazza. C’erano dunque parole che in quanto donne ci appartenevano e parole che se rivolte a noi diventavano offese e questo voleva dire che maschi e femmine erano diversi e che le cose per loro dovevano andare in modo diverso.
Per quanto mi sforzassi, però, ai miei occhi questa differenza continuava a rimanere invisibile: mi piaceva giocare a calcio in mezzo al cortile e detestavo le bambole, le gonne, i primi lucidalabbra delle mie compagne preadolescenti. Mi comportavo da maschio anche se non potevo diventarlo. Al massimo potevo essere considerata un maschiaccio, una parola che odiavo e che avrei fatto di tutto per scrollarmi di dosso. Era un rimprovero: ero una femmina che si comportava da maschio quindi doveva esserci qualcosa in me di sbagliato. Mai a dieci anni avrei immaginato che a essere sbagliata potesse essere una parola. […]
Sono passati molti anni. Non so dirti esattamente quando, ma a un certo punto mi sono ritrovata a combattere con le parole. Cercavo quelle giuste per esprimere la sensazione di timore nel tornare a casa la sera tardi in una strada deserta ma l’unica che mi veniva in mente era “esagerata”.
Una donna veniva messa da parte in ufficio, umiliata o calunniata se otteneva una promozione; se lo facevo notare, non ero semplicemente arrabbiata, ma “isterica” o peggio “acida”. Se una moriva e un’altra veniva stuprata, scoprivo dalle parole di altri che in fondo se “l’erano cercata”. Scoprivo che potevamo essere “inchiavabili” o “troie”, che facevamo troppo spesso le “maestrine” e che chiedere una rappresentanza maggiore si traduceva solo con “quota rosa”.
Insomma le parole intorno dettavano legge: ci spiegavano cosa era giusto fare o evitare, come dovevamo comportarci, cosa dovevamo dire; proprio come quando ero bambina, descrivevano ancora un mondo solo che questo mondo non coincideva più col mio o con quello che avrei voluto abitare.
A distanza di anni la parola “puttana” stava ancora nel dizionario, inapplicabile agli uomini; ce n’era un’altra, però, che avevo sentito spesso come sinonimo di “donna pesante da sopportare” e che per questo mi ero sempre scrollata di dosso (questa sì abbastanza facilmente): non ero mai stata davvero “femminista” perché non ero in grado di capire quanto le parole avessero inventato il mondo in cui vivevo; adesso potevo esserlo perché di quel mondo finalmente vedevo tutti quegli aspetti ingiusti e crudeli che potevano essere cambiati.
Ho fatto come avresti fatto tu: mi sono guardata intorno. Nella mia libreria sono arrivate le scrittrici. Woolf, Austen, De Beauvoir, Lonzi, Didion, Ginzburg, Munro, e molte altre. L’amica geniale di Elena Ferrante è stato una piccola esplosione; Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood ha fatto il resto. Le parole che cercavo per raccontare il mio tempo di mezzo c’erano tutte e si nascondevano nelle pagine di alcune scrittrici. Non bastava, però. Ho studiato i movimenti: la prima ondata che ci ha portato al voto e la seconda, quella dei diritti civili; il femminismo sociale di Rachel Moran e quello anticapitalista di Jessa Crispin. Intanto, attorno a me, le cose cambiavano una parola per volta: leggevo Me parlare donna un giorno, la rubrica femminista di Giulia Blasi, e Soft Revolution. Nel 2013 Violetta Bellocchio fondava Abbiamo le prove, una rivista di non-fiction aperta solo alle donne raccogliendo un archivio di storie che per mesi hanno permesso ai lettori di illuminare quelle stanze che di solito restano al buio. Sì, venivamo molestate per strada e al lavoro; ci piaceva il sesso e a volte ce ne vergognavamo troppo o non abbastanza; non volevamo essere madri o ci pentivamo di esserlo diventate.
Dappertutto mi imbattevo in parole nuove o nuovi modi di rivendicare il loro significato. “Sindaca” non suonava male, era solo questione di abituarsi a vedere una donna a capo del comune. E “camionista” non era una parola offensiva per le donne; “maschiaccio” invece sì e lo è ancora.
È una fortuna cominciare la propria storia oggi dopo che molte battaglie sono state combattute e vinte. L’ondata del #metoo ha affrontato una delle lotte più dure: quella contro noi stesse e le parole che ci hanno sempre definito. È solo un primo passo, ovviamente, perché sono le azioni ad aprire realmente nuove strade; eppure la possibilità di parlare e di denunciare un’ingiustizia senza avere più paura o vergogna è importante e può cambiare le cose. Leggere su twitter il moltiplicarsi dei racconti di molestie, stupri e maltrattamenti con l’hashtag #quellavoltache è stato doloroso ma anche estremamente liberatorio. […]
Ebbene, io vorrei che tu che leggi queste pagine esistessi davvero. Uomo o donna che tu sia, vorrei che tu fossi una persona con uguali diritti. Perché se è vero che “maschiaccio” è un insulto, “femminuccia” è altrettanto odioso.
Se essere femminista, come io credo, significa battersi per un mondo più giusto, non può che essere la definizione di chi include nella sua battaglia le cosiddette minoranze.
Non è una battaglia contro e non è finalizzata a togliere dei diritti altrui: solo ad estenderli a tutti in modo che non restino dei privilegi. […]
Durante i concerti delle Bikini Kill, Kathleen Hanna urlava sempre dal palco: «Tutte le ragazze avanti!». Solo dopo la band cominciava a suonare. Così, in un mondo abituato a escluderle, riservava alle ragazze un posto in prima fila da cui osservare lo spettacolo, ascoltare la musica, partecipare al concerto cantando la propria rabbia e la semplice gioia di esserci tutte.
Tutte le ragazze avanti, dunque, lo diciamo anche noi citando il bellissimo intervento di Marzia D’Amico. Questo non vuol dire pretendere che altri vadano indietro ma riconoscere che c’è un sistema che penalizza le donne e che questa disparità va sanata. Di più: vuol dire riconoscere il diritto alle ragazze di essere intere come dice bene Giulia Blasi, cioè di essere tenute in considerazione anche se non adeguate a una società che le vuole curate, affabili e silenziose.
Non volevo essere una bambina perché mi avevano convinto che sarebbe stato un modo inferiore di vivere la vita. Devo ancora perdonare la parte di me che ci ha creduto ma provo anche una grande tenerezza per lei perché so che quella bambina ha fatto del suo meglio con i pochi spunti che il mondo di allora le ha offerto.
Per questo motivo, mentre progettavamo il libro, ho capito una cosa importante: non poteva essere completo senza di te. In fondo alle pagine in cui queste autrici si sono raccontate, troverai uno spazio per le tue parole e il tuo immaginario, femminista, se lo ritieni, a modo tuo. Mi piacerebbe che questi interventi fossero per te delle piccole esplosioni ma che fossi tu la voce che manca perché il femminismo di cui parliamo qui non è un monologo ma una discussione aperta a tutti e a tutte.
In un libro di Miriam Toews l’autrice cita l’abitudine delle libellule a migrare pur sapendo che gli esemplari adulti non arriveranno a vedere la fine del viaggio.
Partono lo stesso perché sanno che le libellule che nasceranno in seguito vivranno in un clima più caldo una vita migliore. Non so se posseggo la stessa forza di queste libellule, ma so che vederne tante volare intorno a me mi fa sentire meglio.