C’è un sesto senso in questa storia, e ha a che fare con la possibilità di tracciare un limite alla profondità. Per profondità intendo la friabilità porosa della carne, lo scambio osmotico tra le cellule, l’attraversabilità emotiva dell’io, la sua dispersione. Ci postuliamo in qualcun altro, e col passare del tempo a partire da questo altro tentiamo la disperata ricomposizione di quello che siamo stati; dimentichiamo però che anche l’altro disperde, che anche l’altro è poroso, corruttibile e caduco. L’identità è una, ci diciamo, come il sole, è certa, come il giorno, come la notte, possiede un limite calcolabile: a novembre, a Milano, il sole sorge verso le 7 e tramonta intorno alle 17, ci sono 10 ore di luce e 14 di buio. Ma cosa accadrebbe se a un tratto un nuovo sole mettesse in discussione la notte? Nuovi calcoli ci permetterebbero di fissare nuove effemeridi, ma scoprire le cause di questo fenomeno inatteso richiederebbe più tempo, le nostre certezze prenderebbero a vacillare, l’identità a sdoppiarsi. Così, lentamente, la certezza della ricostruzione si frantuma e l’uomo d’occidente impazzisce.
Dacché è venuto al mondo, infatti, l’uomo sa che esiste un male metafisico che corrompe il pensiero, Platone e Aristotele lo chiamavano “infinito attuale”: era il rischio teorico di una divisibilità portata all’estremo, in grado di causare la totale irriconoscibilità della forma finale trasformandola potenzialmente in altro. Della forma originaria bisognava preservare la sostanza. E così Aristotele nella sua Fisica respinse la possibilità di infinito in atto, affermando che l’infinità fosse attributo di qualità e non di sostanza, e postulando un limite all’interno del quale vi fosse un numero finito di parti indivisibili; prima di lui, anche Patone in modo differente vi si era opposto, dichiarando che ogni oggetto composto di infinite parti indivisibili si risolvesse solo ontologicamente, attraverso l’esistenza concreta delle cose, sintesi reale di limite-illimitato, composti di parti assemblate secondo proporzioni ben definite che assicurano l’unità misurata del tutto. La chiamavano teorica del continuo, un’area di indagine prettamente filosofica all’interno della quale i pensatori successivi tentarono di schiudere la natura di Dio, di spiegarne l’infinità, chiamando in causa, accanto alla nozione di spazio, quella di tempo. Fu così che infinito divenne rischiosamente sinonimo di eterno.
Non è questa però la sede per una discussione tanto analitica. La letteratura, se scritta bene, chiama in causa controversie millenarie, e cammina con grazia su questioni che hanno attraversato la storia della filosofia e che oggi permangono in quei campi scientifici dove le variabili indeterminate sono ancora numerose. Nel nuovo romanzo di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi (66thand2nd), ci sono un fratello maggiore, Gabriele, e uno minore, Emanuele che studia lontano. C’è un padre che si ammala, una madre che si allontana. Ci sono una ragazza e una bambina: la ragazza viene dal passato, la bambina è un’idea di futuro. E poi c’è una casa di campagna, costruita da un nonno deviando un torrente, le cui fondamenta poggiano sulla carcassa sepolta di un cane di nome Odessa. A nessuno importa di quella casa perché ormai la vita ha portato tutti altrove. Gabriele ne diviene il custode livoroso, tutto impegnato a scrutare il cielo dal sottosuolo che si è scavato.
È la voce, in questo libro, la sostanza. È la voce del protagonista Gabriele il limite invalicabile che permette di dividere il continuo della trama senza causarne la distruzione. E non mi riferisco alla voce letteraria, ma proprio alla voce in quanto carattere costante di un protagonista di cui Riba fornisce pochissimi dettagli; voce che da sola definisce l’uomo che racconta. Il punto di vista da cui Gabriele narra la storia è la chiave dell’intera vicenda. L’onniscienza si fa elemento, abbandonando la posizione del narratore celeste che tutto abbraccia.
Fin dall’inizio Gabriele è carcassa, è elemento microscopico e invisibile, e parla al lettore dalla posizione privilegiata di un batterio che ammala, la stessa dell’infinitamente piccolo che tanto ha riempito di terrore la storia del pensiero occidentale. Molti (forse addirittura tutti) dei personaggi che attorniano Gabriele di quella voce sono cristalline emanazioni. E si potrebbe criticare Raffaele Riba di averla farcita di tanti tecnicismi: Gabriele parla come uno scienziato, ma in fondo è un semplice studente di lettere che non ha mai completato gli studi; è il fratello lo scienziato, l’accademico che avrebbe tutte le ragioni per esprimersi in quel modo. Temo però che questa sarebbe una critica miope perché il fratello in questione non è altro che la persona a cui Gabriele ha affidato buona parte di quello che è stato. E ora quel fratello ha deluso le sue aspettative. Gabriele si sente tradito perché non riesce più ad avere indietro le parti di sé che gli ha ceduto. Quegli elementi sono ormai dispersi e Gabriele può solo accelerare con la lucidità che caratterizza la vendetta dell’isolato, quel processo di decomposizione che ha avuto inizio nel momento stesso in cui è nato, dando spazio all’avvicendarsi di generazione-corruzione che è da sempre definizione dell’infinito e che non pone nessun limite alla profondità.
Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi, 66thand7nd, 2018. € 15, pp. 190.