Goffredo Fofi ha scritto, recensendo Storia di Ásta (Iperborea 2018), che Jón Kalman Stefánsson è uno scrittore da Nobel e che prima o poi glielo daranno. Noi – Francesco Ottonello e Michele Milani (MediumPoesia) – lo abbiamo incontrato a Mantova questo settembre, al Festivaletteratura, per andare a fondo nell’ispirazione di questo affascinante poeta romanziere – come lui stesso ci racconta – che porta nelle sue storie il respiro freddo dell’Islanda e del nord del mondo. Riportiamo il dialogo, avvenuto in inglese, in traduzione italiana.
MM: Vorrei chiederti in che relazione stanno nei tuoi romanzi il dato immaginativo e quello biografico. Mi è sembrato appunto che le storie che racconti guadagnino tensione lirica proprio grazie ad un gioco di contrasto e compenetrazione tra realtà e desiderio di andare incontro ad un “oltre” più sfumato…
Credo sia impossibile tracciare il percorso delle parole. Nel mio caso, autobiografia e fiction si confondono e non potrei dire di sapere esattamente dove inizia l’una o finisce l’altra. Quando scrivo questi due elementi così diversi entrano in contatto. Anche se inizio a scrivere partendo dalla mia storia, molto presto nel processo questa muta e qualcosa di inaspettato si insinua nella scrittura: la sorpresa è la poesia. Difficile dire quanto della mia vita stia in un libro, se dovessi dare una percentuale direi cinque o dieci percento. Per esempio, mi è capitato di scrivere partendo da esperienze accadute ad altri, di cui ascolto i racconti. Ovviamente in quei casi riporto solo ciò che mi ricordo e, soprattutto, scrivo nel modo in cui ricordo io. Qui si apre una questione fondamentale: cosa è veramente successo? Una domanda insidiosa, che può contemplare moltissime risposte.
FO: Vorrei chiederti, da sardo e dunque isolano come te, se la tua origine influenza la tua scrittura. Cosa significa per te essere nato e cresciuto su un’isola?
Essere isolano ti marca a vita, ti segna senza concederti la possibilità di scappare. Cresci con la consapevolezza di essere parte del mondo, ma allo stesso tempo al suo esterno e, in quanto isolano, pensi in un modo leggermente differente rispetto agli altri. Il sentimento che provi per il tuo luogo d’origine è unico per certi aspetti, come d’altronde è molto più intenso il desiderio di andartene, che si manifesta fin da subito sotto la forma di una volontà intensa.
Come artista ho cercato di inseguire anche io il richiamo di altri luoghi. Tuttavia, penso che – una volta lontano da casa – non avrei mai potuto scrivere nulla senza ricordarmi della mia terra, l’Islanda, che è dentro di me. Potrei scrivere una storia ambientata a Mantova, o su un’altra isola come la Sardegna, ma nel descrivere quei luoghi comunque si manifesterebbe il mio essere islandese, sepolto nel profondo: da un’isola non potrai mai scappare, per quanti modi creativi tu possa cercare per riuscirci. Ho molti colleghi che vivono all’estero. Molti di loro sono felici, eppure dicono che gli manca la loro isola, il suo odore. Per me è lo stesso, non puoi fuggire, per la tua gioia e per il tuo dolore.
MM: Leggendo il tuo ultimo romanzo, Storia di Ásta, mi è parso emergere un punto fondamentale, ossia che la letteratura abbia a che fare con un mistero, che sia un sapere capace di aprire la porta su mondi altrimenti nascosti. Concepisci la letteratura come un sapere, come dire, iniziatico, cioè rivolto a un qualcuno che vuole o chiede un punto di accesso su una realtà differente?
Quando scrivo non penso mai al lettore, forse mi dispiace, ma non penso mai a come una persona possa approcciare un mio libro, se possa essere troppo difficile oppure no. Quello che cerco di fare è catturare il sentimento che ho dentro di me, oltre che abbracciare nella scrittura tutti i differenti sensi con cui facciamo esperienza della realtà.
Cerco per esempio di rendere musicale la scrittura, perché ritengo fortissima la connessione che lega musica e parola. In un certo modo compongo sinfonie, o scrivo blues. Cerco la musica nelle parole, ma cerco anche di creare una musica con il mio intero stile, un sorta di ritmo sepolto sotto le parole. Direi che per scrivere non utilizzo soltanto il pensiero, ma ogni strumento, ogni tecnica che ho a disposizione, lasciandomi andare all’inconscio. Credo sia il tentativo di tenere più cose diverse insieme una delle vie che percorro per riuscire ad evocare qualcosa in chi legge ciò che scrivo.
FO: In giovane età hai scritto tre raccolte di poesia, ma poi ti sei concentrato maggiormente sulla prosa. Vorrei chiederti qual è la differenza tra lo scrivere in prosa e in poesia, e in particolare, come questa influenza il linguaggio che utilizzi?
Quando ero più giovane ho scritto tre raccolte di poesia, è vero, e a quel tempo credevo che sarei diventato un poeta. Non avrei mai pensato di scrivere nulla in prosa, tantomeno che avrei scritto romanzi. Non è stata una mia scelta, sono stato semplicemente sbalzato lontano dall’essere un poeta. Però la poesia è sempre dentro di me quando scrivo. Utilizzo molte tecniche della poesia nei miei romanzi. Mi piacerebbe molto tornare ad essere un poeta. A volte, quando sei fortunato, riesci a trasfigurare la finzione – in qualche modo – direi in poesia: questo cerco di fare, di contrabbandare la mia poesia nascosta dentro qualcosa di diverso, come hanno fatto i miei autori preferiti: José Saramago, Knut Hamsun, Herta Müller. I loro libri a volte si trasformano in poesia e mi piace pensare che quello che succede a me leggendo possa succedere anche a chi si trova di fronte al mio lavoro. Direi che sono un poeta che racconta storie.
MM: Nelle prime pagine di Storie di Asta, hai scritto che « il modo migliore per essere se stessi è non fare niente – che l’essere umano scopre chi è quando riflette con calma ». Credi che sia possibile trovare del tempo, nel mondo di oggi, per riflettere su chi siamo, nonostante la routine quotidiana e il ritmo sempre più concitato della vita moderna?
Beh, ogni tanto dobbiamo farlo, se non ci riusciamo siamo perduti. Uno dei problemi maggiori della vita moderna è lo stress. Le persone continuano a comprare libri per calmare i loro pensieri, ingeriscono pillole per dormire così che chiudendo gli occhi possono dimenticare i loro problemi. La tecnologia causa stress e pressioni con il suo non fermarsi mai: messaggi, mail, lavoro a casa.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di trovare tempo per riflettere su chi siamo. Dobbiamo essere capaci di fare un passo a lato, anche solo per un momento, di acquisire uno sguardo distaccato che ci permetta di passare del tempo con noi stessi. Abbiamo bisogno di ascoltare il nostro cuore che batte e possiamo farlo in molti modi. La letteratura, l’arte, la musica, possono aiutarci ancora in questo. Quando leggi una buona poesia lo senti, il tempo che quasi si ferma, perché stai sentendo qualcosa di sconosciuto: l’eternità, qualcosa che rimane. Le persone hanno paura, perché quando il tempo rallenta le persone sono obbligate a guardarsi negli occhi.
La letteratura e la musica giocano questo ruolo, ci aiutano e ci invogliano a cercare chi siamo, nascosti nelle profondità del nostro essere uomini.
FO: Hai scritto anche che quando scrivi sei costretto e devi guardarti in faccia, non puoi scappare. Scrivere per te significa esplorare se stessi?
Scrivere è esplorare te stesso, sì. Scoprire cose di te che non sapevi, che non potevi immaginare. Quello che ti uccide davvero è che mentre scrivi sei più intelligente, più attento alla vita che ti circonda. Che sia prosa o poesia, in quanto scrittore ti è concesso uno sguardo più forte e una capacità maggiore di assorbire l’esterno. Eppure, appena alzi lo sguardo e posi la penna, devi sapere che torni ad essere il solito, normale, stupido ragazzo che sei sempre stato.
Per salutarci, ci siamo lasciati con la voce della poesia. Abbiamo chiesto a Stefánsson se volesse leggerci alcuni suoi testi. Potete trovare l’audio delle letture con i testi scelti dallo scrittore sul portale MediumPoesia.