[Ringraziamo per questa intervista, oltre all’autore, Martino Baldi e l’organizzazione del festival L’anno che verrà. I libri che leggeremo di Pistoia, dove abbiamo potuto incontrare Antonio Franchini]
Antonio Franchini, nel mondo editoriale da più di un trentennio, nel 2015 è uscito da Mondadori per un nuovo incarico a Giunti in seguito alla creazione del colosso cosiddetto “Mondazzoli”. Come valuta da esperto del settore il fatto che oltre il 50% del mercato librario sia controllato da un’unica entità editoriale? Quanto è importante nella sua visione l’editoria indipendente e la bibliodiversità all’interno di questo sistema?
Spero di non risponderti in maniera dorotea. Ovviamente penso che più la realtà editoriale è variegata, meglio è; però, avendo lavorato molti anni in un grande gruppo, non posso certo sputare nel piatto dove ho mangiato tanto a lungo. L’importante è che in una realtà, grande o piccola che sia, ognuno possa fare il suo lavoro assecondando le proprie idee, sviluppando i propri progetti. Perché, in generale, tutto il lavoro editoriale è un lavoro che procede attraverso costrizioni, come la scrittura di un sonetto; non si possono trasgredire certe regole e non si può mai fare ciò che si vuole in toto, ma una volta colte le dinamiche del gioco, penso che sia dovere di ognuno ricavarsi un percorso di libertà all’interno di quelle strettoie. E credo che questo si possa fare sia in una realtà piccola che in una grande.
Lei, assecondando la sua passione per le arti marziali, qualche anno fa ha detto che la figura dell’editor è simile a quella del samurai, si “mette al servizio dell’autore”. Il successo di un libro sta necessariamente dentro al testo o pende dalla parte del lavoro di un editore? E cosa porta un editor a fiutare un libro di successo?
Questa è la domanda delle domande; non riesco a risponderti in maniera univoca. A me verrebbe da dire che la cosa importante è il testo; io credo nella centralità del testo e dell’autore. Mi piace pensare che il libro sia fatto dall’autore. È ovvio che poi attorno al testo si muove un mondo intero, rappresentato dall’editore, ma soprattutto dal momento in cui questo libro esce. È più di una questione di ricezione, è una vera e propria alchimia tra il libro e la disposizione del momento storico a coglierne le ragioni più profonde. Un libro può avere un esito se esce in un tempo e può avere un esito totalmente diverso, e in bene e in male, a uscire un anno prima o dopo. Se si creano determinate condizioni per cui il libro esce nel momento giusto, nella collana giusta e col vestito giusto, il suo destino può cambiare anche in maniera radicale e te lo dimostro con un esempio che riguarda un classico. Io ho cominciato a lavorare nell’editoria maggiore ai tascabili degli Oscar Mondadori per quattro anni negli anni ’80. Gli Oscar in Mondadori sono una sorta di sottoinsieme, una casa nella casa, e iniziammo pubblicare anche i cosiddetti originals, cioè novità che uscivano però direttamente in formato tascabile. Tra gli Oscar, però, c’era anche Il processo di Kafka, che vendeva più o meno 3000 copie all’anno. Accadde poi che l’allora responsabile, Ferruccio Parazzoli, ridisegnò le collane e ne lanciò una nuova chiamata “classici moderni”, che includeva a fianco di Virgilio o Thomas Mann, anche nomi come la Christie, Asimov o Bradbury. Calato in questa collana, con una nuova copertina, una nuova veste grafica e più banalmente con una nuova “etichetta” a definirne la sostanza, Il processo vendette 16.000 copie in un anno.
A proposito di successi editoriali, lei è noto per aver contribuito al lancio o alla curatela di scrittori di successo quali Giordano, Piperno, Pennacchi e ovviamente Saviano. Ha anche detto, però, che da qualche anno gli scrittori “di successo” sono diminuiti. Trova il panorama della narrativa ultracontemporanea carente rispetto a quello degli anni Zero?
Gli anni Zero sono stati degli anni certamente fecondi di grandi successi editoriali. Il fatto che questi anni non abbiano avuto quei megaseller – superiori anche al bestseller – non significa certo che sia un panorama carente; certamente mancano quei fenomeni di vendita esagerati come quelli degli anni Zero. Diciamo che complessivamente la nostra ultracontemporaneità è un momento in cui i fenomeni durano meno, sono più deboli, ma ciò non significa che il panorama non possa cambiare. In linea di massima tutti i lettori più avveduti pensano che se non ci sono megaseller in realtà non sia un gran danno, anzi, poiché per certi versi questi fenomeni in quanto abnormi non sono mai completamente sani e di certo contraddittori. Rispetto ai decenni passati ciò che noto è senz’altro una più marcata perdita della centralità della letteratura e con essa una perdita di memoria. I nostri anni sono caratterizzati da una progressiva perdita di memoria di cui, per esempio, ha fatto pesantemente le spese il secondo Novecento italiano. Oggi, tranne pochissimi autori, è un periodo poco letto dal grande pubblico e spesso quegli stessi autori si conoscono solo per un titolo o due. Un esempio che ti posso fare riguarda Il deserto dei tartari. Il libro di Buzzati era uscito nel ’40, ma fino a quando ero ragazzo io, negli anni ’70 era percepito di fatto come un’opera estremamente contemporanea, nonostante fosse uscito trent’anni prima. Quello che accade oggi è che libri altrettanto importanti dal punto di vista letterario a distanza non di trenta, ma di tre anni, nessuno se li ricorda più.
Negli ultimi vent’anni è mutato di molto lo statuto dello scrittore, trasformatosi sempre di più in una figura poliedrica e transmediale. L’autore di narrativa concentra su di sé più funzioni intellettuali, giornalista, ideologo (Saviano), sceneggiatore (Saviano, Ammaniti), figura pubblica (Saviano, De Luca), maschera sociale (Baricco), generando una figura a tratti ipertrofica. Come valuta l’affermazione che nel mondo letterario – in particolare in prosa – oggi conta più essere “un personaggio” che scrivere bene?
A questa affermazione sono fermamente contrario. Anzi, quando mi si parla di “bella scrittura” in astratto mi viene da metter mano alla pistola, perché “bella scrittura” non vuol dire niente. Quello che tu dici non è un fenomeno di adesso, ma esiste da sempre. Ugo Foscolo era scamiciato, piaceva alle donne e qualcuno poteva pensare che la sua poesia fosse di maggior successo per queste caratteristiche che altri non avevano; Kerouac era bello e fotogenico e aveva successo nonostante Capote dicesse che il suo non fosse scrivere, ma pestare sui tasti della macchina – il che in qualche misura è anche vero. Ammaniti ha fatto dei film, come faceva film Pasolini o addirittura Enzo Siciliano; Saviano è un intellettuale impegnato come lo era stato Zola e così via. Queste cose qui sono sempre esistite; l’intellettuale ha sempre interpretato e rivestito delle maschere eclatanti, non è un fenomeno contemporaneo.
Però la figura di cui le parlo ha a che fare con un fenomeno indubbiamente contemporaneo come i nuovi media e si genera proprio dall’incontro-scontro tra questi e il mondo letterario con le sue specifiche dinamiche. Ciò che lei dice è divenuto un fenomeno iperbolico oggi e non è mai accaduto con queste modalità.
Certo, diciamo che il peso dei social è divenuto un elemento nuovo e rilevante e che certi fenomeni oggi sono e possono essere più vistosi che cinquanta-sessant’anni fa. Il web ha mutato le dinamiche di cui parli ma meno di quel che sembra; è diventato ad esempio anche un bacino di ricerca di nuovi autori per un certo tipo di editoria marginale, quella che in gergo è definita “varia”; oggi ci sono gli youtuber, come vent’anni fa c’erano i comici. La dimensione dello spettacolo ha sempre attirato alcuni appetiti editoriali. Pensa anche a quanto accade nella poesia, che oggi si assiste a una rinascita potente della sua dimensione performativa, penso a Franco Arminio o Lello Voce. Ma, tornando ai social, devo confessare che non frequento né amo l’atteggiamento medio che si sciorina su questi canali; mi mette a disagio, probabilmente perché sono vecchio.
Come cambia e quali sfide deve affrontare l’editoria narrativa nel momento in cui nuove forme di intrattenimento, più rapide e fruibili – penso in particolare al mondo del video – sottraggono tempo al lettore? Quali sono le ripercussioni sulla scrittura e sull’editoria di un mondo in cui i prodotti di intrattenimento si consumano con maggior fretta e meno durevolezza?
Questa domanda coglie veramente un elemento di inquietante problematicità. Oggi assistiamo a una restrizione oggettiva e certamente irrimediabile del mercato. La lettura è fortemente cambiata. Il peso di elementi come le serie ha davvero rivoluzionato tutto. In primo luogo perché i meccanismi narrativi sono in genere così evoluti che non si può non evidenziarne non solo la bravura tecnica, ma anche una certa superiorità. È inutile girarci intorno, la serialità ha modificato profondamente gli altri linguaggi, a partire dallo stesso cinema, è evidente. Oggi un cinema d’autore affronta sfide durissime; nella serialità un personaggio ha ore davanti a sé per svilupparsi come meglio si crede, col rischio di far apparire facilmente mediocre la tenuta cinematografica. È vero però che in campo narrativo noto che la fruizione di questi prodotti – quando ben fatti – altamente complessi ed efficaci, ha prodotto un affinamento della sensibilità narrativa. Credo che il livello medio dello scrittore si sia alzato rispetto a venti-trenta anni fa, parlo proprio di qualità tecnica, non di letterarietà. Voglio dire che oggi molte più persone sanno scrivere un romanzo di 250 pagine che sta in piedi, rispetto a vent’anni fa e questo, credimi, è un dato di fatto oggettivo perché i meccanismi della narratività sono decisamente più introiettati.
Ma questo romanzo ipotetico di 250 pagine che sta in piedi, in quanti lo leggono?
È chiaro che l’influenza di ciò di cui stiamo discutendo si vede anche in questo. La media di lettura è chiaramente molto più bassa. Ma fai attenzione, chi legge meno sono i lettori forti, non quelli deboli, perché sono distratti da una più ricca offerta di prodotti culturali anche validi, ma che comportano meno “fatica”. Se io torno a casa e mi interessa Borges, posso cercarlo su Youtube e trovare delle interviste lunghe e ben fatte invece che leggere dieci pagine di un libro. Nonostante ciò mi sento di dire che il libro ha davanti a sé un discreto futuro. Se un fenomeno come la scomparsa dei giornali è a mio avviso indiscutibilmente irreversibile, non è così per il libro. Potremo assistere a una crescita del libro digitale – oggi è un mercato pari al 5% quindi molto basso – ma non soppianterà il cartaceo né a breve né a medio termine. Lo spazio riservato alla lettura sarà uno spazio che avrà sempre persone che lo vogliono coltivare.
Oltre ad essere noto nel campo editoriale, lei è anche celebre per i suoi libri. Come si fa a far convivere le anime di critico, editore e scrittore, senza che una pesti i piedi all’altra?
Io ho sempre coltivato un tipo di scrittura estranea al mercato. Penso che non sia possibile fare l’editore e il romanziere ad un tempo, sono due attività in controsenso a meno che tu non faccia un tipo di scrittura spuria, diversa. Da lettore onnivoro ho sempre amato i romanzi, anche quelli popolari, ma non sono capace di scriverne. Questa è l’unica ragione per cui le due attività non entrano in contraddizione, ma se la condizione fosse diversa, lo sarebbero. A quel punto tra le due attività sceglierei indubbiamente di portare avanti quella dell’editore.
Anche noi su La Balena Bianca, proponendo una rassegna sui testi più importanti del decennio passato intitolata Da Zero a Dieci, abbiamo citato più di una volta L’abusivo. Simonetti nel suo libro giudica la sua opera autoriale come simbolo della tendenza narrativa degli anni Zero di dedicarsi alla non-fiction aderendo ad un realismo ibrido, mediano tra autobiografia e giornalismo, come reazione alle linee narrative del decennio precedente. Oggi, a posteriori, sente i suoi libri parte di una tendenza divenuta collettiva?
Mi sono sempre piaciute le scritture spurie che non erano direttamente narrative, mi piacevano Capote, Kapuściński e tanti altri. Quindi sì, ho cercato di inserirmi in un discorso ben preciso, senza però rendermi conto di quanto fosse espansa la dimensione a me contemporanea a cui accedevo con la mia scrittura.
A cosa sta lavorando oggi come autore e come editore?
Sto scrivendo dei racconti post-hemingwayani, che hanno cioè delle tematiche care a Hemingway – la pesca, la corrida, la lotta, ecc. – ma vissute oggi. Sul piano editoriale invece c’è il nuovo libro di Giulia Caminito e un altro testo che esce a gennaio per Giunti di cui sono molto contento, che abbiamo venduto in molti paesi, scritto in un italiano perfetto da una ragazza americana, Eddie Goodrich, intitolato Perduti nei quartieri spagnoli.