L’attesa miniserie dell’Amica geniale tratta dal best-seller di Elena Ferrante, si arrischia nello scivoloso terreno dell’adattamento televisivo, grazie alla co-produzione di HBO-RAI Fiction e TIMvision e alla direzione del regista Saverio Costanzo. A fronte di un grande dispiegamento di mezzi ed energie, la riuscita del film – almeno per le puntate che abbiamo potuto vedere finora – si presenta disomogenea, con alcuni momenti di belle intuizioni registiche e altri decisamente meno convincenti. Come premessa va riconosciuto ai suoi autori il coraggio degli intenti, ben consapevoli che in questo caso la trasposizione filmica presenta una doppia difficoltà: quella di sempre, che si presenta al momento di tradurre in maniera convincente un codice scritto in uno visivo; l’altra di confrontarsi con un’opera recente ma che per divulgazione, tiratura, livelli di lettura e conseguente dibattito dentro e fuori l’accademia, ha tutti i requisiti – meno che la distanza temporale tra libro e pubblico di lettori – per collocarsi nel milieu dei classici.
Un elemento che spicca subito nel film è il gusto compositivo, quasi teatrale, con cui vengono organizzate le scene e che, dal nostro punto di vista, disinnesca qualsiasi polemica sui cliché realistici della rappresentazione. Se consideriamo infatti che una narrazione realistica non implica solo la verosimiglianza del soggetto al mondo rappresentato, ma il complesso di scelte stilistiche che organizzano e “mettono in scena” i contenuti, L’Amica geniale di Costanzo sembra scegliere un’altra strada, quella della trasfigurazione – nel racconto – della realtà. La lentezza con cui la macchina da presa si sofferma sui gesti, sugli sguardi, sui silenzi, va in direzione contraria alla scioltezza narrativa della commedia popolare, l’inquadratura piuttosto sembra voler dissezionare i personaggi, arretrare nel grumo scomposto delle loro percezioni. A sostegno di quest’analisi vi è la stessa organizzazione temporale con cui vengono disposte le macrosequenze che suddividono la storia in puntate. Si perde, in parte, l’ariosità del romanzo, quella per cui tutte le vicende sembrano in naturale consequenzialità, a favore di quadri narrativi che dividono la storia per momenti significativi più che per azioni. Questa scelta sicuramente rallenta la macchina narrativa e, soprattutto, non rende immediatamente comprensibile la storia a chi non conosce il romanzo. Va aggiunto, però, che questo tipo di “incorniciamento” permette anche di creare delle sezioni di particolare bellezza, come quella dal titolo Bambole, in cui le due bambine sigilleranno il loro patto di amicizia attraverso lo scambio dei giocattoli e l’incontro con l’“orco”, don Achille.
Tutto sembra predisposto per evitare l’inciampo nella trappola della commedia, anche un certo manierismo sulla lavorazione del colore: viene preferita una saturazione bassa, che raffreddi il tono dell’immagine, così come nelle luci alte vengono tolti il rosso e il giallo; al rione non rimane molto del suo stereotipo, la brillantezza della vitalità popolare si converte in qualcosa di cupo, minaccioso e soffocante. La durezza dell’ambiente è particolarmente ben resa visivamente: i palazzi delimitano il perimetro delle inquadrature, i raggi del sole si fermano sempre a metà degli edifici, non scendono a terra; la terra rimane fredda. Anche i movimenti di macchina contribuiscono a disegnare uno spazio chiuso, costretto, come la vita che si svolge dentro: le inquadrature sono quasi tutte in primo piano e in campo medio, gli unici due campi lunghi vengono concessi alle bambine una volta fuori dal rione. In particolare, nella sequenza in cui le due amiche tentano la loro piccola fuga dal rione, un bagno di luce riempie l’ambiente, l’aria diventa talmente chiara che lo sfondo pare smaterializzarsi. L’immagine traduce bene il senso di ignoto che provano le bambine fuori dal grembo del rione, il sentimento di libertà ma anche l’assenza di riferimenti che diventano panico per l’inquieta Lila.
Sono questi, a nostro avviso, i tratti più riusciti delle prime quattro puntate della serie. Da una parte lasciar parlare la storia scritta attraverso le immagini, dall’altra la capacità di risignificare degli elementi fortemente stereotipati – il rione, i popolani, il rapporto tra femminile e maschile. Così come l’autrice tenta di fare costantemente nei suoi romanzi, viene ripreso tutto l’apparato socio-antropologico del contesto, ma per portare la storia in un’altra direzione rispetto a quella conosciuta. Un esempio è dato proprio dai ritagli sugli spaccati di vita popolare; la tragedia qui è reale, anche quando usa i trucchi della farsa e della commedia. Si veda, come esempio, la sequenza in cui Melina litiga violentemente con la moglie di Donato Sarratore. Questa a tutti gli effetti ha i tratti di un topos della sceneggiata, ma il crescendo di tensione si dirige verso l’acmè drammatico senza alcun tratto di leggerezza o giocosità, la violenza è vera e brutale così come l’impressione provocata su Elena bambina. Come nel romanzo, la crudezza del rione non viene mitigata dal mito del popolo che ha goduto di molta fortuna nella nostra letteratura per buona parte del Novecento, prima e dopo Pasolini. Al contrario, ai protagonisti non viene concesso nessun ammortizzatore che mitighi la durezza del quotidiano, nessuna via di fuga: come nel romanzo, le esistenze che animano il rione rimangono schiacciate ai luoghi, dentro la circolarità di quello che sembra essere un determinismo antropologico e culturale.
Tra le molte difficoltà dell’adattamento cinematografico vi è quello del lavoro a levare: un romanzo, infatti, avrà sempre più parole di un film, si ripeterà in più punti, descriverà più dettagli di quanti se ne possono cogliere in un’inquadratura di pochi secondi. Per evitare l’effetto didascalico è necessaria una continua opera di limatura del testo originario, ma anche secchi colpi di cesoia; la sfida sta nel togliere senza impoverire, sfruttando al meglio le possibilità specifiche del mezzo filmico. La debolezza principale, invece, degli ultimi due episodi dell’Amica geniale è proprio l’eccesso di letterarietà, o meglio di verbosità. Leggiamo dalle dichiarazioni dello stesso regista che la scrittura della sceneggiatura è avvenuta con la continua collaborazione dell’autrice, la quale ha partecipato attivamente anche alla scelta delle protagoniste. Non sembra impossibile che anche alcune scelte registiche siano state condizionate dalla necessità di fedeltà al testo scritto, volute dalla sua autrice – a conferma che, nonostante il riserbo sulla sua identità, qui l’autore è vivo e vegeto e, aggiungerei, non basta l’uso dello pseudonimo a indebolirlo. La volontà di aderire il più possibile alla struttura del romanzo, però, non sempre è una scelta felice, né la migliore possibile, ma anzi può rappresentare un limite che imbriglia le potenzialità creative del film.
Il risultato di tendere al massimo dell’ottimizzazione – nulla del libro deve andare disperso – rischia di ridurre l’adattamento a traslitterazione del testo scritto, che sfiora l’effetto naïf nella resa: un esempio evidente è dato dall’utilizzo della voce narrante fuoricampo. Già presente nei primi due episodi, con funzione di descrizione e commento, è l’equivalente della voce del narratore nel romanzo. Se, però, nel libro è lo strumento del narratore onnisciente, quello che ci conduce per mano dentro al rione e alle vite dei personaggi, nel film diventa una voce prolissa, che interferisce non solo con la godibilità della storia, ma anche con la sua comprensione. La voce fuoricampo tenta di rendere “leggibili” i pensieri e le sensazioni della giovane Elena, laddove invece si preferirebbe che fossero le immagini a parlare, o che la chiarezza delle parole fosse sostituita con l’ambiguità delle interpretazioni. D’altronde l’ambiguità è onnipresente nella figura dell’oggetto sfuggente, che si trova a più livelli nella narrazione: è l’amica che sparisce, è la sua inconoscibilità, è il cuore nero delle cose che Elena sfiora ma non riesce mai fino in fondo a comprendere (ed è per questo che inizia a scrivere). Ma, soprattutto, il punto cruciale nel romanzo è il metatesto che fa da cornice alla storia delle due amiche, per cui il lettore attento è portato a interrogarsi su che cosa stia realmente leggendo. Dietro i fenomeni che prestano un volto al racconto, infatti, la storia universale che viene narrata ha come protagonista la facoltà stessa dell’immaginazione – è quanto nota in una bella analisi Rachel Donadio su «The Atlantic» – per cui è impossibile sapere fino in fondo chi crea che cosa. Chi scrive? Chi è il Soggetto nella dualità? Questa estensione metanarrativa viene invece tagliata fuori dal film, dove l’intento didascalico ha la precedenza sulle ragioni artistiche; dire è più importante che mostrare, spiegare viene prima di rappresentare. A volte questa maniacalità iper-descrittiva pare abbia la sua ragione d’essere in un desiderio di esaustività totale dei temi che stanno maggiormente a cuore all’autrice. Largo spazio del commento viene lasciato all’osservazione sulla realtà del rione, in particolare alla condizione subordinata delle donne, ma anche in questo caso l’impressione è che l’abbondanza di parole raffreddi la temperatura della narrazione, togliendo terreno alla forza delle immagini.
Una simile aporia della resa si ritrova anche quando le scelte di montaggio dovrebbero tradurre un concetto centrale nella storia, come avviene nella sezione dell’ultimo dei quattro episodi, la “smarginatura”. Sensazione di disfacimento del mondo, panico, perdita del sentimento di sé, molto è stato detto sulla smarginatura; niente però è stato visto finora, e niente di più riesce a vedersi nel film di Costanzo. Nel film viene infatti riproposta la scena del capodanno a casa Carracci, e qui Elena racconta il primo episodio di una sensazione che inseguirà Lila per tutta la vita, e che influirà profondamente sulla sua personalità. Se almeno in questo caso lo spettatore è dispensato dal commento della voce narrante, manca però una vera traduzione visiva che avrebbe meritato un po’ più di attenzione e di originalità – soprattutto considerando che la “smarginatura” ha assoluta centralità, al punto da dare il titolo all’episodio. La domanda è: chi non ha letto il libro sa di che cosa si sta parlando? Il primo piano sul volto turbato di Lila, dove viene sovraimpressa la sagoma del fratello, ripropone fedelmente un passaggio del libro ma in maniera superficiale. Anche in questo caso sarebbe stata preferibile una minore letterarietà a favore di una maggiore invenzione per immagini.