Esistono diversi tipi di dolore: quello pubblico e istituzionalizzato, dei lutti nazionali, delle manifestazioni in piazza e dei funerali di Stato e poi un dolore più intimo e personale, consumato in privato, quotidianamente. Nel primo caso la sofferenza ha un’identità definita, un nome preciso e spesso discorsi di cordoglio ad accompagnarla; nel secondo il più delle volte non ci sono parole, ma silenzi attorno ai quali dover costruire un’intera esistenza. Di questo dolore muto – e del tentativo di dargli voce – ci parla Nadia Terranova nel suo ultimo romanzo Addio fantasmi (Einaudi Stile Libero, 2018).
Ida, la protagonista, a vent’anni ha lasciato la madre e la città natale Messina per costruirsi una nuova vita a Roma, tra lavoro e marito. Un giorno di settembre la madre le chiede però di tornare per dare una mano con i lavori di ristrutturazione della casa. Ida prepara la valigia e parte; sbarcata a Messina, circondata da oggetti, luoghi e persone che le sono stati a lungo familiari, il dolore seppellito dentro di sé risale in superficie. Questo ritorno la costringe infatti a fare i conti con il trauma che ha segnato la sua vita: un giorno di novembre, ventitré anni prima, suo padre si è svegliato, lavato, vestito ed è uscito di casa scomparendo per sempre.
A differenza del primo romanzo, Gli anni al contrario, questa volta Nadia Terranova scrive in prima persona; fin dall’inizio è lo sguardo della protagonista a dominare: vediamo tutto, capiamo tutto esclusivamente attraverso gli occhi di Ida, siamo costretti a seguirla e ad aspettarla, a coordinare il passo con il ritmo dei suoi pensieri e dei ricordi. I personaggi della storia (lei, suo marito Pietro, il padre, la madre e successivamente l’amica Sara e Nikos) vengono introdotti direttamente sulla scena, senza descrizioni né presentazioni, quasi impalpabili. La narrazione in principio si cristallizza intorno a particolari leggeri, in qualche modo evocativi (la telefonata della madre, l’incubo notturno, l’arrivo a Messina) e l’atmosfera del racconto è sospesa e sfumata, come in un sogno. Poi, lentamente, il nodo alla gola che sembra intrappolare le parole di Ida si scioglie e il romanzo allarga il suo campo visivo: compare la stanza dove è cresciuta, la casa in cui lei e sua madre hanno convissuto con l’assenza del padre, le strade della città da cui è scappata e infine, ma solo alla fine, si ritorna a quel braccio di mare che separa la Sicilia dalla penisola, a quella traversata che la riporta a Roma.
Il viaggio della protagonista (una catabasi?) non descrive però solo uno spostamento fisico, ma anche psicologico: rappresenta in buona sostanza l’elaborazione di un lutto. Affinché questo avvenga, Ida deve affrontare ciò che ha cercato di nascondere e dimenticare. Come fare? Ecco la domanda a cui il libro prova a dare risposta.
Arrivata a Messina, la protagonista ritrova ogni cosa com’era: «subito la casa mi richiamò a sé. La stanza dove avevo dormito, giocato, studiato era rimasta ferma nel tempo […]. Una camera morta, invasa dai flutti dei ricordi». Nella sua stanza Ida abbandona la valigia portata da Roma, nemmeno la svuota, si stende sul letto e si rende conto di essere ancora «una donna adulta, inchiodata all’oscurità dalle bambole della sua infanzia». Il tempo della narrazione è bloccato e tutto ciò che è stato conservato in quella casa – anzi la casa stessa – è simbolo della trappola in cui è caduta il giorno in cui il padre è scomparso: «sono passati ventitré anni, pensai. Potrebbe esserci accanto a me un’estranea di ventitré anni nata il giorno in cui se n’è andato, e accanto la bambina di tredici, ferma per sempre a quell’età». La scrittura di Terranova, attraverso un ritmo piano e cadenzato, rende bene l’idea della fissità in cui la protagonista si trova. Questa dimensione immobile è al tempo stesso dannosa e confortante: da una parte trappola fatta di ricordi, dall’altra rifugio rassicurante. Solo in una simile a-temporalità dal sapore antico quanto i miti di Messina (Scilla e Cariddi, Fata Morgana e Colapesce) la figura del padre può infatti fare ritorno, quasi come una divinità o meglio come un fantasma. Scomparso ma non morto (forse), evaporato nel nulla, il suo corpo è senza sepoltura, intrappolato ovunque: «il nome di mio padre restava nel piatto della cena, si nascondeva nella frutta decomposta sulla credenza […], ci tiranneggiava». A Messina la sua figura si riflette in ogni cosa («nell’acqua, nelle infiltrazioni e nella muffa sul tetto») e dunque, ritornando alla dimensione di fissità di cui si diceva sopra, è necessario conservare tutto affinché sia possibile credere in un suo ritorno: «tenevamo ogni cosa, non per celebrare il passato ma per propiziarci il futuro. Noi non conservavamo per ricordare, ma per sperare».
Speranza vana: il padre non è mai ricomparso e per Ida è arrivato il momento di fare i conti con il proprio passato. Dopo i primi capitoli in cui figlia e padre occupano quasi completamente la scena, il romanzo di Terranova si apre e presta attenzione al mondo che circonda la protagonista, lasciando che anche altri personaggi prendano rilievo. Si delineano perciò meglio le figure della madre e del marito Pietro, le due persone che in teoria dovrebbero comprendere il suo lutto, ma che nei fatti si rivelano incapaci di offrire alla protagonista una soluzione definitiva al dolore.
Madre e figlia si ritrovano distanti perché per anni non hanno saputo comunicare: uno strato di silenzio ricopre ogni loro conversazione. Impossibile parlare del padre, i loro dialoghi si concentrano dunque su altro trasformandosi con il tempo in terribili discussioni:
l’anno prima che mi trasferissi a Roma urlavamo per i motivi più diversi, e le nostre scenate erano rimaste indelebili. Litigavamo la mattina, il pomeriggio, e la notte […]; quel pugilato sporadico si era trasformato nel nostro unico dialogo.
Anche adesso le incomprensioni tra le due donne sono le stesse, rimaste lì ad aspettare. I litigi tra le due scoppiano nel mezzo della pagina, ricordano dialoghi da tragedia, portano il segno di un rapporto irrecuperabile. Esistono delle tregue ma brevi: piccole attenzioni (cucinare un piatto che le piaceva da bambina, uscire di nuovo in macchina insieme, fermarsi ancora una volta a prendere un gelato prima di ripartire) che ritagliano momenti di felicità effimera, simile «a quella dei pezzi di vetro smerigliati che i bambini trovano sulla spiaggia», anch’essa un altro dei fantasmi del titolo.
La stessa sensazione di assenza caratterizza anche la relazione tra Pietro e Ida. Il loro rapporto si costruisce per sottrazione: «a tenere insieme me e mio marito erano le cose che non facevamo». Non comprano una casa, non hanno figli, dormono l’uno accanto all’altra senza fare l’amore e a distanza ritornano a essere due monadi, due individui separati che non chiedono, non interrogano. Dieci anni prima, quando ancora la loro relazione era agli inizi, si spogliavano e si ritrovavano felici, ma poi anche quello era andato sfumando e il matrimonio era diventato «uno stare insieme ogni giorno, prendere insieme ogni decisione, conoscere a memoria l’odore, il sesso, il carattere dell’altro». Pietro, semplicemente, è la persona a cui Ida ha affidato la propria vita presente: «a volte mi dicevo che non avrei più saputo prenotare una visita dal dentista da sola e non avrei pagato bollette e tasse». Lo spazio riservato a lui nel romanzo non è il giorno, ma la notte, quando Ida si perde nell’inconscio di trame e pensieri che ricamano immagini surrealiste e inquietanti. Il marito diventa allora la figura a cui aggrapparsi dopo un incubo o quando non si riesce più a dormire: «nel sonno c’è Pietro e con lui i fatti e le persone mi fanno meno paura». Tuttavia Pietro non appare mai concretamente, è solo una voce al telefono (e in questo forse assomiglia al padre: un’altra impalpabile presenza, la cui reale esistenza potrebbe anche essere messa in dubbio). Non potrebbe però essere altrimenti: è solo in quei momenti, quando non è accanto a lei, che Ida si accorge infatti della necessità di suo marito. La distanza è ciò che permette loro – prima come adesso – di costruire un rapporto stabile e confortante (a differenza di quello che lega madre e figlia).
Se marito e madre non sanno aiutare Ida, la soluzione al trauma deve dunque venire da un’altra direzione. Sono i personaggi di Sara e Nikos, con le loro rispettive storie, a sbloccare la situazione: entrambi costringono la donna a confrontarsi con la fine di legami, che si spezzano rompendo quel filo sottile che la unisce al passato.
L’amicizia tra Ida e Sara si è ormai consumata, non è più possibile recuperare quella complicità di confidenze che derivava loro dalla condivisione degli anni del liceo: la vita le ha allontanate. E lo stesso accade con Nikos, il ragazzo che sta lavorando sul tetto di casa e di cui Ida è diventata amica: anche lui, dopo averle raccontato della sofferenza che nasconde dentro, lascia il mondo della protagonista. Entrambi questi abbandoni dolorosi permettono di capire ciò che per anni le era mancato: «imparare a dire addio». Partecipando a un lutto altrui e non personale, aprendosi al dolore degli altri, Ida elabora il proprio e grazie a questo cambiamento è finalmente capace di abbandonare alle onde il ricordo del padre, liberandosene definitivamente.
Il romanzo di Terranova si chiude così, con un’ultima risata di Ida, il padre che esce di scena e «il mio teatro che resta vuoto». Lo spettacolo è finito, gli spettatori possono alzarsi e uscire: Terranova ha raccontato una moderna e intima tragedia greca, in cui non si narra di una guerra crudele combattuta nella polvere e sotto a un sole rovente, ma di una battaglia intima e personale, tutta interiore, capace ugualmente di mietere vittime. È per questo che il libro è dedicato in particolare ai sopravvissuti, a chi cioè avendo a modo suo sofferto potrà riconoscere in Ida parte della propria battaglia e insieme a lei forse anche guarire. Perché ciò che Terranova ci ricorda è che per fortuna alcune storie, come questa, si chiudono a volte su un lieto fine e permettono ai protagonisti di proseguire, permettono nonostante tutto di sopravvivere.
Nadia Terranova, Addio fantasmi, Einaudi Stile Libero 2018, pp 208, €14,45