In questi mesi, nelle librerie, si potrebbe condurre un piccolo esperimento socio-antropologico. Si potrebbero monitorare le espressioni di chi, scorrendo tra gli scaffali di critica, si imbatte nel titolo La più bella del mondo, capendo che la bellezza a cui si fa riferimento è quella della lingua italiana. Credo che si raccoglierebbero per lo più sopracciglia alzate e sorrisi incerti, quasi imbarazzati. Potrebbe poi darsi il caso di qualcuno che consideri superba, immodesta, un po’ fuori misura, la scelta di Stefano Jossa, che di quel libro è l’autore. Ecco: reazioni del genere saranno anche possibili tra coloro che non si fermeranno a sfogliare il volume, tra coloro che non se ne lasceranno affascinare, ma basterà immergersi nelle prime pagine per capire che il titolo è eccessivo solo in apparenza, e che la lingua con cui è scritto e di cui parla merita tutt’altro che sufficienza o disattenzione.

In effetti, se si fosse davanti a The Most Beautiful in the World, a Le plus beau du monde oppure a Die Schönste der Welt, se il libro tutto fosse scritto in inglese, francese, tedesco, o in altra lingua, pur riferendosi sempre all’italiano, allora a ragione si potrebbe parlare di mancanza di misura, se non proprio di mania di grandezza. Ma Jossa scrive in italiano un libro sull’italiano per lettori italiani, e la forza del lavoro va ricercata proprio in questo superlativo assoluto che assume tinte relative ma non riduttive, in questo primato che non ha bisogno di classifica per affermare sé stesso. E seppur qualche passaggio lascia trapelare un orgoglio innescato dal confronto con gli altri idiomi – come quando si rivendica la matrice italiana di baguette, pastiche, jeans e del nome stesso di America (pp. 141-2) – non è qui, non è nella gara che batte il cuore del libro, bensì nella delineazione della bellezza di ciò che si ama, nel racconto di un lunghissimo e sempre rinnovato scegliersi e appartenersi, riconoscersi e impegnarsi per meritare l’altro. E l’altro, lo si è detto, è l’italiano.

Si sa, poi, che tanto più forte e consapevole è la scelta d’amore quanto più l’amante è lontano, quanto più il legame corre sul filo di una distanza che nessuno avrebbe voluto, ma che ugualmente si è chiamati ad affrontare. Proprio come fa l’autore, insegnante di Letteratura Italiana a Londra, che riflette: «Per ognuno di noi […] la lingua più bella del mondo sarà la sua. […] Per me, e per te che mi leggi, sarà l’italiano, alla cui bellezza è dedicato questo libro, con l’affetto che può provare solo chi nella vita quotidiana si trova a dover parlare una lingua non sua» (p. 8). Con queste premesse il libro assume allora i tratti, vagamente barthesiani, di un discorso amoroso per frammenti. Il lettore avvicina l’orecchio, curioso e un anche un po’ onorato di essere messo a parte di questo ragionamento sentimentale, e si inoltra nei meandri di qualcosa di simile a una delicata confessione personale.

Ma di un personale tutt’altro che lontano dal pubblico. L’amore in gioco sembra infatti uno di quelli nati tra i banchi delle università negli anni ’60, in piena contestazione studentesca, quando il privato era politico e non si poteva tralasciare il portato etico e sociale di alcuna scelta. In effetti, i sette capitoli del libro parlano tutti, più o meno scopertamente, di politica. Nello specifico, di democrazia. Jossa sottolinea che quando Bembo, in pieno Cinquecento, sceglie il fiorentino del Trecento come lingua comune degli italiani, i fiorentini suoi contemporanei non godono di alcun vantaggio, essendo il loro volgare distaccatosi tanto quanto qualunque altro dal modello di due secoli avanti: la lingua italiana si costituisce dunque come comune perché comune è l’impegno che richiede ai suoi parlanti. Ed è proprio nella condivisione di tale scelta che può costruirsi un senso di appartenenza democratico, un’identità, un senso di uguaglianza.

Uguaglianza, si badi, nel senso di parità di diritti e di opportunità (intellettuali e non), non di mediocre appiattimento a un’unica voce dominante, come ricordano efficacemente l’opera e la personalità di Gadda, qui discusse nel paragrafo sulla ‘Lingua media (e dei media)’. E allora è democratico l’accesso alla lingua permesso dai classici, «perché le loro parole, oggettivate dall’appartenenza alla tradizione e dal consenso della scuola, non sono manipolabili, hanno una trasparenza assoluta e non dipendono dalle circostanze esterne» (p. 146). È democratica la bellezza, in quanto «partecipazione anziché contemplazione» (p. 77). È democratica la regola, perché stabilendo il confine tra giusto e sbagliato costituisce l’unità fondamentale di qualsiasi costruzione grammaticale, logica e giuridica, e di conseguenza anche economica e politica (p. 119).

Su quest’ultimo punto l’autore si sofferma a lungo, sviscerando il portato mediatico del (mancato) ‘Congiuntivo di Di Maio’, di cui vengono forniti esempi a cui già oggi, a pochi mesi dall’uscita del libro, si potrebbero aggiungere nuovi casi. Jossa è bravo a non ridicolizzare una situazione già di per sé molto spiacevole: non affonda nella piaga alcuna bacchetta professorale e, nonostante tutto, esprime una visione chiara dell’utilità, anzi, della necessità di evitare la sciatteria linguistica oggi imperante. Una necessità che sembra svilupparsi su due livelli. Da un lato il parlar bene è facilmente accostabile all’agire bene politicamente; al contrario, l’errore grammaticale invita a una delegittimazione culturale, e quindi politica, che risponde all’atavico reciproco influenzarsi di forma e contenuto. E fin qui siamo al primo grado di necessità, quello visibile. Ma poi ci si accorge che «parlar bene è il risultato di un percorso di acquisizione di competenze di ragionamento oltre che espressive» (p. 116). Ed è proprio nel percorso, nell’impiego di tempo, nella dedizione e nella cura, che risiede il valore essenziale di un buon uso del proprio idioma, perché «la lingua ci consente di fare ciò che è più interessante nella vita e che ci definisce in quanto esseri umani: diventare qualcun altro rispetto a ciò che eravamo all’inizio» (p. 182).

Insomma Jossa, ‘con leggerezza apparente’ di leopardiana memoria, ci mette di fronte a una politica incamminata su un pericoloso piano inclinato e ci avverte che la cultura sembra resistere a stento al progressivo declino. Ma un appiglio prima di toccare il fondo, prima di essere del tutto impegolati – in senso etimologico, tanto per restare in tema – sembra possa essere lanciato proprio dalla lingua, da quello strumento fragile solo in apparenza, e solo agli occhi di chi non sappia accorgersi che è questo a saper «guardare più in alto, […] in quella regione del bello che appartiene al regno delle idee e non alle comuni pratiche umane» (p. 12). George Orwell distingueva tra gli utopisti con la testa fra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango. Ebbene, che la lingua abbia i piedi nel fango, nel parlato di ogni giorno, è realtà chiara a tutti. Che in particolare la lingua italiana si ponga ai parlanti anche come un auspicio, come una meta alta a cui mirare, come un esempio identitario a cui tendere, stanno lì a dimostrarlo alcuni secoli di storia letteraria. Che si escludano o si accolgano nuove forme, che si prediliga la norma o l’uso, in ogni caso è a questa lingua utopista e realista insieme che bisognerebbe tornare a guardare con deferente fiducia. Chissà che nel tragitto non si recuperi anche il senso delle cose.

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E chissà anche che non ci si diverta. In questo libro lo si fa spesso, e vale la pena di notarlo perché i sorrisi che genera sono tutt’altro che figli del disimpegno, bensì stimolano riflessioni e rapiscono in una lettura rapida e vorace, interrotta solo dalla curiosità di ricercare gli sketch comici, i film e le canzoni che di tanto in tanto colorano il procedere delle riflessioni linguistiche. La vivacità dialettale, ad esempio, è analizzata attraverso due indimenticabili sonetti belliani, passando per lo spunto cinematografico di Mery per sempre, perfetto caso di studio sulla capacità aggregante della cultura. La varietà combinatoria dell’italiano è illuminata da quel geniale pastiche che è Cuccurucucu di Battiato, mentre delle canzoni di Sanremo vengono ricordate le radici letterarie. Sandro Penna mette in dialogo Marco Tullio Giordana e Francesca Archibugi e per loro tramite si legge la poesia come «grammatica generazionale», come «concentrato simbolico» e «repertorio di senso» in cui tutti possano riconoscersi (p. 167). Ancora, i guzzantiani Lorenzo, Rokko Smitherson e Gianfranco Funari introducono a una lezione sulla figuralità della metafora (o metàfa) che qualsiasi liceale avrebbe voluto ascoltare – previa necessaria visione di vere pietre angolari degli anni ’90 come Avanzi, Scusate l’interruzione e Pippo Chennedy Show.

Alla scuola, a quel che i programmi ministeriali prevedevano, prevedono o dovrebbero prevedere, Jossa fa riferimento spesso. Ma del resto già dalla copertina, da quel rosso e quel blu di ginnasiale memoria, si intende che non si può parlare di lingua senza parlare anche del modo di impararla e di insegnarla, di renderne non solo la bellezza del suono, ma anche il «piacere più sofisticato e sottile» (p. 161). E sebbene il libro si guardi dalla manìa accademica delle note bibliografiche – fonti e riscontri sono forniti in un’unica nota finale di una manciata di pagine –, non per questo si dimostra da meno rispetto ai manuali di sociolinguistica quanto a chiarezza nel definire, ad esempio, potenza performativa e potenza significativa o ambiguità strutturali dei linguaggi. O rispetto ai grandi manuali di storia della lingua quando passa a delineare la storia della rima dalle origini al ’900, il ruolo cardinale delle tre corone trecentesche (Dante, Petrarca e Boccaccio), l’intervento normativo di Bembo, il progetto letterario di Manzoni o la questione novecentesca discussa da Gadda, Pasolini e Calvino.

Forse solo per quanto riguarda Calvino sentirei di muovere un’obiezione. In effetti, stando alla chiosa del capitolo primo, l’intero libro si sviluppa come una sconfessione del saggio calviniano intitolato ‘L’antilingua’, secondo cui il valore di una lingua risiederebbe nella sua traducibilità, nella «capacità di istituire un rapporto diretto, transitivo, tra parole e cose» (p. 28). È piuttosto difficile negare che quel saggio abbia delle debolezze argomentative. Rimane memorabile per la macchietta del brigadiere incapace di utilizzare un italiano vivo e non pretenziosamente altisonante, ma dal punto di vista teorico crea forse più problemi di quanti ne risolva. Sembra però ingiusto non menzionare che, nel dibattito del biennio ’64-’65, Calvino interviene, prima che con ‘L’antilingua’, con l’articolo ‘L’italiano, una lingua tra le altre lingue’. Di quel saggio Jossa non tiene conto, sicuramente per via di scelte funzionali al taglio agile del suo libro, ma forse un accenno sarebbe stato utile. Il Calvino che qui viene fatto passare per sostenitore di una «banale ‘traducibilità’» dell’italiano (p. 30), in quell’intervento sottolinea quanto il valore di ciascuna lingua risieda proprio nella sua specifica creatività, esclusiva ed insostituibile. E se è vero che ne ‘L’antilingua’ lo scrittore separa con una certa avventatezza il carattere traducibile e comunicativo da un presunto polo opposto intraducibile, al tempo stesso popolare e letterario, non si può non riconoscere che lo fa avendo a mente come avversario da battere proprio la piattezza che anche Jossa aborrisce, mirando a un italiano che sia il più possibile concreto e preciso.

Soprattutto, poi, Calvino potrà legittimamente non piacere, alcune sue opere potranno non entusiasmare, si potrà voler discutere il suo statuto di classico del Novecento, ma non si può non riconoscere come la sua lingua abiti tutt’altro che una «riserva indiana» (p. 30). Al contrario, le pagine di Calvino scorrono sempre in un ponderato equilibrio tra colloquiale e letterario, riflessione e fantasia, reale e immaginario, e mi pare che la forza della sua opera risieda proprio nell’aprire la «riserva» linguistica italiana, interagire con il molteplice materiale presente al suo interno e fornirne una rielaborazione semplice – ma non per questo banale –, efficace e soprattutto trasversale.

Tornando ai nodi caldi del libro di Jossa, il confronto con le altre lingue, oltre che nella questione della traducibilità dell’italiano, è indagato anche nella lucida analisi dei rapporti di potere tra diverse culture a seconda degli ambiti di riferimento, siano essi economici, culturali, legali o sportivi: rapporti che sono sempre esistiti, inevitabili tanto più nella società globale contemporanea, e di cui calchi lessicali, prestiti e slittamenti semantici costituiscono i fisiologici portati. Tanto meglio allora comprendere il fenomeno equanimemente, come invita a fare il paragrafo ‘Applicare e supportare’, che aggrapparsi a noiosità retrograde e polverose, come di chi per esempio si ostini a parlare di reti sociali piuttosto che di social network, in un ambito come quello informatico la cui matrice è geneticamente e intrinsecamente anglofona.

Proprio come un network – «si dice rete!» –, proprio come una rete si sviluppa La più bella del mondo. Se ne potrebbero seguire altri fili: quello della lingua come base di socialità e condivisione, di intelligenza e di affinamento di doti personali, quello della varietà inventiva, della storia ingombrante e del suo rapporto con l’ipercontemporaneità. Si lascia al lettore la ricerca dell’intersecarsi di tutte queste tracce. E se questo lettore si sentirà particolarmente pensato e tenuto da conto quando, per scoprire la soluzione dell’Indovinello veronese, passerà per un ‘volta la carta’ di bell’effetto (a p. 155 la felice coincidenza tipografica), così questi avrà la sensazione di continuare a leggere anche quando ad essere voltata sarà stata la carta finale. Perché si renderà conto che con la lettura de La più bella del mondo avrà acquisito uno strumento di analisi duttile e fine, col quale affrontare con rinnovata consapevolezza il linguaggio quotidiano. Proprio come un amante che torni al proprio amore più convinto ed entusiasta che mai.


9084483_3404264Stefano Jossa, La più bella del mondo. Perché amare la lungua italiana, Einaudi, 2018, pp. 200, € 17