Vikash Dhorasoo non è Ezio Vendrame: lo si evince da meriti sportivi, peso mediatico e profondità di analisi. Va da sé che il suo libro d’esordio non sia un pamphlet sulla bellezza dell’essere esclusi pur di non servire i padroni, ma un monologo sulla fallibilità umana. Tanto più che il connubio tra 66thand2nd e il normanno-mauriziano è l’ennesimo colpo delle Vite inattese, florida collana a tema biografico troppo spesso associata al solo Giorni selvaggi di Finnegan – paradossalmente uno dei titoli meno “sportivi” e il più “melvilliano” di un catalogo che ospita, tra gli altri, lavori dedicati a Pantani, Zátopek, Maradona, Best, Merckx e Jordan. La pubblicazione di Con il piede giusto (Comme ses pieds, 2017) è operazione coerente e ragionata: la vicenda professionale del fantasista, prima calciatore e poi pokerista-regista-giornalista-scrittore, si intona perfettamente alle esigenze editoriali, ma, soprattutto – ed è il fattore che accresce il valore intrinseco dell’opera –, Dhorasoo compare quale unico firmatario del volume. Se dunque questo breve romanzo di formazione – nonostante qualche ovvio limite formale e alcuni scivoloni verso il luogo comune («Il calcio è uno sport che inizia 0-0 e può finire 0-0. Amo questo sport perché racconta (…) l’ingiustizia, con o senza prova tv») – risulta scorrevole e ben articolato, ciò è per merito di un autore che si affaccia alla letteratura ufficiale senza il contributo di giornalisti: si veda per contro il caso di Kareem Abdul-Jabbar, regolarmente assistito nella stesura, o l’ottimo lavoro di Moehringer per Open. La tecnica è quella del flusso di coscienza, in nome di un percorso introspettivo condotto spesso in chiave psicanalitica: leitmotiv e scopo della narrazione è, in fondo, la comprensione di sé, scandita dalla climax uomo / personaggio / personaggio scomodo. Ogni capitolo si apre con l’immagine – ripetizione anaforica e ossessiva – della sostituzione di Dhorasoo nel corso della sua ultima partita al Le Havre: l’ovazione che ne accompagna l’uscita, atto simbolico che pone di fronte alla necessità di reinventarsi, è il segno di un cambiamento.

Nonostante il preambolo chiarisca come la vita degli sportivi di successo non sia qualcosa di semplice né ordinario, il più immediato livello di lettura si concentra sull’esistenza di un uomo comune. Se ne ripercorre anzitutto l’infanzia, trascorsa nel quartiere meticcio di Caucriauville tra le grida di una madre apprensiva, uno zio amante dei Fleetwood Mac e un padre sindacalista, ombroso e avventuriero, che dopo aver abbandonato le Mauritius per cercare fortuna in Francia finirà ucciso dall’amianto dei cantieri portuali (benché all’amianto non si trovi alcun riferimento nelle pagine sul periodo speso a Livorno, città che viene liquidata in modo perentorio: «le persone di sinistra nel calcio sono una manica di stronzi»). Snodo essenziale della maturità è l’amore per Émilie, dolce figlia del presidente del Le Havre e madre dei due figli di Dhorasoo: il legame, apparentemente più forte degli spostamenti imposti dalla routine calcistica, si conclude con un divorzio meditato e sofferto. Nel fare il punto sulla fitta rete di rapporti umani, passando per incontri fortuiti che hanno cambiato l’umore di una giornata (come la sbronza livornese in compagnia del tifoso Stefano) e personaggi che hanno condizionato l’intero corso degli eventi (spicca la storia con Domenech, misto di passioni e tradimenti), si delinea via via la personalità dell’autore. Il Dhorasoo adulto e padrone del proprio destino è capace di lasciare il calcio per colpa del menù di un ristorante: dover rinunciare all’andouillette di Grenoble era diventato, francamente, troppo anche per lui (non a caso «per giocare a calcio bisogna accettare di mangiare broccoli con pesce bollito”; si veda, per la “questione alimentare», la recente querelle nata a proposito della bistecca d’oro ordinata da Ribéry a Dubai).

Eliminatoires de la Coupe du monde 2006. France-Chypre. Victoire de la France 4-0. La France se qualifie pour la Coupe du monde en Allemagne  grâce à sa victoire et au match nul 0-0 entre l'Eire et la Suisse.  dhorasoo (vikash)

Alla sovraesposizione dell’atleta è riservato il secondo piano, la retrospettiva sulla carriera: Dhorasoo si scaglia, da ex-professionista, contro la riduzione di una categoria a mandria di bestie ignoranti e strapagate (il titolo originale, oltre ad adattarsi a chi “pensa” con i piedi, sembra in effetti un richiamo al nesso bête comme ses pieds, più o meno “con il cervello di una gallina”). La dimensione psicologica subentra con forza in diversi passaggi, a cominciare dal debito di gratitudine nei confronti del “gioco”: che si tratti di indiani e cowboy, poker o boca mauriziana, senza questa componente si è perduti («è piuttosto banale, ma è così che tutto è iniziato. Per essere contento»). Tra le tematiche ricorrenti figurano la noia, l’essere “riserva” (specie se di Zidane, Juninho o Pirlo) e le attese all’interno del tunnel, ultimo istante di verità prima della grande rappresentazione. È irrisolta la questione dei fischi, che accompagnano Dhorasoo in nazionale («siamo pagati tanto per quanto veniamo insultati») e nel ritorno a Lione durante un prestito al Bordeaux (esilarante la diagnosi: «l’amore, senza ombra di dubbio»); trasuda consapevolezza dall’ampia riflessione sulla strana intelligenza dei calciatori, «persone speciali brave in modo anomalo» perché abituate a pensare con i piedi. Nomi e retroscena si moltiplicano: dall’astio per Coupet, portiere-senatore del Lione che isola Dhorasoo dal resto del gruppo, si arriva agli amici Luyindula e Djibril Diawara, noto in Italia per aver causato la rottura del labbro all’allora juventino Inzaghi in un match di Champions. Ancelotti, a un certo punto, dirà addirittura che il calcio, rispetto a un film, «non si ripete mai», mentre Costacurta mostrerà un’ottima conoscenza del francese e Seedorf definirà «partite perfette» gli 0-0 in allenamento. Ma proprio il rapportarsi alle leggende, tra punte di malcelata invidia e momenti di rispetto sacrale, assume tinte contraddittorie. Bastino tre esempi: a) a proposito di Maradona, riferimento immancabile, si dice che «il calcio è unico perché, fatta eccezione per Maradona, si gioca con i piedi e soltanto con i piedi»; b) del Maldini degli ultimi tempi si traccia un’immagine controversa: un campione mai tanto vicino al Pallone d’Oro come dopo l’1-0 di Istanbul e mai tanto tutelato da arbitri e compagni, che in allenamento evitavano di sfidarlo a torello; c) di Zidane, trascinatore della Francia in cui pure militò lo stesso Dhorasoo, si rievoca con amarezza la decisione di tornare in nazionale a ridosso di Germania 2006, che condusse all’esclusione del trequartista dalla rotazione dei titolari. Eppure, pronto a trascorrere da spettatore il mese più importante di un’intera carriera, Dhorasoo poté realizzare, coadiuvato da Fred Poulet, il documentario The substitute, incentrato sul proprio mondiale da riserva e mal recepito dallo spogliatoio bleu: se, in sostanza, Zidane è il dedicatario di un intero film con colonna sonora dei Mogwai, Dhorasoo ha scelto di diventare regista e provvedere autonomamente (mancano, per fortuna, parallelismi tra regia al cinema e sul campo). Del resto, l’ego del nostro è ben rappresentato dal reiterato adagio «io le finali che gioco non le perdo», con duplice allusione al Mondiale tedesco e all’atroce Milan-Liverpool dell’anno precedente.

Il passaggio a “personaggio scomodo” è materia di un terzo e obbligato livello interpretativo, chiamato in causa dalle diffuse esternazioni di ostilità rivolte dall’autore agli ambienti istituzionali. Partendo dal calcio, di cui Dhorasoo mette in dubbio il portato morale – è un contesto di «mercificazione”, in cui può capitare che leggere “Repubblica” sia considerato sovversivo dallo staff di Berlusconi –, le rivendicazioni ideologiche si estendono alla politica francese dell’ultimo trentennio, con precise prese di posizione («credo ferocemente alle utopie e alla probabilità che accadano», ma anche l’intramontabile «un altro calcio è possibile»). Con il tempo, Dhorasoo dismette i panni del bohémien contrario a colpire di testa perché «la gravità fa sì che la palla ricada sempre a terra»: diventa emblema dei bassifondi di Le Havre, condanna il razzismo riaprendo il discorso già di Thuram, vota Chirac pur di opporsi a Le Pen, fonda un’organizzazione umanitaria specializzata nel promuovere il calcio e piange per i morti di Charlie Hebdo. Il nuovo Dhorasoo riconosce i propri limiti: non nasconde la rabbia per la mancata acquisizione del Le Havre, ammette di essersi sentito fuori posto a Parigi, Lione, Milano, Livorno e dichiara con candore di non essere stato sempre all’altezza. Il nuovo Dhorasoo sostiene di essere davvero cresciuto, perché ha imparato a perdere. Certo è riuscito, senza l’aiuto dei piedi, a portare in scena una vita e le sue contraddizioni.


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Vikash Dhorasoo, Con il piede giusto, 66thand2nd (Vite inattese), Roma 2018,  147 pp. 15,00€