Girano molte dicerie sulla scomparsa di Arthur Cravan, tutte malcerte e degne di un personaggio di Roberto Bolaño: qualcuno dice di averlo visto l’ultima volta mentre prendeva il largo su una barca durante una tempesta nel Golfo del Messico; c’è chi sostiene invece che sia annegato nelle acque del Rio Grande, mentre altri ancora lo danno per morto per una pugnalata al cuore, infertagli in una balera di Città del Messico.
Se in merito alla possibile morte di Cravan è prudente non esprimersi in maniera troppo netta, in quanto circolano non meno numerose ipotesi su una sua possibile ricomparsa, si può più affermare in modo più sereno che egli sia vissuto almeno due volte: come uomo, dal 1887 fino, si suppone, al 1918, dunque come personaggio nella penna di Edgardo Franzosini, curatore di una recente silloge di testi cravaniani (Grande trampoliere smarrito, Adelphi 2018) e autore del racconto biografico che chiude e in un certo senso abbraccia la sezione antologica del volume.
Per apprezzare la sottigliezza con cui Franzosini sagoma questo nuovo profilo, che va ad aggiungersi alla sua ormai ricca galleria di ritratti bizzarri, in prima approssimazione è bene distinguere i due volti di Cravan emergenti dalle pagine del libro – l’autore reale antologizzato e il personaggio letterario –, inevitabilmente destinati ad affrontarsi e sovrapporsi.
Nel corso della sua ormai lunga attività di narratore, Franzosini si è specializzato in maniera pressoché esclusiva nel racconto biografico, fino a diventare uno dei massimi esponenti italiani del genere. L’insistenza quasi maniacale con cui l’autore brianzolo ha spremuto, senza per questo ripetersi, le possibilità del suo “formato” elettivo, una misura sempre a cavallo tra racconto lungo e romanzo brevissimo, battendo in lungo e in largo ogni centimetro di questo perimetro magico, gli ha permesso di cesellare una serie di libretti memorabili, tra i quali si ricordano, in base a un criterio di affezione personale: Bela Lugosi: biografia di una metamorfosi (Tranchida 1984; poi Adelphi 1998), Il mangiatore di carta (SugarCo 1989, poi Sellerio, 2017), e Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi, 2015), rispettivamente dedicati al celeberrimo attore ungherese Béla Blaskó, a Johann Ernst Biren, un personaggio “cartifago” di Balzac, e a Rembrandt Bugatti, scultore animalista, fratello del più noto Ettore Bugatti.
La sezione antologica di Grande trampoliere smarrito ospita poesie, corrispondenze personali e prose di vario genere, la gran parte delle quali furono pubblicate per la prima volta su «Maintenant», rivista fondata, diretta e totalmente redatta da Cravan in persona, che la vendeva spingendo un carretto da ortolano per le vie di Parigi.
Fabian Avenarius Lloyd, trasformatosi in Arthur Cravan in un esuberante episodio di illuminazione che preferisco lasciare al lettore, nasce a Losanna da Otho Lloyd, cognato di Oscar Wilde, e Hélène Clara St. Clair; appena ventenne si trasferisce a Parigi, dove divide equamente le sue frequentazioni tra il Bal Bullier, una sala da ballo dove conoscerà, tra gli altri, Robert Delaunay e Blaise Cendrars, il Paris Boxing Club di Fernand Cuny e la Bibliotèque Nationale.
Franzosini, imbattutosi fortuitamente in Cravan grazie ad una fotografia appesa in una libreria di Barcellona, sin dalle prime righe del suo scritto, L’importanza di non chiamarsi Fabian Avenarius Lloyd, mette a fuoco l’anima plurale di questo eccentrico personaggio:
Arthur Cravan fu poeta, scrittore, pittore, critico d’arte, conferenziere e pugile (ma, secondo Blaise Cendrars, anche scassinatore, raccoglitore di arance nelle piantagioni della California, pescatore di merluzzi al largo di Terranova, conducente di taxi e ricattatore: tutte occupazioni che Cravan intraprese e quindi abbandonò perché attratto, come scrisse lui stesso, dalla «meravigliosa vita del fallito»).
Poeta e pugile: due qualifiche contradditorie solo in apparenza e perfettamente saldate in Cravan, individuo per il quale l’attività poetica è prima di tutto una questione fisica; egli intrattiene infatti uno speciale rapporto con la sfera corporea, sia con la propria che con quella delle persone intorno a lui. Pare che a ventitré anni egli avesse raggiunto i due metri di altezza e pesasse un quintale abbondante; eppure, per quanto la sua stazza fosse certamente ragguardevole, per tutto il corso di quella breve esistenza quell’imponente complesso di muscoli si è rivelato una gabbia fin troppo esigua per le infinite anime che lo affollavano:
Posso spassarmela a Montmartre e fare mille eccentricità, poiché ne ho bisogno; posso essere riflessivo, fisico; trasformarmi di volta in volta in marinaio, giardiniere o parrucchiere; ma se voglio assaporare la voluttà del sacerdote, devo sacrificare cinque dei miei quarant’anni di esistenza, e perdere incalcolabili piaceri, intanto che farò il savio e basta. Io, che per me sogno persino delle catastrofi, dico che per l’uomo la grande sventura è avere mille anime in un corpo solo.
Al netto di certi vezzi decadenti, questa spiccata tendenza al panismo avvicina Cravan alla personalità poetica di Walt Whitman («I am large, I contain multitudes»), fatto che rende questo personaggio magnificamente contradditorio, regale e insieme pidocchioso, un adorabile spaccone part-time capace di lanciare la sua penna in ruggenti cavalcate, per arrabattare subito dopo delle ritirate fulminee, che ne rimpiccioliscono la statura in un istante, trasformandolo da titano a microbo.
Cravan è tarlato dall’imperativo di dimostrare in continuazione la propria grandezza nei confronti di chiunque, ma in modo particolare di coloro che ritiene a vario titolo delle autorità artistiche, come testimoniato dalle prose dedicate alle visite, delle vere e proprie improvvisate, che Cravan fece ad André Gide e al suo illustrissimo zio, Oscar Wilde (e poco importa che Wilde fosse morto parecchi anni prima della suddetta visita); anche i suoi memorabili fiotti corrosivi, sputati in qualità di critico d’arte, testimoniano un’insicurezza di fondo, l’ansia di doversi sentire l’unità di misura del mondo.
Il sintagma «meravigliosa vita del fallito» potrebbe ricordare il principio dannunziano della “vita inimitabile”, e per certi versi lo fa: in questo aspetto, Cravan è legato a doppio filo alla sua epoca, ma il suo essere “fallito”, il suo essere cioè sempre in dissidio e dissidente, costituisce l’antidoto necessario per neutralizzare il suo ego ipertrofico quel tanto che basta da renderlo un personaggio letterariamente funzionante, ossia interessante per i propri difetti.
Per capire cosa intendo, si può osservare come uno slancio tipico del Cravan più lirico, se vogliamo anche stereotipato nel suo attacco, si accartocci comicamente sul finale, creando un interessante cortocircuito: «Vagando per le strade, rincasai lentamente, senza mai distogliere gli occhi dalla caritatevole luna, come un coglione».
Un’altra caratteristica concorre a rendere Cravan un personaggio adatto a destare gli interessi di uno scrittore come Franzosini: il suo essere un perfetto “catalizzatore” d’aura artistico-cultuale; gli episodi della sua vita infatti, anche qualora non fossero trattati letterariamente, basterebbero a renderlo un’inesauribile fonte di aneddoti.
Cravan scorrazza da una città all’altra, solca gli oceani, cambia continente e, ovunque vada, la sua presenza attira a sé esperienze ed incontri straordinari; egli sfuma la propria identità dietro vari eteronimi, si fa travolgere da una nuova passione ad ogni cambio di vento, ma la sostanza non cambia: il suo destino gli impone una vita che non può mai essere meno che meravigliosa, nel bene e nel male.
La sua sgangherata rivista, della quale usciranno solo cinque numeri, costituirà per Breton un preludio al dadaismo; le sue camicie, esibite nelle sale da ballo parigine, arriveranno ad influenzare i futuristi italiani e i pittori del raggismo russo. Tutti subiscono il fascino di quest’uomo colossale: André Gide inscriverà alcuni suoi tratti in uno dei personaggi de Les Caves du Vatican, Lafcadio Wluiki; Lev Trockij scambierà alcune battute con Arthur a bordo di una nave diretta verso gli Stati Uniti e Marcel Duchamp disputerà con lui alcune memorabili partite a scacchi a New York.
Riprendendo impropriamente un motto di Alejandro Zambra sul Bolaño poeta, si potrebbe dire che Cravan, come persona, fu un meraviglioso personaggio: la sua vita è pura letteratura e il ricostruirne le tappe produce un mosaico di episodi che, visto da lontano, rappresenta uno scorcio affascinante di cosa siano stati i primi anni del XX secolo dal punto di vista artistico-culturale.
Questo materiale permette ad uno scrittore elegante, misurato e leggermente bizzarro come Franzosini di lavorare in modo più occulto su certi snodi della biografia di Cravan, magari semplicemente selezionando, montando e aggiustando i materiali disponibili, mentre in altri di mostrare la sua mano in maniera più vistosa, come gli accade quando deve raccontare il primo incontro fra Cravan e il pugile Jack Johnson, primo campione afroamericano dei pesi massimi della storia, in vista del match che li avrebbe visti opposti come avversari su un ring di Barcellona: «E poiché nessun testimone oculare ha mai fornito un resoconto attendibile di come si sia svolto quel loro primo e unico colloquio, possiamo solo immaginarlo» (p. 165).
Giunti alla fine delle peripezie di Cravan ci si sente spossati come dopo una lunghissima corsa (o dopo un match di boxe?), con ancora impressa nella mente quell’infinita serie di incontri, incroci e relazioni che hanno per sfondo la Storia. Da questo punto di vista, assocerei il libro ad altri due, che con questo probabilmente condividono solo il rutilare policentrico di sagome storiche legate alla cultura del XX secolo: Storia abbreviata della letteratura portatile (1985) di Enrique Vila-Matas e Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002) di Michele Mari.
In fin dei conti, del Cravan autore restano in mente i guizzi imprevedibili, la sua bizzarra poliedricità e la notevole bellezza di alcune sue lettere d’amore, spesso inviate a diverse donne nello stesso periodo, ulteriore riprova della fisicità pulsionale dell’estro poetico di quest’uomo chimerico; il personaggio Cravan è certamente più efficace, grazie soprattutto al lavoro di Franzosini, che, vestendo gli inediti panni del curatore, con questa operazione porta il grado di “spettralità” del suo lavoro ad un livello ulteriore, restando tuttavia fedele al proprio percorso e aggiungendo un degno elemento al proprio repertorio di vite raccontate. Un dubbio mi punge in chiusura: e se l’intera carriera di Franzosini non fosse altro che uno stoico e ripetuto esercizio di cura nei confronti di quei personaggi che, di volta in volta, egli ha deciso di restituirci con la penna?
Le immagini all’interno dell’articolo sono tratte dalla graphic novel Io sono Arthur Cravan di Gabriele Tinti e Mauro Cicarè (NPE )2016