Site icon La Balena Bianca

I finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2019

Venerdì scorso, il Premio Nazionale di Narrativa Bergamo ha rivelato al pubblico i cinque titoli finalisti della XXXV edizione e i nomi dei loro autori con una cerimonia che si è tenuta nella splendida cornice della Sala Achille Funi di UBI Banca, un luogo storico e particolarmente caro al Premio, poiché aveva già accolto le prime edizioni. Alla presenza di Luca Gotti, Responsabile della Macro Area Territoriale Bergamo e Lombardia Ovest di UBI Banca, e del Presidente del Premio, Massimo Rocchi – che ha sottolineato l’importanza di questi trentacinque anni di attività, grazie alla tenacia e all’impegno di chi l’ha iniziato e di chi lo sta proseguendo – il nostro redattore Giacomo Raccis ha presentato le opere finaliste.


Se è vero che tra i compiti delle critica letteraria, il primo e il più importante è quello di orientare i gusti del pubblico, mostrando nel variegato panorama librario quel che, ai diversi piani del sistema letterario, è fatto con più acume e sapienza, in modo da soddisfare i gusti di un pubblico dalle diverse esigenze, che può andare a caccia di raffinate sperimentazioni, ma anche di un nobile intrattenimento narrativo, allora possiamo dire che anche quest’anno il Premio Narrativa Bergamo e la sua Giuria Tecnica hanno svolto un’accurata funzione critica, rivolta a tutti i lettori (e aspiranti tali) che ogni anno lo seguono.

Si può fare una simile affermazione perché la cinquina di quest’anno, più che in altre edizioni, sembra offrire uno sguardo plurale su quel che offre oggi la narrativa italiana. Senz’altro tra i cinque libri selezionati per la vittoria finale – I vivi e i morti di Andrea Gentile (minimum fax 2018), La lettrice di Čechov di Giulia Corsalini (Nottetempo 2018), Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi Stile libero 2017), Le vite potenziali di Francesco Targhetta (Mondadori 2018) e Cosa diremo agli angeli di Franco Stelzer (Einaudi 2018) – esistono delle assonanze, si possono trovare simmetrie di volta in volta diverse, ma nel complesso ciascuno di essi sembra portare con sé un’idea di stile e di racconto molto specifica, capace di farne una voce significativa di una determinata porzione del campo romanzesco contemporaneo.

Il discorso vale senz’altro per I vivi e i morti di Andrea Gentile. Narratore ancora giovane ma dall’identità letteraria già forte, Gentile recupera con questo romanzo atmosfere e temperatura linguistica che erano già nella sua opera d’esordio, L’impero familiare delle tenebre future (2012), e ne fa i caposaldi di un romanzo che rinuncia al realismo per mettere in scena una piccola cosmogonia, orrorifica come ogni mito delle origini. Al centro della scena è Masserie di Cristo, piccolo paese del Molise più rurale, terra di una comunità umana cementata intorno a ritmi e riti arcaici, a tratti addirittura preistorici. Attraverso uno stile evocativo («Cieli, ascoltate. Terre udite. Noi non siamo né vivi né morti»), volto a proiettare sull’orizzonte di un’epica millenaria la miseria quotidiana di uomini in lotta con la Natura e con le proprie debolezze, si intrecciano storie di personaggi ancora viventi e leggende di spettri tornati ad abitare i “propri” luoghi. È una dimensione mitologica quella a cui ambisce il racconto di Gentile, che conduce il lettore in una realtà in cui ogni cosa, ogni gesto esiste innanzitutto per il significato metafisico che riesce a suggerire. In questa dimensione sospesa tra la vita e la morte, tra l’accadere e il contemplare, si susseguono assassinii rituali, inattese metamorfosi, viaggi agli inferi e guerre fratricide: la trama si anima così, mossa da un afflato che rischia, tuttavia, di smaterializzarsi in ogni momento, perché «ciò che viene chiamato mondo sono solo pensieri». Quel che rimane, allora, è l’impasto originalissimo della lingua creata da Gentile che restituisce potere a una parola capace di convocare forze oscure, ma anche di dare corpo a un mondo nuovo, al tempo stesso dentro e fuori dalla realtà che siamo abituati a conoscere.

 

Agli antipodi si colloca il romanzo di Giulia Corsalini, caratterizzato da coordinate narrative precise e da uno stile sobrio, a tratti scabro. La lettrice di Čechov racconta una storia che si muove sull’asse Kiev-Macerata in anni prossimi ai nostri. È solo apparentemente insolita la geografia che fa da sfondo alla vicenda di Nina: la sua è una storia come tante, di una donna colta che accetta di allontanarsi dalla propria famiglia e svalutare la propria professionalità per andare in Italia a lavorare come badante. La sorte, però, ha in serbo per lei una serie di coincidenze che la costringeranno a ripensare radicalmente se stessa. Per caso viene chiamata a insegnare lingua e letteratura russa nell’università di Macerata e da lì comincia a frequentare un anziano professore, figura burbera ma a suo modo affettuosa, che le permetterà di comprendere meglio il proprio ruolo nei confronti della figlia rimasta sola a Kiev e del marito, nel frattempo scomparso dopo una lunga malattia. L’intreccio si dipana esile, sull’onda dei ricordi che Nina assembla nel tentativo di restituire un senso alla sua esistenza: il passato «viene a chiedere udienza», tracciando simmetrie con il presente, producendo piccole epifanie che rivelano qualcosa che era rimasto troppo a lungo implicito nella coscienza della donna. Strumento di conoscenza, la narrazione di sé consente alla narratrice di ripensare a tutte le donne che è stata nel corso della sua vita: madre prima intransigente e poi fragile, moglie innamorata ma anche compagna negligente, badante scrupolosa, ma anche donna risoluta e imprevedibile nelle proprie scelte. L’autoanalisi di Nina finisce così per tracciare un percorso di scoperta di una femminilità originale, per certi versi scandalosa in tempi di politicamente corretto: Nina conquista la consapevolezza di non dover rinnegare le proprie debolezze, rivendica – al costo di grandi sofferenze – il proprio diritto a essere al di sotto delle aspettative altrui, celebra la priorità del proprio desiderio di vivere libera da vincoli sociali, protagonista della propria insignificante parabola.

 

Con Ipotesi di una sconfitta, invece, Giorgio Falco porta (forse) a compimento un percorso iniziato con il libro d’esordio, Pausa caffè (2004) e portato avanti con i racconti di L’ubicazione del bene (2009), con cui era stato finalista al Premio Bergamo nel 2010. Lo potremmo chiamare un percorso di progressiva messa a fuoco del mondo del lavoro contemporaneo, quello che trova sempre meno rappresentazione giornalistica e politica, ma che in realtà ha finito per impregnare con il proprio lessico (lungo il binomio riuscita-fallimento) la comune concezione della vita privata. Così, dopo i fulminanti sketches della raccolta d’esordio, ambientati in una grande azienda di telecomunicazioni, e dopo i raggelati quadri del secondo libro, che mostravano il versante della vita domestica, dove si ripercuotono isterie e frustrazioni di una piccola borghesia ambiziosa ma succube del mito autoimprenditoriale, Ipotesi di una sconfitta condensa quel soggetto disarticolato e privo di coscienza di classe in un’unica vita, quella dell’autore, che trasforma la propria storia nell’allegoria dell’esperienza lavorativa contemporanea. Un romanzo autobiografico, quindi, il ritratto di un uomo e insieme di un intero paese che tra gli anni Sessanta e i giorni nostri attraversa una serie di mutazioni ben esemplificate dalle diverse professioni che Giorgio Falco si è trovato a svolgere nel corso della sua vita – dalla plastificazione di spillette pop alla rilevazione dei dati commerciali sui prodotti da supermercato, dalla vendita in un grande outlet sulla tangenziale alla multinazionale di telefonia, finalmente (esperienze precedute tutte dal bellissimo capitolo d’apertura, dedicato al padre, che ha speso una carriera per l’Azienda Trasporti Milanesi). In queste pagine si ritrova la ben nota capacità di Falco di raccontare un’epoca a partire dagli oggetti e dalle parole su cui il tempo ha depositato il proprio marchio: lo sguardo di chi racconta, però, interviene a produrne un’immagine straniante, che mette in discussione il modo convenzionale (capitalista) di vedere la realtà. Questo consente all’io narrante di sottoporre a un filtro del comico anche i propri personali fallimenti, le ambizioni mal indirizzate, le fragilità professionali, specchio di una ben più profonda fragilità sociale. Per questa via, affiancando al ruolo del testimone quello dell’osservatore spietato, Falco prova a dare un senso alla propria contro-bildung smontando con calma i tanti tasselli che costituiscono l’esperienza del presente, rimontandoli poi secondo illuminanti criteri di connessione, che definiscono un’immagine dolente e spietata della nostra civiltà contemporanea.

 

Di lavoro parla anche il romanzo di Francesco Targhetta, Le vite potenziali. Con questo libro Targhetta dà continuità al progetto narrativo avviato con l’inconsueto libro d’esordio, il romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012), mantenendo al centro dell’attenzione la sua generazione, quella dei nati negli anni Ottanta, che oggi si affacciano alla maturità dei quarant’anni. Se prima questi “giovani” erano invischiati in percorsi intermittenti tra carriere universitarie e prime esperienze di lavoro precario, ora vengono fotografati entro la cornice insolita (anche per la narrativa italiana) di un’azienda di servizi per il web. È un’azienda di successo, pronta a espandere il proprio business su scala europea, la Albecom di Marghera: e questo grazie alle intuizioni del suo fondatore, Alberto Casagrande, ma grazie anche all’affiatamento del suo team di lavoro, di cui fanno parte Luciano, amico d’infanzia disagiato e quintessenza del nerd, e Giorgio De Lazzari, spietato pre-sales manager dalle molte vite e dalle molte donne. Appartengono a loro le “vite potenziali” che si intrecciano e si rispecchiano nel corso di un romanzo dalla struttura tradizionale: un narratore in terza persona, un racconto che procede a quadri separati, una rete di corrispondenze che affiora sempre più evidente. In maniera paradossale, rispetto alla narrazione mediatica corrente, il lavoro rappresenta, per questi personaggi, l’unica ancora di salvezza in mezzo al naufragio delle relazioni private e delle incertezze esistenziali. Specchio di questa condizione irrisolta, costantemente in bilico tra realizzazione e fallimento, è un Veneto post-industriale («Solo nei luoghi desolati certe vite possono trovare la loro armonia»), in cui gli esoscheletri delle vecchie fabbriche sono solo in parte riscattati dalla nuova colonizzazione della società dei servizi. Recuperando alla prosa la capacità poetica di condensare in un’immagine i significati di un’intera condizione («non si può concepire di risolvere un problema se il problema è tutto quello che si ha»), Targhetta traccia la parabola di una generazione che continua a fare i conti con una maturità mancata e che cerca riparo nell’«infinità delle evenienze offerte» dal mondo virtuale.

 

Anche le storie raccontate da Franco Stelzer – «uno degli autori più appartati ed enigmatici del nostro tempo» (Andrea Cortellessa) – in Cosa diremo agli angeli possono essere definite, in una certa misura, “potenziali”. Chi racconta è infatti un addetto al controllo passaporti in un piccolo aeroporto di una cittadina di provincia che ha l’abitudine di affrontare la noia di un lavoro sempre uguale immaginando le vite delle persone a cui controlla i documenti («loro sono isole… mentre io sono l’osservatore, il punto fermo, colui che guarda»). È un esercizio di proiezione immaginativa con cui il narratore prova a smarcarsi da una vita anonima, che sembra esaurirsi nella manutenzione delle macerie materiali ed emotive di un matrimonio finito. È quindi un narrare tutto ipotetico quello che ci porta sulle tracce di un uomo che ogni venerdì sera prende l’aereo per tornare a casa e ogni lunedì mattina si ripresenta puntuale al controllo documenti per iniziare la sua settimana: il portamento, le mutevoli espressioni del volto, gli oggetti che di volta in volta ha con sé sono tracce sufficienti per costruire il racconto di una passione che sfuma – quella per la famiglia a casa – e di una che nasce – quella per la vita semplice e autentica di una donna appena conosciuta. La grazia malinconica di questa vita immaginata è la magra consolazione di chi riesce a vivere solo per procura, o meglio di chi ha scelto di «guardare per non vivere veramente». In questo modo Stelzer compone un racconto che potremmo leggere come speculare a quello di Corsalini: laddove La lettrice di Čechov sperimenta sulla propria pelle le incertezze del definire la propria identità e il proprio ruolo nel mondo, l’anonimo protagonista del romanzo di Stelzer trova il senso dell’esistenza (interrogato ripetutamente dal mantra «cosa diremo agli angeli») ai margini delle “vite degli altri”, negli angoli ciechi di storie reali o potenziali, ricostruite per via di immaginazione e ragione. Una ragione dolente, però, che ha maturato dalle sconfitte della vita la consapevolezza che, in fondo, raccontare una storia è anche farsi carico della sua fine.


Il pubblico avrà modo di incontrare gli scrittori finalisti, presentati da Adriana Lorenzi, alla Biblioteca Tiraboschi alle 17.00, secondo questo calendario:

MERCOLEDI’ 6 MARZO – Andrea Gentile

MERCOLEDI’ 13 MARZO – Giulia Corsalini

MERCOLEDI’ 20 MARZO – Giorgio Falco

MERCOLEDI’ 27 MARZO – Francesco Targhetta

MERCOLEDI’ 3 APRILE – Franco Stelzer

La cerimonia di premiazione avrà luogo, alla presenza di tutti e cinque i finalisti, sabato 27 aprile alle ore 18.00, presso l’Auditorium di piazza Libertà (Bergamo), nell’ambito della 60° Fiera dei Librai organizzata da Liber e Promozione Confesercenti, e nel programma di Bergamo International Jazz Day UNESCO 2019.