Ricordare che il film Roma di Alfonso Cuarón ha vinto l’ultima edizione del Festival di Venezia non fa più notizia, anche se il film continua a collezionare premi, riconoscimenti e, più di recente, quattro nomine agli Oscar. Eppure Roma è un film di cui bisogna parlare, per capirne la drammaticità e le stratificazioni storiche, per fare emergere come questa storia messicana possa parlare anche al pubblico nostrano. Questo film, che sta facendo breccia a livello internazionale, ha le potenzialità per smascherare alcune illusioni che la società italiana sta vivendo da qualche anno a questa parte.
Roma, ambientato nell’omonimo distretto di Città del Messico tra 1970 e 1971, è la storia di Cleodegaria “Cleo” Gutiérrez (Yalitza Aparicio), domestica presso la famiglia del dottor Antonio (Fernando Grediaga) e sua moglie Sofia (Marina de Tavira). Le giornate della protagonista scorrono simili una dietro l’altra, tra l’accudire i bambini della famiglia, Paco, Toño, Pepe e Sofi, e prendersi cura di una casa in cui si sta consumando il divorzio tra il dottore, sempre più assente, e la moglie. La monotonia della vita di Cleo è improvvisamente interrotta dalle attenzioni del prorompente Firmin (Jorge Antonio Guerrero), giovane proletario che trova nelle arti marziali una valvola di sfogo, e da una gravidanza non cercata. Cleo, abbandonata da Firmin, si troverà ad affrontare questo fardello da sola.
Questo è quello che la maggior parte della critica e degli spettatori intervenuti su blog e social media hanno visto, cioè la storia privata ed intima di una povera giovane costretta ad affrontare l’amarezza della vita. Eppure la pregnanza semantica di questo film non sta nella drammaticità della vicenda individuale, ma nel suo collocarsi e muoversi rispetto ad un denso sfondo di avvenimenti storici e politici. L’inizio degli anni ’70 per il Messico è un nero momento storico che molte famiglie ancora oggi ricordano per l’autoritarismo governativo e poliziesco, le ingerenze statunitensi nella gestione delle proteste studentesche, i massacri di studenti e dimostranti operati da gruppi paramilitari e la “servitù” a cui ragazze come Cleo, di origine indigena, dovevano sottostare. Ricostruire gli intricati riferimenti storici e politici è difficile per il pubblico italiano, anche quello acculturato, il cui studio del ’68 e degli anni ’70, quando viene raggiunto, è sempre concentrato su ciò che avviene in Europa o Nord America. Tuttavia il film cerca di costruire un dialogo anche con chi non conosce nel dettaglio le vicende storiche messicane, facendo emergere la sua pregnanza storica e politica dagli sfondi materiali e paesaggistici che circondano i personaggi.
C’è un tocco quasi neorealista nel modo in cui Cuarón, che torna ad una storia messicana dopo Y Tu Mamá También (2001), indugia nell’indagine del rapporto tra i personaggi e il loro ambiente. Il lento ritmo del montaggio, che lascia spazio e tempo per la riflessione, richiama quel concetto di immagine tempo che Deleuze aveva utilizzato per descrivere le pellicole italiane del secondo dopoguerra. Oggi però la precisione visiva delle riprese digitali fa dimenticare le pellicole sgranate degli anni ’40, e il rapporto tra la cinepresa e il binomio personaggi-ambiente è più freddo, impassibile, meno parte di una progettualità etica e politica volta al futuro. Slavoj Zizek, recensendo il film per The Spectator, ha parlato di una cinepresa “inerte”, ma questo non è da considerarsi segno di stranezza, come argomenta il filosofo sloveno, bensì della volontà di far diventare lo sfondo un “vettore di memoria”, secondo la definizione di Henry Rousso. Il paesaggio del film, citando qui gli studi di Giuliana Minghelli (Landscape and Memory, 2013), è un archivio in cui la memoria di quel tempo si conserva, sia nelle scene girate in esterna che all’interno degli edifici. Scritte sui muri riportano alla memoria gli espropri e le lotte agrarie di quegli anni. Manifesti elettorali delle ultime elezioni tappezzano i muri, mentre alcune camionette della polizia pronta ad intervenire durante una manifestazione oscurano i personaggi mentre camminano verso un mobilificio. Poco prima, una manifestazione propagandistica promuove il governo mentre Cleo si reca nella degradata baraccopoli della capitale in cerca di Firmin. Non si dovrebbe quindi parlare di inerzia della cinepresa, ma di un indugiare interessato a non tralasciare i dettagli dello sfondo e a dare il tempo di vedere e al tempo stesso guardare, secondo ritmi che non sono propri della cinematografia più commerciale. Nella casa dove Cleo lavora, frequenti rotazioni della cinepresa, in senso orario e anti-orario, spesso a 360 gradi, costruiscono lo spazio raccontando la storia degli interni casalinghi di una famiglia borghese messicana. Programmi televisivi, giocattoli, poster dei mondiali del 1970 sono lì per raccontare una storia del passato che appartiene ad una certa classe del paese, la borghesia, che marginalizza ed esclude i propri sottoposti.
Cleo e la collega Adela vivono in un piccolo locale esterno all’appartamento della famiglia ma incluso nell’edificio della casa, come a dire che i loro corpi sono parte integrante del nucleo familiare solo a patto che imparino a ricoprire un ruolo determinato (e a non usare più energia elettrica del concesso, come mostra una scena nella prima parte del film). Il linguaggio cinematografico di Cuarón ribadisce queste forme di inclusione escludente, usando il personaggio femminile come collante narrativo della storia ma lasciandola spesso ai margini dell’inquadratura o “dimenticandosela” al di fuori di essa nelle varie rotazioni della cinepresa. D’altra parte, il montaggio è spesso usato in modo continuativo per seguire i movimenti di Cleo, ma non eccede mai in ritratti iper-drammatici. Durante il triste episodio del parto, mentre un pediatra ed un’infermiera cercano di rianimare il bambino, la cinepresa rimane ferma a fissare Cleo da una posizione laterale, lasciando le azioni del medico e il corpo del bambino fuori fuoco. Nessun taglio ci mostra la concitazione del processo di rianimazione, come una buona serie televisiva da pronto soccorso farebbe, o i gesti consulti dell’ostetrica, la cui voce si sente provenire dalla stanza senza che il corpo venga mostrato. La cinepresa rimane in disparte e guarda Cleo senza avvicinarvisi o allontanarvisi.
Questo uso della cinepresa suggerisce allo spettatore di avvicinarsi al film in modo empatico sì, ma critico. Focalizzarsi sulla vicenda privata di Cleo, in altre parole, è un modo per silenziare la forza politica e storica di questa pellicola, che comunque avrebbe potuto fare di più per esprimerla. Usando una metafora, Roma sembra sfoderare il coltello contro la società messicana di ieri – e allegoricamente di oggi – ma non lo affonda. Il film racconta, ma solo accennando, una società disomogenea, che in qualche modo scardina l’illusione populista della destra odierna di un’omogeneità sociale sparsa. Lo scontro tra classi è ancora vivo e lo spazio, seppure poco, dedicato al massacro del Corpus Christi (10 giugno 1971) lo dimostra. Sarebbe stato bello, qualora esistessero, vedere tagli incrociati tra la vicenda fittizia di Cleo e immagini e video di allora. Più che bello, sarebbe stato un incrocio potente, energico. Il film sceglie di concentrarsi (troppo) sulla vicenda privata, chiudendosi con un abbraccio fraterno, da lacrimuccia. In quell’abbraccio i componenti della “famiglia” si uniscono in un corpo solo, come ad oscurare il sole alle loro spalle. Ma quell’abbraccio è un’illusione e non potrà mai sanare le differenze tra chi è incluso e integrato nella società solo a patto che mantenga un posto subordinato.
Dunque, che cosa può raccontare questa storia messicana al pubblico nostrano? Il film, con la sua vicinanza distaccata, chiede di usare il tempo per indagare i contorni materiali e lo sfondo storico delle nostre vite individuali. Il film ribadisce l’esigenza di storicizzare, sempre, e di usare la riflessione storica come un mezzo per scardinare le illusioni del presente. La favola di un’unità sociale omogenea a livello nazionale, che la destra odierna propina per giustificare la criminalizzazione del diverso, è una di queste illusioni. Gli individui ai margini di questa falsa omogeneità sono i testimoni di come l’illusione diffusa continui a produrre povertà, disuguaglianze e violenza. I muri del presente sono tappezzati di ricordi e memorie che sono fondamentali per capirlo. Fermiamoci ad osservare questi muri e ricordiamo per poter comprendere.