*Questa recensione è stata pubblicata su «Librobreve», il 7 maggio 2018. La riproponiamo su La Balena Bianca per gentilezza dell’autore.
In questi anni si è fatto un certo parlare di “poesia onesta“, ripescando maldestramente un fortunato conio sabiano: premi, concorsi e dibattiti si sono prodigati per capire che cosa sia la poesia onesta (la sola meritevole, chiaramente, secondo loro). Intanto in più contesti si brandiva questa categoria come uno scettro, con una sicumera tronfia, quasi fosse questa il nuovo filtro critico che tutti quanti sognano per discernere finalmente ciò che in poesia ha valore e ciò che ne ha meno o non ne ha proprio. Tutto ciò mi è parso l’ennesimo rutto concettuale o precipitato escrementizio del panorama poetico. (Per un buon ripasso sulle insidie e sulle problematiche del concetto di “poesia onesta” rimando a questo intervento assai utile scritto da Umberto Fiori.) Nessuna poesia può avere built-in la capacità di mostrarsi onesta, pena il suo passare clamorosamente e automaticamente nella disonestà tipica del furfante. Inoltre, il tessuto sociale e mentale in cui il testo e il gesto poetico oggi si adagiano è totalmente disgregato se non spappolato, molto più che all’epoca di Saba, e la certezza con cui maneggiamo e ruminiamo certi schemi e costrutti dovrebbe solo provocarci orrore. Senza sguardi impauriti o fintamente umili, si dovrebbe allora provare a comprendere quando l’atto di scrivere, nella sua sostanziale povertà, ha qualcosa da dire e quando non ce l’ha, quando punta il dito in una direzione in cui è utile guardare e quando apre genericamente il braccio largo su un orizzonte.
Il mondo nel cerchio di cinque metri di Luca Vaglio (Marco Saya Edizioni, pp. 54, euro 10) si può riassumere nella chiave di una precisa volontà di presa visione. Il mostrare precisamente una visione potrebbe pericolosamente sconfinare con quello che si è inteso, in tempi vicini, per “poesia onesta”, anche se è in realtà ne è lontanissimo, perché qui inserito in un processo di pensiero e rielaborazione che non ha un preciso momento di inizio e di termine (i paladini della “poesia onesta” sono invece immobilizzati dalle loro certezze preconfezionate). Il punto allora non è il Pessoa citato in epigrafe da Vaglio («Lontano da me in me esisto | fuori da chi io sono | l’ombra e il movimento in cui consisto.») perché Pessoa e i suoi eteronimi siamo ormai tutti noi, a un livello di pervasività e normalità che è divenuto persino routine. Il punto è scrivere per provare a dire qualcosa di utile sulle relazioni, sulla solitudine (spesso digitale, questa di Vaglio è una poesia che nomina anche Facebook, all’occorrenza), sullo stare in presenza di altri e fra altri, sul residuo di un commiato o di un addio, sul fare del male più che sul fare del bene, sui luoghi o le città dove si vive, siano queste Milano o Londra o Manchester, sul sapore di una scena magari vissuta dall’interno di un ristorante o di un pub. Il punto è stare nel flusso, che è un processo, e domare la scrittura a cavallo di questo flusso.
Il mondo nel cerchio di cinque metri appare così un breve libro che saltella tra la tentazione aforistica (ad esempio: «c’è chi di mostrarsi come non è | fa misura di avere | amore» oppure la frase sulla libertà riportata nel titolo di questo articolo) e l’apertura distesa, in qualche momento anche alla prosa. Da queste pagine si riceve la pressione di una macchina da presa che mostra, spesso attraverso il piano sequenza e senza nascondimenti, una visione del tondo-mondo dei cinque metri («molto più di quello che dici | sulle grandi cose del mondo | conta per me l’uomo che sei | nel cerchio di cinque metri | se e come mi saluti e come | mi sento a pochi passi da te»), delle relazioni e quindi dell’altro da una postazione che è perlopiù quella di una solitudine osservante e partecipata, che pendola tra passato e presente:
a londra dietro il vetro sporco, semiopaco
di una scuola di inglese per stranieri
ero la parte migliore di quello che ero
e ancora la misura esatta della gioia
l’idea del futuro, ogni cosa
tutto quello che non sapevo
Uno può essere più o meno attratto dai contenuti, dall’immaginario o dai modi scelti da Vaglio per questo suo libro, il terzo di poesia dopo La memoria della felicità (Zona, 2008) e Milano dalle finestre dei bar (Marco Saya Edizioni, 2013), ma quello che è abbastanza certo è che da questa scrittura ci si sente interpellati, ci si sente persino interrogati dalle sue oscillazioni geografiche da Milano al Regno Unito o alla Scozia, dalle molte scene raccontate, dalla sua convocazione e confessione riflessiva mossa da garbo. È appunto una poesia di scene, che non si traducono in un quadro, ma rimangono scene nella loro mobilità filmica, percettiva e sensoriale, spesso anche nel loro sapore di enigma e interrogativo (non tanto di epifania, per favore, ché la poesia odierna pare tutta un supermercato di epifanie ormai). E se il limite di una parte della produzione poetica attuale è ravvisabile proprio nel quadro (o quadretto) ben compiuto, nel compitino di scrittura portato a termine, nel quale la fissità contemplativa e riflessiva abbatte i motivi di interesse e vitalità di un testo, nella scrittura di Luca Vaglio ciò non accade perché il testo rimane vivo e attivo sottotraccia, incerto fra le forme, nella testa di chi lo avvicina. Leggiamo ad esempio nella poesia seguente:
in un pub del centro di edimburgo
in una sera di agosto di un tempo
lontano da ora in cui felicemente
feci vuoto e nuovo intorno a me
bevuta mezza pinta di john smith’s
fissavo forse qualcosa che mi stava
di fronte, non so, non ricordo bene
oppure guardavo fuori dai vetri
verso la strada, ma sono sicuro
che ero in pace, che vivevo dentro
tutto quel presente quando un uomo
lieve come aria passandomi accanto
e toccandomi appena la spalla
con le dita mi disse non avere
paura, potrebbe non succedere mai
La poesia consta di un solo lungo periodo che porta a galla un ricordo probabilmente non compreso del tutto e perciò rimasto sospeso. Si muove su coordinate spaziali, temporali e sceniche nitidissime per convergere nel centro del testo introdotto dall’avversativa «ma sono sicuro | che ero in pace, che vivevo dentro | tutto quel presente» e sfumare quindi nella nebulosità oracolare del finale. E l’aspetto convincente di questo oracolo è che il punto di vista è quello di chi lo ascolta – come in certi brani dei Massimo Volume – non il punto di vista di chi pretende di dettare poeticamente l’oracolo. E così, leggendo questo recente libro di Luca Vaglio ci si sposta molto nella topografia e nel pensiero con la sensazione di portare a casa qualcosa, come nel caso di questo bel testo riportato in chiusura.
le risorse, o forse, le occasioni
la vita della vita, il suo insieme
non sono natura chiusa, scarsa
le parole che desideriamo
le ragioni che cerchiamo
hanno aperti numero e sostanza
io che dico questo
sì e questo invece no
quello che pensa un amico
e la cosa che a me non conviene
e ora la parte di me che non amo