Casa di carte (il Saggiatore, 2019) è la seconda raccolta di saggi di Matteo Marchesini, critico, poeta e romanziere, che segue di cinque anni il precedente Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014). La storia editoriale di questo libro è, come ricorderà chiunque frequenti un minimo il lit-web italiano, piuttosto accidentata: previsto inizialmente in uscita per Bompiani nell’aprile 2018, il testo non era poi stato pubblicato perché Marchesini aveva rifiutato di omettere, come richiestogli da Antonio Franchini, le pagine assai critiche su Antonio Scurati, Antonio Moresco e Giuseppe Montesano, autori della medesima casa editrice. Questa rottura è stata tanto più inaspettata in quanto improvvisa, essendo arrivata a bozze chiuse, copertina pronta e data di uscita fissata. Marchesini aveva, all’epoca, denunciato l’accaduto sui social con la sobrietà che lo caratterizza, dando il via a un polverone di discussioni in cui si è distinto, per ipocrisia e bassezza, il lungo attacco di Tiziano Scarpa. E dunque è un sollievo vedere che il libro, finalmente, esce presso un editore altrettanto prestigioso e forse anche più attento, come il Saggiatore; ed è un piacere constatare che né autore né editore sono tornati su questa spiacevole vicenda a fini promozionali, il che testimonia, casomai ce ne fosse stato bisogno, la serietà di entrambi.
Come il volume precedente, Casa di carte raccoglie interventi usciti negli ultimi anni su giornali, riviste e volumi collettanei, e riprende tre pezzi di Da Pascoli a Busi (uno su Umberto Saba, e due satire sugli intellettuali e i poeti del Novecento, su cui si tornerà poi). La divisione del materiale segue criteri più o meno cronologici: dopo una premessa in frammenti, si apre una prima sezione su autori del secondo Novecento e del Duemila (Bassani, Carlo Levi, Morante, Pasolini, Fortini, Ottieri, Calvino, La Capria, Rea, Arbasino, Cavazzoni, Fiori, Siti); una seconda su «tre ingiustizie del canone», in cui Marchesini propone riletture e rilanci di autori a suo parere ingiustamente sottovalutati dalla critica (Foscolo, Saba, Cassola); una terza sezione dedicata invece a modelli di saggismo letterario (Cases, Garboli, Baldacci, Berardinelli); e la quarta sezione, quella della discordia con Bompiani, che contiene satire, imitazioni, parodie e stroncature di autori del passato prossimo e dell’immediato presente. In chiusura, viene proposto «un esempio di critica tematica» su letteratura e vergogna.
Il materiale, come si vede, è vario, e denuncia la natura di raccolta, e non organica, di questo testo. Ciononostante, ci sono almeno un paio di costanti argomentative che ricorrono di saggio in saggio – il tentativo di svelare la falsa coscienza del letterato italiano passato e presente; e l’intenzione programmatica di rovesciare i canoni letterari del nostro Novecento, imposti «col braccio armato dei programmi universitari» (p. 135). Dalla prima viene l’insistenza di Marchesini su autori che rifiutano l’integralismo ideologico (Bassani, Calvino, Arbasino), o lo abbracciano ereticamente e con disperazione (Fortini), opposti al modello del letterato-chierico politicamente impegnato e partiticamente schierato che ha fatto e continua a fare danni gravi e ingentissimi. Al contrario, Marchesini puntualizza saggiamente che «l’unico impegno dello scrittore è la massima aderenza ai suoi oggetti. Il resto è un impegno che gli si richiede in quanto essere umano, come lo si richiede a tutti gli uomini», mentre «chi confonde l’atto di scrivere con l’atto di portare il proprio aiuto in una mensa per cittadini poveri è un impostore» (p. 14).
La seconda costante che attraversa il testo è invece non tanto la tensione alla creazione di un contro-canone, quanto un suo sommovimento interno, che passa attraverso un ampio spazio dedicato ad autori (presunti) minori, se non altro nei summenzionati programmi universitari (Rea, La Capria…), rivisitazioni critiche di autori invece ampiamente canonici, ma forse per i motivi sbagliati (è il caso del saggio su Calvino, sottratto tanto all’idolatria dell’accademia e della scuola quanto alla facile iconoclastia dei suoi detrattori presenti), e ridimensionamenti polemici di autori intoccabili, tra i quali spicca, per il numero di riferimenti, Gadda. Si tratta, come nota bene l’autore, non di riscrivere la storia o di imporre percorsi alternativi, ma di «capire di cosa sono sintomo, a livello non solo letterario ma culturale e sociale (…) la repentina rimozione di un autore, la monumentalizzazione di un altro (…), lo sbiadire di un classico nelle aule di scuola, l’ipertrofica bibliografia accumulata su un contemporaneo e l’inerzia esegetica mantenuta su un nome al quale in apparenza si tributa più o meno la stessa stima» (p. 128).
Marchesini, da grande lettore dei classici quale è, dà il meglio di sé sugli autori del Novecento, o su un monumento del nostro presente letterario come Siti. Tra i profili della prima sezione, spiccano per profondità e complessità quelli su La Capria, Rea, Cavazzoni e Siti; e il pezzo su Arbasino «ritratto con il suo stile» è un commento in forma di imitazione insieme critico, partecipe e appassionato del meglio e del peggio dello stile di Arbasino. Il saggio su Saba, ancora, è ammirevole per ispirazione e profondità di lettura. La prosa di Marchesini, nei suoi momenti migliori, è nitida e rigorosa, affollata di callidae iuncturae che si fanno foriere di grandi aperture ermeneutiche. La scrittura di Siti, per esempio, è definita «insieme bulimica e stenografica» (p. 124) – una scelta aggettivale ossimorica, evocativa e allo stesso puntuale che descrive con rara precisione lo stile sitiano. Ma gli esempi si sprecano, e chiunque abbia un interesse, accademico o personale, in qualcuno degli autori summenzionati dovrebbe procurarsi questo volume, e rileggerli con la lente attenta di Marchesini.
Uno dei problemi del libro (perché, sfortunatamente, ce ne sono diversi) è che non sempre la penna di Marchesini è così felice, o meglio, non sempre Marchesini sembra avere voglia di insistere e di spiegarsi, accontentandosi del riassunto commentato (come per Bassani) o del bozzetto. Cosa dice per esempio il profilo di Fortini, due pagine e mezzo in cui, partendo da una lamentela su letteratura e impegno nel Ventunesimo secolo, si passa a due versi fortiniani commentati in poche righe e a «un brano quasi sconosciuto su Paolina Leopardi» – cosa dicono a chi non conosce nulla di Fortini, e cosa aggiungono a chi invece lo conosce già? Qual è il pubblico di queste pagine, qual è il loro scopo? Perché, se è vero che questi saggi nascono come articoli di giornale, questo che abbiamo tra le mani non è l’inserto culturale del Foglio, ma un libro. Verso la fine del pezzo su Calvino, il lettore si trova stupefatto davanti a questa affermazione: «A questo punto il mio discorso dovrebbe allargarsi e verificare nel dettaglio i suoi presupposti; invece è ora di chiuderlo, e quindi non mi resta che tentare un riassunto molto approssimativo» (p. 56). Difficile non chiedersi perché sia ora di chiudere il discorso, dal momento che si stenta a crede che il Saggiatore faccia problemi per qualche pagina in più; le scuse per il poco spazio a disposizione vanno bene sui quotidiani o alle conferenze, ma sono ingiustificabili in un libro. Ancora, e a questo proposito, disturbano un po’ certe ripetizioni (lo stile di Manganelli è sempre «mantecato»; e per due volte si ricorda la perfida sentenza di Raboni per cui Pasolini era stato poeta in tutto fuorché nelle sue poesie) che danno l’impressione di trovarsi davanti a saggi nati d’occasione e rimasti tali, non amalgamati in un volume unico.
Anche i processi summenzionati (il disvelamento della falsa coscienza e il sovvertimento del canone) presentano non poche problematicità, dal momento che passano attraverso giudizi spesso tracciati con frettoloso sarcasmo e ansia liquidatoria. È il caso, lampante, di Gadda, che riappare in svariati saggi come pietra di paragone negativa, come autore ingiustamente incensato da una critica troppo disposta a scambiare l’ornamento e la goliardia per complessità satirica; un autore su cui, per esempio, a proposito delle sue critiche a Foscolo, si dice che «a vituperare il primo sterniano d’Italia, capace di fine umorismo e di satire acute, è un ultimo nipotino di Sterne che ha ridotto la divagazione ad alibi e l’umorismo a un vocabolariesco spirito di patata, nascosto ma non riscattato dai fioriti involucri formali» (p. 130). Un giudizio simile potrebbe anche essere condivisibile, volendo: ma non è un po’ frettoloso? Altrove si dice che «quando Gadda tira il fiato tra un virtuosismo barocco e l’altro, ecco che spuntano fuori la goliardia e il dannunzianesimo» (p. 135). Forse è vero, ma senz’altro è indimostrabile, perché nessun saggio è dedicato a spiegare il perché e il percome di questa sopravvalutazione e del necessario ridimensionamento di Gadda (e già in Da Pascoli a Busi, una “Antigaddiana” era relegata in due pagine secche – una e mezza se si conta lo spazio bianco sotto il titolo). In un altro passaggio, il lettore può trasecolare davanti alla rapidità e all’acuta ed elegante superficialità con cui vengono messi insieme e liquidati tre autori vastissimi e diversissimi come Eco, Derrida e Severino, nei quali, secondo Marchesini, «quell’attitudine a mettere in relazione i fenomeni più diversi che, se utilizzata bene, è un tipico segno d’intelligenza saggistica, diventa un modo per eludere le differenze, e per affogare ogni oggetto in un’oratoria uniformemente irenica o minacciosa, divulgativa o barocca» (p. 185). Insomma, quando Marchesini definisce quella di Arbasino, acutamente, «un’esattezza negligente da surfista» (p. 94), verrebbe da dire che l’espressione non starebbe male, a tratti, nemmeno a lui.
Questo problema ha a che fare naturalmente con l’orizzonte epistemologico entro cui Marchesini si pone – o meglio, con la natura manifestamente anti-accademica della sua postura. È significativo che il libro si apra con una sezione, intitolata “Humanities”, composta da aforismi, battute, brevi paragrafi argomentativi e satireggianti, in cui l’intento di somigliare a Kraus o a un certo Arbasino si unisce all’abilità di Marchesini di “battutista” sui social. Scrivo queste parole senza ombra di ironia: Marchesini ha una grande capacità comica che pratica spesso online, e i suoi motteggi sono spesso di rara eloquenza (strepitoso per esempio questo Valery 2.0, riadattato sulle ansie di impegno civile declinato giallisticamente della nostra letteratura: «Mi rifiuto di scrivere “Il narcotrafficante uscì alle cinque”», p. 12). Allo stesso tempo, questo procedere per suggestioni e battute indica già in apertura che quella che si pratica è una critica diversa da quella universitaria, con meno pretese positivistiche ma più libera e fluida. È molto eloquente che il libro cominci proprio con un attacco ai gesuitismi della critica accademica, alle sue formule ripetitive e alle sue tassonomie di comodo:
L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una montagna di tesi, monografie e manuali critico-filosofici, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua interpretazioni idiote di Walter Benjamin e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare la morta verità dei testi e ricomporre un discorso sensato. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine universitarie e del citazionismo imbecille sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo humanities, è questa tempesta (p. 11).
È eloquente anche, e non in senso positivo, che nel libro non si torni mai su cosa queste humanities siano, e perché siano tanto perniciose.
Quello di Marchesini, insomma, vuole essere un saggismo libero dalle maglie retoriche spesso insopportabili della critica universitaria (bibliografie, note a margine, peer review), e dalle sue categorie ermeneutiche, dal momento che con la dicitura inglese di humanities immagino che l’autore intendesse attaccare la diffusione “di moda” dei cultural studies nella critica letteraria contemporanea (ma, a proposito di falsa coscienza, mi chiedo se immagina quanto si trovi d’accordo con buona parte degli accademici di questo paese, per nostra sfortuna). I modelli che indica per il proprio lavoro (Cases, Garboli, Baldacci e Berardinelli) sono esempi di una tradizione di indagine saggistica alta, profonda, e molto personale – una tradizione che non mi sognerei mai di definire meno che illustre, e nella cui scia Marchesini si pone spesso con grande successo. Allo stesso tempo, c’è forse qualcosa di nevrotico nei continui attacchi all’accademia che affollano il libro e nel loro inusitato rancore, tanto più che, di nuovo, non si accompagnano a un’analisi ragionata della presunta crisi dei nostri studi umanistici, ma si risolvono in tirate denigratorie più astute che intelligenti:
I dipartimenti universitari nei quali, con l’aria di ricordare un’ovvietà, si ripete ogni giorno che ormai la biblioteca di Monaldo è esplosa da secoli, e che quindi il canone è fatalmente plurale, sono gli stessi che sfornano eserciti di diligenti tecnocrati dell’umanesimo il cui retroterra di letture è più uniforme di quello dei dottori scolastici medievali: Bachtin, Auerbach, Benjamin, Barthes, Genette, Jameson, Said, Orlando, Moretti… Per capire la natura patologica degli odierni «studi letterari», questo sintomo basta e avanza (p. 19).
Questi attacchi sono tanto più sospetti perché Marchesini li fa sempre a porta vuota, per così dire: senza fare mai nessun nome, senza prendersela mai in maniera esplicita con nessun accademico recente, ma al massimo qualcuno convenientemente defunto da decenni. Si ravvisa forse un’ombra di qualunquismo in questa in questa continua schermaglia con gli anonimi professoroni, che non è poi suffragata da un’argomentazione che non sia satirica. Come scrive Marchesini stesso parlando di Berardinelli, «le sue polemiche apparivano troppo generiche, troppo asistematiche e povere di proposte» (p. 181). Di nuovo, questo può valere in pieno anche per la saggistica di Marchesini, che tanto sa andare a fondo nel penetrare l’opera degli autori, quanto rimanere sul vago quando si tratta di argomentare uno sdegno o un rifiuto.
Quanto detto finora riappare in maniera macroscopica nella parte dedicata a satire, stroncature e pastiche, che costituiscono la parte più succosa e sapida del volume, ma che mettono in luce tutti i limiti e la superficialità dell’argomentare di Marchesini quando parla di qualcosa che non gli piace; ed è sintomatico che questi limiti appaiano proprio in pezzi su cui Marchesini punta molto, e a cui la sua fama (online e cartacea) di stroncatore è legata. È singolare anche la presenza di un pezzo come “Tre luoghi comuni del presente confutati dal passato”, in cui tre “vizi” individuati da Marchesini (l’ammirazione accademica per Celati; il putinismo; la nostalgia per i partiti di massa) sono smontati tramite la giustapposizione di citazioni di autori e filosofi del passato, con un procedimento che è, a ben pensarci, eminentemente facebookiano – basta aprire la home per trovare lunghe citazioni di grandi maestri a commentare la pochezza del presente, magari già direttamente sotto forma di foto con didascalia. Vale la pena di notare, per inciso, che la sezione contiene due pezzi abbastanza noti di Marchesini, e già usciti in Da Pascoli a Busi (“Intellettuali tipici del XX secolo”, “Il poeta Bovary”): tanto importante è la polemica per Marchesini che diviene opportuno addirittura riproporre due vecchie hit per rimpolpare la sezione.
Da un lato, Marchesini smonta, giustamente e con intelligenza, alcuni miti del panorama letterario italiano, come quello del «Grande Romanzo Definitivo» (e dunque Lagioia, Scurati, Genna, Wu Ming, Scarpa), il cui spettro continua a imperversare anche in questionari recenti: pagine di doverosa cattiveria sono dedicate alle enfatiche tiritere moreschiane o all’immonda Ferocia di Lagioia (in cui «a una gattopardesca dynasty pugliese è giustapposta qui una scrittura che si vorrebbe sofisticata e allucinata, ma che è solo rigida e decorativa», p. 206), o di giusto e ponderato ridimensionamento alla scrittura di Michele Mari.
Allo stesso tempo, Marchesini si lancia in accuse a categorie concettuali complesse che vengono risolte confusamente in poche righe. Parlando della «retorica della dismisura», quindi, e dunque di un altro male endemico della letteratura italiana recente, Marchesini mette insieme Thomas Bernhard e Aldo Busi, Carlo Emilio Gadda e Jacques Derrida, David Lynch e Carmelo Bene, Giorgio Agamben e Slavoj Žižek, Lars von Trier e Antonio Moresco, David Foster Wallace e Roberto Bolaño, Giorgio Manganelli e Michele Mari (p. 200). Ora, va da sé che chiunque conosca appena un po’, per dire, Foster Wallace e Bolaño sa quanto siano diversi e quanto, pur essendo coetanei, appartengano a generazioni dello stile e dello spirito diverse; per tacere di Aldo Busi e David Lynch.
Subito dopo, Marchesini utilizza come esempio un paragone a dir poco spericolato tra Bolaño e Moresco:
Ad esempio. Sia il talentuoso Bolaño sia il bovarista Moresco (che più alza i toni con intenti nietzschian-celiniani più somiglia a Tonino Di Pietro) si ritraggono come eroi impegnati a giocarsi nella Letteratura la Vita intera (…) e soprattutto si ritraggono impegnati a sfidare, con le loro scritture lutulente, antieconomiche e grandiose, una cultura che a loro dire accetterebbe soltanto i libri angustamente impeccabili di chi non rischia nulla (p. 201).
Io conosco piuttosto bene il lavoro di Bolaño, e potrei obbiettare che pochi autori hanno invece recuperato la leggibilità e la narratività del romanzo tradizionale come Bolaño, buona parte dei cui libri, peraltro, è singolarmente breve, e che quindi i suoi testi non si leggono «come poemi o raccolte di aforismi», come scrive Marchesini più avanti (p. 239); che quasi mai Bolaño si ritrae mentre fa qualcosa, e che quasi mai magnifica la letteratura come sostituzione della, o alternativa alla, Vita (sic); e che nelle sue opere, anzi, la Storia interviene sempre a mettere la parola fine alle elucubrazioni masturbatorie dell’invenzione letteraria, e che la letteratura, se pure resta un mistero insondabile, non salva e non assolve. Dicevo: potrei obbiettare tutto questo, e invece non posso, perché a queste frasi su Bolaño non seguono commenti o spiegazione, se non un rapido confronto con Miller, quantomeno gratuito, per passare a parlare della legione dei fanatici di Moresco, e poi più nulla. Non avrei nulla da obbiettare se avessi letto queste parole su un giornale, in cui brevità e velocità sono d’obbligo; ma le ho lette in un libro che si vuole saggistico, non giornalistico, e dunque brevità e velocità potevano e dovevano essere evitate, nel rispetto del lettore.
Mi rendo conto che i paragrafi precedenti sono forse eccessivamente duri col lavoro di Marchesini, che è e resta una punta di insolita qualità in un panorama, quello saggistico (accademico e non), che tende a non regalare grandi emozioni. Tuttavia, sento che questa durezza non è ingiustificata, perché troppo spesso nei saggi di Casa di carte si ha la sensazione di trovarsi davanti a giudizi che andavano argomentati meglio, a paragoni che andavano sviluppati, a satire che avrebbero dovuto appoggiarsi anche su un’analisi più stringente, a cose scritte a tirar via, magari perfette per la loro destinazione iniziale, ma poco adatte a un volume di critica; e questa insoddisfazione è tanto maggiore nel vedere, nello stesso volume, di cosa l’acume critico di Marchesini è capace. Nel riprendere un saggismo novecentesco e personale, Marchesini compie una scelta che gli permette di raggiungere risultati eccellenti e con pochi paragoni nel contemporaneo: ma deve stare attento agli eccessi e ai rischi che questa libertà comporta.