La selezione italiana quest’anno alla 69esima Berlinale è tra le sorprese di una delle edizioni del Festival forse tra le meno memorabili degli ultimi anni, ma pur sempre ricca di spunti e nuove proposte. A finire sotto i riflettori è stata una città in particolare: Napoli. Il capoluogo partenopeo, teatro dei crimini camorristici, è protagonista di ben due pellicole, La Paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano, e Selfie di Agostino Ferrente. Protagonisti di entrambe le pellicole sono i teenager, la generazione “z” napoletana, catturata nell’istante in cui sceglie tra la vita criminale e quella dell’onesta “fatica”.
La Paranza dei bambini
Il film si apre sull’albero di Natale nella Galleria Umberto I. Vediamo alcuni ragazzini raggiungere la pianta, quando all’improvviso subentra un altro gruppo di adolescenti che scatena una rissa furibonda. La banda vincitrice si aggiudica l’albero, che viene abbattuto e trascinato come un trofeo fin dentro al quartiere, dove viene dato alle fiamme, in una sorta di rito iniziatico. Nicola è uno di quei ragazzi, vive nel Rione Sanità e non ama vedere sua madre che paga il pizzo al boss della zona con i soldi sudati della lavanderia; esattamente come non ama essere respinto dalle discoteche che contano solo perché minorenne. Nicola e i suoi amici sono stufi di essere piccoli, sognano la vita dei grandi, di quei malavitosi leggendari le cui gesta sono diventate vulgata nel quartiere. Così decidono di andare a “faticare” per la famiglia che controlla il quartiere, per potersi permettere tutti vestiti Nike che vogliono. Nicola è il loro capo naturale, un Tony Montana di 15 anni, ma con la faccia pulita e il cuore che batte per una bella ragazza dei Quartieri Spagnoli. Un po’ teen age drama e un po’ West Side Story in chiave neomelodica, La Paranza dei bambini è un film che riesce a raccontare il terribile fenomeno dei gruppi armati di minorenni a Napoli, senza inserire facili richiami alla serie Gomorra ed evitando gratuite crudezze visive (quantomeno non più di quelle necessarie). La struttura lineare della narrazione e il ritmo serrato contribuiscono a rendere quest’opera un prodotto immediatamente avvincente, mentre il cast di ragazzini sorprende per espressività, in particolare Francesco di Napoli, nei panni di Nicola. La scalata della banda all’interno del proprio quartiere viene rappresentata in tutta la sua ferocia e al contempo nella sua totale ingenuità; dietro alla sete di potere che muove la paranza di Nicola non c’è infatti nemmeno l’ombra di un piano, se non quello di ottenere il rispetto del quartiere e potersi comprare scarpe costose e un motorino nuovo. Si finisce quindi per parteggiare per Nicola e la sua gang, figli di un mondo che ha trasmesso loro un insegnamento ben preciso, quello della violenza e della prevaricazione, che essi applicano meglio di chiunque altro. La camorra del resto – come ci insegna lo stesso Saviano – resta una delle “aziende” italiane che si basa sulla meritocrazia e che punta sulle nuove generazioni. Ne emerge un’immagine dell’organizzazione criminale napoletana come di un gioco per bambini, il più spietato, sanguinoso che esista, ma pur sempre un gioco, e i bambini non si stancano mai di giocare. Una tra le sequenze più emblematiche del film mostra la banda di Nicola sul finire di un festino in casa: c’è chi è intento a divorare Baiocchi e chi si addormenta sulle cosce di una prostituta, come fossero quelle di una madre.
Selfie
C’è poi un’altra versione di Napoli, quella presentata da Agostino Ferrente nel suo documentario Selfie. Il regista cerignolano – alla sua prima volta alla Berlinale – adotta uno stile narrativo estremamente originale per fornire un’immagine diametralmente opposta dei minorenni napoletani nei quartieri a rischio. Alessandro e Pietro sono due adolescenti che abitano nel quartiere Traiano, uno di quei posti dov’è facile incappare in cattive compagnie o finire a “faticare” per il boss di turno. Trovare un lavoro onesto è cosa assai difficile, eppure i due protagonisti non demordono, tanto che Alessandro è barista – e non ama che il suo bar venga frequentato da “gente sporca” – e Pietro studia da parrucchiere. I due erano grandi amici di Davide, ragazzo ucciso nel 2014 da un carabiniere perché scambiato per un fuggiasco. Il documentario sembra quindi voler far luce sul ceppo sano della gioventù di periferica, spesso affogato in troppa retorica gomorriana. Per evitare cadute nel luogo comune, Ferrente adotta per il suo documentario una tecnica radicale: abolisce cameraman e macchina da presa e affida le riprese ai ragazzi stessi, muniti di iPhone. Selfie rappresenta così, per certi aspetti, il grado zero del documentarismo, riducendo al minimo i filtri e offrendo un punto di vista immersivo nella vita quotidiana del quartiere. Con il telefono sempre puntato verso di loro – in modalità “selfie”, appunto – Alessandro e Pietro ci portano in giro per le loro strade, i locali che frequentano, ci fanno conoscere parenti e amici, in una carrellata di luoghi e umanità sorprendenti. Ai video-selfie si alternano alcuni provini fatti da Ferrente ad altri ragazzi del quartiere e alcune riprese delle telecamere a circuito chiuso: l’unico punto di vista altro all’interno della pellicola. Selfie è un’opera complessa che apre discussioni a più livelli, sia sul ruolo del documentarista e sul suo livello di “intrusione” e coinvolgimento sul piano del girato, sia sull’importanza del genere documentaristico in questi anni di fiction ipertrofica on demand quale strumento per cogliere meglio le sfumature del reale. La differenza sostanziale tra La Paranza dei bambini e Selfie sta proprio nel presentare due versioni molto lontane tra loro di una realtà, come quella di alcuni quartieri di Napoli, molto dibattuta e analizzata in molteplici sedi, ma sempre sfuggente.