“Basato su una storia vera”, leggiamo – paradossalmente – all’inizio di Copia originale, una storia interamente basata sulla falsificazione, quella di Leonore Carol “Lee” Israel (1939-2014), scrittrice di biografie caduta in disgrazia che all’inizio degli anni Novanta realizzò e riuscì a vendere più di quattrocento lettere false nei circuiti del collezionismo letterario.
Il titolo originale del film di Marielle Heller, Can you ever forgive me?, candidato a tre premi Oscar (Migliore attrice protagonista, Migliore attore non protagonista, Migliore sceneggiatura non originale) riprende quello del libro di memorie della Israel, pubblicato da Simon & Schuster nel 2008 (Can you ever forgive me? Memoirs of a literary forger), a sua volta tratto dalla citazione di uno dei suoi “falsi d’autore”.
La solitaria e scorbutica protagonista, interpretata da Melissa McCarthy, ama i gatti più degli esseri umani, ha una profonda avversione per l’ordine e la pulizia e un debole per l’alcol. Nello spietato mondo degli scrittori newyorkesi, tra cocktail parties e strategie editoriali, è difficile che una personalità del genere trovi spazio, e infatti seguiamo ben presto Lee Israel in una serie di concomitanti sventure: il datore di lavoro la licenzia in tronco, l’agente – dopo vani tentativi di evitarla – le suggerisce un radicale cambio di immagine e di genere letterario, e il suo squallido appartamento nell’Upper West Side, su cui incombe un imminente sfratto, è infestato da insetti. Tutto ciò non basterebbe a scalfire una donna così granitica, fino al momento in cui non realizza che l’adorata gatta Jersey ha bisogno di cure immediate, e che lo studio veterinario non ha più intenzione di farle credito. Difficile quindi lasciarsi sfuggire la prima, inaspettata, occasione di furto che si presenta: alcune lettere dell’attrice e cantante Fanny Brice rinvenute in una sala lettura, al momento incustodita, della New York Public Library.
Nel corso di un’intervista rilasciata nel 2008, Lee Israel afferma che la sua attività di falsaria aveva avuto inizio in modo imprevisto e graduale, come molte azioni criminali. Ben presto la scrittrice si rende conto che librai antiquari e collezionisti sono disposti a pagare le lettere di un personaggio famoso diverse centinaia – se non migliaia – di dollari e che falsificare un dattiloscritto, disponendo di talento letterario e della capacità di “entrare nella parte”, è estremamente semplice.
Lo scrittore – e la scrittura – nell’era della sua riproducibilità tecnica, si potrebbe affermare parafrasando Walter Benjamin. Dal punto di vista della tecnica, confezionare un falso letterario dattiloscritto comporta molto meno lavoro rispetto alle complesse attività di falsificazione di altri manufatti. Una volta padroneggiato lo stile e la vicenda biografica, basterà qualche trucco “casalingo” per invecchiare la carta, una macchina da scrivere e grande attenzione nell’apporre la – falsa – sottoscrizione autografa, che conferisce “l’aura” di benjaminiana memoria e quindi valore intrinseco agli occhi del collezionista. Grazie alla sua esperienza nella scrittura di biografie, la Israel riesce a realizzare una vera e propria simbiosi con gli autori imitati, quasi come una medium – in un’intervista la scrittrice utilizzerà il paragone delle sedute spiritiche – con la facoltà di riportare ai vivi le parole di persone scomparse. Lettere impeccabilmente contraffatte di Dorothy Parker, Lillian Hellman e Noël Coward d’arte donano agli scrittori “nuova voce” dall’aldilà; una voce convincente a tal punto che alcune lettere false di Noël Coward saranno inserite all’interno di un’edizione critica, poi emendata, a oltre dieci anni di distanza dalla condanna della scrittrice.
La falsificazione è un crimine molto particolare, sottolinea Edward Dolnick in una sua recensione del libro della Israel, poiché fino al momento in cui qualcuno non segnala i falsi come tali, le vittime nemmeno si accorgono del torto subìto. Qual è il danno per un libraio, fiero della sua lettera di Dorothy Parker incorniciata in vetrina e accompagnata da certificato di autenticità, se solo la sua autrice è a conoscenza del fatto che è falso?
“Meglio una buona copia che l’originale”, si affermava in Copia conforme di Abbas Kiarostami (2010), riflettendo sul concetto di “autentico” nell’arte e sull’inganno. Mai realmente pentita, Lee Israel rimarrà sempre fiera delle sue lettere, considerandole il suo migliore lavoro. Del resto chi è, in questo caso, il “vero autore”? L’arte non è in gran parte un’opera collettiva, un continuo plagio in cui ci si appropria della tecnica e si plasmano idee?
Marielle Heller, alla seconda prova di lungometraggio dopo The Diary of a Teenage Girl (2015), realizza un film interamente costruito sulla sua protagonista, anti-eroina da odiare e amare allo stesso tempo, spalleggiata dal complice e (quasi) amico Jack Hock, un eccentrico e picaresco Richard E. Grant. Gli altri personaggi – la libraia Anna, la ex compagna Elaine – con cui la scrittrice si relaziona non sono che fugaci presenze, quasi a sottolineare il vuoto attorno a una donna che tende a evitare i rapporti affettivi – irrisolti o rifiutati – nel presente, prediligendo come interlocutori persone scomparse, da far rivivere e risplendere di nuova luce grazie al proprio talento.
Nonostante alcune imperfezioni, il film ha il merito di portare sugli schermi una storia “incredibile ma vera”, che offre innumerevoli spunti di riflessione sulla dicotomia falso/autentico applicata alla creazione letteraria e sul concetto di autore. E, senz’altro, quello di mettere in guardia archivisti e bibliotecari da potenziali, e insospettabili, ladri di carte.