«Dopo un grande dolore, / viene un sentimento formale»: i versi asciutti e geometrici di Emily Dickinson aprono il nuovo romanzo d’impronta autobiografica di Claudia Durastanti, La straniera. Dalla lettura non si esce indenni, e a libro concluso ci si sente contagiati da quel tono di voce, quelle illuminazioni che accendono la trama con vampate che dalla pagina lambiscono il mondo.
Al centro vi è una famiglia segnata da due particolarità: le migrazioni reversibili fra Italia e Stati Uniti e la sordità dei genitori della protagonista. Si potrebbe anche dire che, più che la storia, il libro mette in scena l’esplorazione di una famiglia, ovvero una rete di condizioni sociali e fisiche, inclinazioni, attriti, sforzi e rinunce. Non è un caso che la protagonista scelga di studiare Antropologia, come per portare alla luce quella trama implicita che avrebbe condizionato il suo ambiente e quindi la sua vicenda, per poi accorgersi del contrario, ovvero che la sua famiglia si è svincolata dalle narrazioni documentate e rappresenta una contro-storia del Sud, della migrazione, della disabilità.
Ne esce fuori una vita «indisciplinata e anarchica, quasi moderna», dove le differenze geografiche sono sempre meno categoriche e un’adolescenza in Basilicata non è diversa da un’adolescenza americana. Nonostante i genitori della protagonista «irradiassero differenza», il loro ritratto non sarà mai un’apologia, come quando della madre si legge che «la sua pagina Facebook è il trionfo dell’anti-illuminismo». E la sua gioventù trascorsa in mezzo alla strada, tra «gli Oliver Twist glitterati e deformi della notte romana», l’incontro con un uomo che stava per buttarsi nel Tevere, la vocazione di pittrice, la connivenza con le numerose assenze della figlia a scuola, le serate d’obbligo davanti al Festival di Sanremo: da tutto questo emerge una vita libera da condizionamenti, a partire da quello della sordità, nonostante sullo sfondo resista quello, molto più feroce, dell’appartenenza a una classe sociale svantaggiata.
In questa trama di sussulti si dipana la vicenda della protagonista, che passa da un’infanzia irregolare a un’adolescenza solitaria, a studi universitari lontano da casa per poi approdare a una Londra pre- e post-Brexit. Qui impara che «straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe a esserlo», e che le migrazioni non sono tutte uguali, benché siano raccontate con un lessico monotono, «fatto di vocaboli che rimandano alla vittoria o al fallimento», come monotone e pietistiche sono le narrazioni tradizionali della povertà e della disabilità, di cui questa saga famigliare è un contro-esempio: i genitori della protagonista non rappresentano né l’«umiltà del sacrificio, del non chiedere troppo, della dignità», né il binomio «coraggio e dignità», ma una libertaria e spericolata «incoscienza».
L’indice del libro è organizzato secondo le voci di un oroscopo: Famiglia, Viaggi, Salute, Lavoro & Denaro, Amore, Di che segno sei. Ispirandosi all’astrologia l’autrice adotta un vincolo non meno romanzesco della sequenzialità cronologica e traduce in forma narrativa un sapere a metà strada tra l’occulto e il pop. Non ne deriva una cronaca brillante ma uno spazio romanzesco proprio, personale: i fatti sembrano scivolare sulla stessa corrente e il collante è un misto di intimità e lirismo, saggismo (gli esperimenti di John Cage, gli studi sul comportamento delle balene, l’antropologia, il cinema) e libertà costruttiva (i passaggi tra diversi tempi verbali).
All’origine di questa scrittura vi è il desiderio di comprendere ed esprimere. Il tema s’intreccia narrativamente a quello della migrazione e della disabilità, diventando autonomo in certi momenti: per i nonni e genitori si parla di «una lingua tutta rotta» e della necessità di «conquistare un’altra lingua», della possibilità di trovarsi «in confusione tra le proprie lingue», delle parole che nella memoria famigliare (e il pensiero va alla Ginzburg) «sono sparite mentre altre faranno sempre parte del tuo riverbero». Un passaggio particolarmente felice riguarda poi i sottotitoli dei film («Vorrei che tutti quelli che lavorano nei sottotitoli fossero poeti»), chiuso dalla domanda: «Come si fa a sussurrare in maiuscolo?». E naturalmente anche il campo amoroso non è esente dalle sue tempeste linguistiche («ci si lascia quando si smette di parlare, ci si lascia dicendo troppo spesso la stessa cosa»).
Non privi di suggestione sono i confronti tra l’italiano e l’inglese, utili per fondere in un unico concetto le diverse sfumature che ciascuna lingua riesce a cogliere (per esempio il divario tra scorciatoie e desire paths, tra bramosia e yearning, quando questa contiene anche yarn, filo, quindi «tutto quel desiderio che si sfalda come una matassa di lana, o come le viscere che si srotolano quando ci si innamora»). Essere una scrittrice-migrante porta dunque anche a queste intuizioni, mai estemporanee rispetto alla trama, e testimonianze di come il bilinguismo possa acuire la sensibilità.
Lungo tutta La straniera si avverte un bisogno di trasparenza: i nonni migranti, i genitori sordi, la piccola Claudia in difficoltà con la scrittura in italiano, tutti hanno sperimentato impedimenti e limiti espressivi, sempre in lotta con un codice maneggiato rozzamente, ed è forse questa babele ad aver segnato maggiormente l’autrice, desiderosa di una comunicazione più pura, e infine di arte. Questo bisogno, così familiare a chi ama perdersi tra gli scaffali di una libreria, può trovare risposta in un romanzo come questo, che ci fa «attraversare una soglia» con la stessa facilità con cui la protagonista al cinema sente che «un film inizia a colare fuori dallo schermo e ti si rovescia addosso».