Dimmi cosa vedi, dimmi ciò che vedi. È significativo che, per aprire L’occhio e la pagina, prezioso volume scritto nel 2002 e che Jaca Book ha deciso di ristampare a distanza di tanti anni, sia stato scelto un verso firmato Lennon-McCartney. Come se l’autore, Massimo Carboni, studioso e docente di estetica, voglia suggerire che i problemi filosofici più complessi vengono sollevati persino in occasioni insospettabili: anche quando si canta una canzone.

Esteso, se non smisurato, è infatti il campo di studi in cui Carboni vuole intraprendere la sua indagine; assumendo la vastità di questo territorio (che il sottotitolo del libro localizza tra immagine e parola) realizza, ancor prima di cominciare, l’impossibilità di circoscriverlo tutto. Per questa ragione denuncia l’arroganza di qualsiasi tentativo di risolvere il «confronto tra ordine del visibile e ordine del dicibile-scrivibile, tra visione ed enunciazione» (in breve: ciò che per secoli è stato chiamato il “paragone” tra gli spazi e i tempi dell’artista e quelli dello scrittore), ma si compiace dell’abbondanza di strumenti a disposizione per analizzarlo.

Tra questi, la filosofia risulta il mezzo più efficace, tanto che chi scrive tratta la sua materia da un punto di vista eminentemente teorico. La prospettiva teorica informa tutto il libro, e viene usata allo stesso tempo sia come microscopio sia come lente di ingrandimento, per inquadrare da vicino e da lontano la soglia tra iconico e linguistico, mettendola a fuoco il più possibile e cercando sempre la giusta angolazione.

Se si percorre tale zona liminare, afferma Carboni, non si può che prendere atto della costitutiva «inaderenza» di testo e immagine, che non riescono mai a rimanere vicendevolmente fedeli. Il concetto, dunque, si configura come ciò che maggiormente riesce a situarsi al di là di entrambi i termini, rivelandosi, se non dirimente, utile almeno per scioglierne alcuni contrasti, proprio in virtù dell’insopprimibile componente residuale che gli è propria, irriducibile tanto rispetto al visivo quanto al verbale.

Dopo una mappatura preliminare del dominio della ricerca – che viene chiamato «L’(im)possibile» appunto perché sfugge a ogni categorizzazione – l’autore prende in prestito da Lewis Carroll la metafora dello specchio per tripartire la struttura del proprio discorso, diversificando le idee esaminate a seconda della posizione occupata in relazione al rapporto immagine/parola: davanti, attraverso, oltre.

Davanti allo specchio si colloca chi interpreta questo rapporto dal profilo della parola; chi sostiene che le immagini si possano leggere, letteralmente, solo con una «deuteroscopia» (direbbe Thomas Browne): con una “seconda occhiata”, retrospettiva e interamente linguistica.

Tra questi spicca la voce di Erwin Panofsky, pressoché isolata se non unica tra quelle degli storici dell’arte in senso stretto, di norma inspiegabilmente schivi nei confronti della teoria e poco propensi a tematizzare (e a mettere in discussione) gli strumenti della disciplina. Nel 1932, Panofsky scrive che «qualsiasi descrizione – in certo modo anche prima di cominciare – dovrà trasformare i fattori puramente formali della raffigurazione in simboli di qualche cosa di raffigurato». Considera quindi la componente iconica come un “resto”, da ricondurre giocoforza al livello ulteriore (che egli vorrebbe però anteriore) del significato, operando uno spostamento di cui Carboni risalta la marca riduzionista; ogni modello di questo tipo, incentrato sulla sola lettura, trascura la «tonalità emotiva» di ogni fenomeno di apprensione dell’immagine.

Altrove, un critico come Clement Greenberg ha svelato (in Lagnanze di un critico d’arte, 1967) in poche battute la miseria dell’iconografia e dell’iconologia, affermando che «l’iconografia è praticata brillantemente da persone quasi del tutto cieche agli aspetti non letterari dell’arte». Così facendo, l’immagine non viene soltanto confinata nella scrittura, ma viene scambiata per letteratura.

Occorre avvicinarsi progressivamente allo specchio, ovvero al punto di maggiore tensione tra immagine e parola. Una strada percorribile passa attraverso la ricerca di un luogo in cui questi essenzialmente coabitino. Ecco che allora Carboni mette in campo la nozione di «Bildlichkeit», elaborata da Husserl e ripresa da Gottfried Boehm; si tratta «dell’ambito in cui immagine e linguaggio sono pensati parteciparsi reciprocamente risalendo al comune fondamento, sebbene tale fondamento sia dai due sviluppato in maniera diversa».

Questo concetto è un possibile approdo per comprendere meglio il rapporto fra immagine e parola su un terreno comune. E per superare il rischio della riduzione del visibile a dicibile.

Immagine e parola sarebbero declinazioni differenti di uno stesso principio originario (ineffabile, tanto quanto è intraducibile, alla lettera, la voce husserliana; alcune proposte come “metaforicità”, “figuratività”, “figuralità”, “iconicità” sono tutte arbitrarie e parziali).

Questo avvicinamento non deve portare però, secondo Carboni, ancora una volta alla confusione. Visibile e dicibile, infatti, fanno senso per mezzo dei loro contrasti. Immagine e parola sono sostanzialmente diversi, nonostante appaiano simili. Perciò si rincorrono di continuo, in un inseguimento infinito. Ed è proprio questa, per l’autore, la condizione di possibilità della loro interazione: «Soltanto due differenti possono autenticamente dialogare, cioè revocare in questione le proprie stesse fondamenta».

Attraverso lo specchio, o più precisamente sulla sua superficie, si colloca infatti chi, scrivendo, vuole approssimarsi all’immagine; chi vuole comprenderne le logiche interne non tanto a partire da ciò che essa comunica linguisticamente, quanto piuttosto legittimando a pieno titolo l’autonomia del visivo.

Tra i primi tentativi, l’uso singolare che fece della scrittura Leonardo da Vinci, il quale si servì dell’annotazione come di uno strumento ancillare, utile soltanto per sancire a posteriori la supremazia del visibile in ragione dell’irriducibile complessità del fenomeno percettivo. Non può darsi l’essenza di ciò che si vede se non attraverso una rivelazione sensibile, che una volta annotata viene annichilita, cadendo inevitabilmente nel vuoto aperto proprio dal linguaggio: «Nel far menzione delle membra di tal bellezza, il tempo le divide l’una dall’altra, v’inframette l’oblivione» (Leonardo, Trattato della pittura). Al pittore spetta dunque il merito di aver ricondotto il pensabile al raffigurabile.

Fra i molti altri esempi portati da Carboni, si cita, per il tono radicale e definitivo, lo sforzo di Konrad Fiedler per inscrivere ogni attività artistica nell’ambito esclusivo della forma. Dovendo spiegarne l’origine, il filosofo si esprime nell’interrogazione: «Allora l’arte, intorno alla quale gli uomini ritengono generalmente di essere in grado di dire più che su qualunque altro prodotto spirituale, è una scrittura cifrata, della quale solamente pochi possiedono la chiave» (Sull’origine dell’attività artistica, 1887). Questi “pochi” – risponde poi il filosofo – sono gli artisti stessi; un fare, e non un dire, permette quindi di compitare un alfabeto che non si può leggere.

Oltre lo specchio si colloca infine chi ingaggia una sfida paradossale e apparentemente persa in partenza: criticare superando gli strumenti della critica, dire dell’immagine senza il testo. Trovare mezzi nuovi, in sostanza, che sopperiscano al vuoto della scrittura e all’inesprimibile dell’immagine. Non parole, ma fatti: pratiche, gesti e attività che, anche se inconsapevolmente, interpretino il dato iconico con le stesse risorse che ne presiedono la creazione. In questa luce emerge chiaramente il portato rivoluzionario dell’impresa compiuta da Aby Warburg nel nome di Mnemosyne: la creazione di un vero e proprio dispositivo critico mediante il solo meccanismo di accostamento delle immagini più diverse, al fine di tracciarne i movimenti attraverso gli spostamenti. Perché, scrive Carboni, «la soluzione del problema non è mai dove la si cerca, è sempre un po’ decentrata, dislocata».

Nel finale aperto del suo libro, gesto encomiabile dell’autore stesso è, in ultima analisi, l’aver riportato l’opposizione tra immagine e parola nella sfera della percezione. È infatti il corpo tutto, nell’apprensione del dato fenomenico, ad agire contemporaneamente sia nel visibile (e nell’invisibile), sia nel dicibile (e nell’indicibile). Sentendo, schiude quella dimensione che Joyce (in Finnegans Wake, naturalmente) ha chiamato «verbivocovisuale», in cui ogni interferenza tra linguistico, fonico e iconico diventa compresenza.

La corporeità garantisce il manifestarsi di tutti i contrasti, come nel caso paradigmatico in cui ci si ritrova a ricondurre la voce a un viso da cui proviene: chi viene visto è pure colui che dice.

La contemporaneità ci ha da tempo abituato a simili corpi percipienti, catturati nella sinestesia persino nella letteratura. Come quello di Stephen Dedalus, che nell’Ulisse, in spiaggia «non fissava nulla in particolare. Sentiva, ovviamente, ogni tipo di parola cambiare colore come quei granchi che a Ringsend scavavano velocemente cunicoli in tutti i diversi colori della stessa sabbia dove da qualche parte là sotto avevano una tana o così sembrava. Poi alzò lo sguardo e vide gli occhi dire o non dire le parole che la voce da lui sentita disse» (citiamo la traduzione Terrinoni-Bigazzi, Newton Compton 2015).

O come quello del giovane Walter Benjamin, che osservando una veduta si trasforma: «Non ero qualcuno che guardava. Non ero che il guardare in sé. E ciò che vedevo non erano cose […] ma solo colori. E io stesso ero qualcosa di colorato in questo paesaggio» (L’arcobaleno, 1915, reperibile nell’antologia Aura e choc, Einaudi 2012).

Carboni aggiunge, per parte sua (in un epilogo redatto appositamente per questa riedizione), anche quello dello scrittore Bergotte, che nelle pagine della Recherche muore davanti a un quadro, con il cervello stroncato dalla vibrazione troppo forte di un colore.

L’occhio e la pagina ci insegna perciò a non sottovalutare mai e a non sovrapporre, davanti all’immagine, né il cromatismo della scrittura né la silenziosa presenza della figura: pena la morte.

D’altronde, già per bocca di Faust apprendemmo che soltanto «potenze invisibili [geistiger Gewalten]» possono creare «forme trasparenti [durchsichtige Gestalten]» (Goethe, Faust II, vv. 10433-4, tr.it. di F. Fortini, Mondadori 2015). Non è dato a corpo umano di edificare immagini in cui si possa vedere attraverso. Sempre ci si va, invece, a scontrare; altrimenti non se ne parlerebbe.


 

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Massimo Carboni, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca Book, Milano 2018, 172 pp. € 20