Dopo l’inaugurazione con Andrea Gentile, proseguono gli incontri con i finalisti del Premio Narrativa Bergamo. Mercoledì 13 marzo, alle ore 17, alla Biblioteca Tiraboschi è il turno di Giulia Corsalini, con La lettrice di Čechov (nottetempo).
Qui il calendario completo degli incontri.
La lettrice di Čechov, romanzo edito da Nottetempo nel 2018, è un’opera prima dalla voce priva di incertezze, capace di calarsi nelle maglie della letteratura e farsi partecipe a pieno titolo del loro intreccio. Forse perché la sua autrice, Giulia Corsalini, vive a Recanati, in una delle città più letterarie d’Italia. O, forse, perché è docente e critica letteraria e sa bene che dietro a ogni racconto si nascondono le ombre dei libri letti e degli scrittori amati. Nel suo romanzo, però, la coralità della scrittura non è sottesa; si fa personaggio e tracima fino al titolo. Nina, la protagonista e narratrice del racconto, si presenta così: «Devo ad Anton Čechov il mio attuale lavoro all’Istituto di Lingua e Cultura russa di Kiev, l’anno di insegnamento universitario in Italia e la mia passione per la letteratura». Ha quarant’anni quando decide di lasciare la sua città e di trasferirsi in Italia, a Macerata, per lavorare come badante e pagare così l’università alla figlia Katja, che ha diciotto anni e si è appena iscritta alla facoltà di medicina. Nina è laureata, ma a Kiev non è mai riuscita a trovare lavoro e suo marito, gravemente malato, è ricoverato in ospedale e aspetta di morire. Decide di sacrificarsi e di allontanarsi dai propri affetti, mettendo a repentaglio il fragile rapporto con la figlia; di spaccare così in due il proprio destino, lasciando in Ucraina quella sé stessa che aveva così caparbiamente costruito negli anni e in cui, anche, si era nascosta. Si sottomette a un destino che condivide con tante altre donne, sue connazionali. Ma Nina ha Čechov, i suoi libri nella borsa, il desiderio di scrivere qualcosa su di lui, un saggio sulla sua influenza nella letteratura italiana. È per questo che passa i giorni liberi nella biblioteca della facoltà di lingue di Macerata, da mattina fino a sera, e viene così notata dal professore di letteratura russa, Giulio De Felice, che le offre l’occasione di coprire una cattedra annuale rimasta da poco vacante. La badante diventa docente universitaria, anche se per mantenersi e continuare a mandare soldi alla figlia è costretta a svolgere un secondo lavoro in un supermercato, come addetta alle pulizie. Fino a che l’anno non finisce; poi Nina torna a Kiev, riesce a farsi assumere all’Istituto di Lingua e Cultura russa, dove si occupa però quasi esclusivamente di mansioni segretariali, ricostruisce il rapporto con sua figlia e riprende le fila del proprio destino interrotto.
C’è qualcosa che stride, vero? Una badante che diventa docente e che poi rinuncia alla carriera senza lottare, come se l’esperienza italiana non fosse altro che un sogno, un “a parte” della propria biografia. Sono immagini troppo distanti, appartengono a due sfere semantiche inconciliabili, due destini che non hanno nulla in comune. È in questa discordanza, in questo strappo inferto alle aspettative del racconto che si sente la voce di Anton Čechov: nel suo essere il più grande cantore «circa l’infinita perdita umana e le aspettative deluse, la sua perfetta narrazione dell’inadempienza dei destini». I personaggi dei racconti di Čechov hanno tutti in comune l’incapacità di aderire armonicamente alla propria identità. Le narrazioni diventano così cronaca di questo scollamento, che è allo stesso tempo tragico e liberatorio, come fosse dato da una ribellione dei personaggi a un tracciato identitario unitario. I suoi racconti, e ciò è condiviso da La lettrice di Čechov, mettono in crisi l’idea stessa di destino, opponendogli una rappresentazione della vita nel suo massimo di realismo, che tenga conto dei punti morti, dei deragliamenti, della pluralità di tracciati che si mettono in gioco ogni giorno, della fragilità umana che campeggia in ogni nostra azione.
Nel racconto Una storia noiosa, più volte citato nel romanzo della Corsalini, il protagonista, «Nikolai Stepànovic tal dei tali», la cui descrizione ricorda quella di Giulio De Felice, è un emerito professore universitario che, malgrado l’onore della fama accademica, è costantemente angosciato da problemi economici e da una malattia che lo sta portando alla morte; preso da un sentimento di estraneità verso il proprio lavoro e la propria famiglia, trova con Katja, la figlia adottiva, un’affinità elettiva in cui riporre le proprie ultime aspettative. Ma la vita segue il suo corso, Katja è giovane, vuole partire, anch’essa in fuga dal proprio destino; non curandosi del fatto che probabilmente sarà l’ultima volta che si vedranno, saluta Nikolai Stepànovic con freddezza, lasciando all’uomo, e al lettore, un’infinita nostalgia dalle tinte crepuscolari, sancita dalle parole non profferite per tempo: «Allora, ai miei funerali non ci sarai?»[1].
Nel racconto Sul carro la protagonista è Mar’ja Vasil’evna, insegnante di provincia originaria di Mosca che, come ogni mese da tredici anni, si reca su un carro in città per ritirare il proprio stipendio; nel corso del tragitto incontra il possidente Chanov, un bell’uomo sui quarant’anni che con il suo fascino porta la maestra a immaginare «una felicità che non c’era mai stata»[2], la libertà di innamorarsi e vivere per sé stessa e non più solamente per la fatica dettata dal bisogno. Questa piccola fantasticheria ha però la forza di rompere la scorza delle abitudini e del ruolo in cui la maestra si era asserragliata: tornano i ricordi dell’infanzia, tornano le immagini di Mosca e il profilo di sua madre, che la Vasil’evna crede di scorgere nel vagone di prima classe di un treno che le corre di fronte, mentre aspetta di poter proseguire il suo viaggio verso la città.
Si tratta di destini incompiuti, catturati in ritratti dal tempo sospeso, come fossero stralci di vita vissuta, ribelle a ogni onniscienza.
Come i personaggi di Čechov, anche Nina sfugge a una rappresentazione lineare del proprio percorso psicologico e biografico; e il tratto che più la definisce è proprio quello dell’inquietudine, di un’ansia interiore che le viene rinfacciata con forza dalla figlia Katja, durante una gita sulle rive del Dnepr, quando il marito era ancora in salute:
“Mamma,” diceva con tono lamentoso, guardandomi e fingendosi accigliata, “mamma, io ti odio,” e poi mi stringeva il collo, come per soffocarmi. Qualche ora prima, subito dopo il pranzo, si era messa a piangere senza ragione, all’improvviso; era corsa lungo il fiume; si era allontanata gridandomi “ti odio”, con i capelli mossi sulle spalle, le gambe magre e lunghe sotto i pantaloncini corti; una specie di cerbiatta, un essere naturale, delicato e violento.
“Perché mi tormenti?” le avevo chiesto. “Perché sei così inquieta?” Non sapevo che dirle; ero rattristata, stanca, infastidita dal peso del suo corpo. “Che cosa c’è? Che ti è successo? Non stai bene qui con noi? Guarda che bello qua intorno”. C’erano, infatti, delle querce dalle chiome magnifiche che digradavano lungo un anfratto e dietro, sullo sfondo, un cielo a strati di nuvole rosse, dense, in fuga.
“È colpa tua,” mi aveva detto. “Tu sei sempre stata inquieta. Tu me l’hai trasmesso. Io sono inquieta perché lo sei tu”. Aveva dodici anni quando disse questo. Non so se a dodici anni si può essere così lucidi e spietati. Non ho esperienza di altri figli. Ma lei era già così.
L’inquietudine di Nina le viene rinfacciata dalla figlia come se fosse una malattia ereditaria, come una condanna a vita a un tormento immotivato. Ma è proprio in quest’inquietudine che risiede il dato di umanità caro a Čechov: la capacità di andare fuori traccia. In uno dei capitoli più belli del romanzo Nina, tornata a Macerata per intervenire a un convegno organizzato dall’università, decide di dormire da Mariangela, l’anziana donna da cui aveva prestato servizio. Qui conosce Lyzaveta, la nuova, giovanissima badante venuta in Italia per mantenere sua figlia di due anni, lasciata in cura ai nonni. Lyzaveta deve recuperare i documenti per mettere in regola il suo contratto, ma non parla quasi per nulla l’italiano e chiede aiuto a Nina che, inizialmente controvoglia e poi sempre più convinta di aver fatto la cosa giusta, la accompagna al Centro Caritas. Il viaggio in periferia, prima in autobus poi a piedi, le persone incontrate e i tempi di attesa hanno in Nina un valore catartico: capisce che è giunto il momento di far prevalere il lato affettivo sull’orgoglio dell’intelligenza: non si presenta al convegno; trova però il tempo di condividere con Giulio De Felice un’ultima serata, in cui i due si scambiano quel senso di nostalgia proprio di chi ha cercato di vivere a pieno la propria vita e ora è sospeso, in balia di dubbi e ricordi.
Quando Nina racconta, la sua esistenza è ormai giunta a una sua sedentarietà, ma l’inquietudine vibra ancora nel suo modo di ricordare, nell’impossibilità di riportare gli eventi a spiegazioni univoche. Chiudendo il libro, si prova una nostalgia dolce e la sensazione che la fragilità che ci contraddistingue sia la prima causa della bellezza che riusciamo a vedere nel mondo. È forse questa la lezione di Čechov.
[1] Anton Čechov, Una storia noiosa, in Tutte le novelle, Rizzoli, Milano 1954, p. 144.
[2] Anton Čechov, La signora col cagnolino e altri racconti, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 77.