Itamar Gov è nato a Tel Aviv nel 1989, è parte del team curatoriale di documenta 14, co-editor di Aviv, rivista bilingue ebraico-tedesca, è stato giurato per la Berlinale, curatore per festival cinematografici, ha collaborato negli anni con diversi artisti. A Milano fa parte del team curatoriale di Casa dei Saperi, progetto di Fondazione Pini, per la quale cura una rassegna di proiezioni al confine tra linguaggio cinematografico e poetico, sul tema delle “Nuove utopie”.


Incontro Itamar nel suo appartamento berlinese in perfetto stile Neukölln: soffitti alti, muri spessi, spazio accogliente. Parliamo per lo più in inglese con qualche intromissione in italiano, che Itamar parla perfettamente. Questo bilinguismo, o plurilinguismo, tornerà nel corso della conversazione.

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– Partiamo dalla tua esperienza nel team curatoriale di documenta 14 e in festival cinematografici. Quali elementi di un film ti colpiscono, e diventano per te decisivi criteri di selezione?

In generale, mi emoziona un aspetto basico, tecnico del cinema, che è anche uno dei suoi aspetti più straordinari: l’incontro tra suono e immagine. Da tale incontro nascono tre narrative che procedono parallelamente: abbiamo la dimensione della parola, quella dell’immagine, e la loro combinazione. Tre narrative diverse, che possono anche arrivare a contraddirsi a vicenda, e che percepiamo simultaneamente. Solo una piccola percentuale dei film realizzati lavora su tutte e tre queste dimensioni, e sono proprio questi film ad interessarmi.

– Quale può essere un esempio di un momento puramente cinematografico, che lavora su tutte e tre queste narrative?

Penso alla sequenza iniziale di Hiroshima Mon Amour, di Alain Resnais, con l’attrice francese e l’architetto giapponese, insieme a letto. Lei gli spiega con insistenza che ha visitato tutti i musei della città, che conosce tutto della guerra, gli elenca i fatti principali relativi all’esplosione. Eppure, l’architetto replica, «Non hai visto niente di Hiroshima», e lo supportano le immagini che accompagnano le parole dell’attrice, in cui si vedono per lo più le gambe dei visitatori del museo.

Ecco, solo il cinema può riuscire in questa impresa: non ci dice che l’attrice non prova nulla di fronte alla storia di Hiroshima, non ci dice che sentimenti stiano provando i protagonisti, ma nella combinazione e sovrapposizione di suono e immagine esprime questo indicibile. In questo conflitto tra immagini (le immagini al museo) e parole («So tutto di Hiroshima») prevale l’immagine: lo spettatore sa che l’attrice non sa nulla di Hiroshima. È straordinario, perché questa sequenza non può essere tradotta in testo. È un momento che è puramente cinematografico, non traducibile in alcun altro medium.

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Una delle scene iniziali di “Hiroshima Mon Amour”, 1959, A.Resnais

– Quindi sei alla ricerca di questi frammenti, di questi istanti che non possono essere descritti in forma testuale, ma trovano unica espressione nella combinazione di suono e immagini.

Esattamente, mi interessa ciò che è puramente cinematografico. Un altro elemento che appartiene unicamente al cinema è il close up [l’inquadratura che stringe su un dettaglio o su un oggetto in particolare ndr]. Mi viene in mente la scena del matrimonio in The Deer Hunter. Durante i festeggiamenti, gli sposi bevono da un doppio calice: tradizione vuole che se riescono a bere senza rovesciare il liquido, allora la loro unione sarà felice. Due gocce rosse cadono sull’abito bianco della sposa, ma nel film nessuno le nota: solo lo spettatore le vede, perché rivelate da un rapido close up. Tutti continuano a festeggiare, solo lo spettatore sa che la loro vita non sarà felice. È questo un altro momento che soltanto il cinema può esprimere, senza che nulla sia detto. È una forma di comunicazione che va oltre le parole.

– Questi momenti, in cui in qualche modo il cinema eccede ogni altra forma di comunicazione, mi sembrano strettamente connessi al linguaggio poetico. Anche la poesia eccede la comunicazione ordinaria.

Che cos’è poetico, è la domanda che qualsiasi studente di letteratura deve affrontare. Io penso che la poesia sia una questione di attenzione. Se pensiamo alle foglie che cadono da un albero, ciò che rende questo fatto interessante è il nostro fare attenzione, il nostro sguardo su quel fatto preciso. Ciò che è poetico è questa attenzione per le cose. Il cinema ha il potere di creare questo stesso effetto: di far vedere le cose, di dirigere la nostra attenzione sull’essenziale.

Yael Bartana, “Tashlikh" (Cast Off), 2017, 11 min, image courtesy of Annet Gelink Gallery, Sommer Contemporary Art, Tel Aviv, Capitain Petzel, Berlin, Petzel Gallery, New York, and Galleria Raffaella Cortese, Milan.

Yael Bartana, “Tashlikh” (Cast Off), 2017, 11 min, image courtesy of Annet Gelink Gallery, Sommer Contemporary Art, Tel Aviv, Capitain Petzel, Berlin, Petzel Gallery, New York, and Galleria Raffaella Cortese, Milan.

– La selezione di film per Casa dei Saperi a Milano si apre con la proiezione di “Tashlikh” di Yael Bartana e “nebel” di Nicole Vögele e Elsa Kremser. Entrambi sono film estremamente poetici, in cui emerge un ideale di resistenza alle convenzioni, all’ovvietà, anche in modo provocatorio.

In Tashlikh il tema è quello della memoria collettiva. Tashlikh è un rituale ebraico in cui pane o altri oggetti vengono gettati nell’acqua, a simboleggiare la rinuncia ai peccati. Nel lavoro di Bartana questo rituale diventa un appello a liberarsi dei ricordi. Il film pone una questione molto interessante: cosa succederebbe se ci liberassimo del nostro passato, se ci liberassimo di questa memoria collettiva di cui tutti, ciascuno in modo diverso, facciamo parte? Cosa succederebbe se provassimo a resistere a questa memoria collettiva, e a riconoscere che esiste un’infinità di memorie collettive oltre alla nostra, ciascuna con la propria storia?

– Come dicevi, Tashlikh fa riferimento a un rituale ebraico, che però assume valenza universale. Ci rimanda al senso di una collettività che in ultima analisi è quella umana.

Gli oggetti simbolicamente gettati nel film non rimandano esclusivamente alla cultura ebraica, ma appartengono a molte narrative diverse. Precipitano tutti insieme, nello stesso spazio, senza gerarchie: agli oggetti che appartengono alle vittime si mescolano gli oggetti che rappresentano la narrativa opposta, quella del nipote del nazista per intenderci. D’altra parte, liberarsi del ricordo è una liberazione non solo per la vittima e la sua discendenza, ma anche per il carnefice. Un nazista può essere perseguitato dalla violenza del ricordo esattamente come un sopravvissuto dell’Olocausto. Ovviamente le esperienze sono completamente diverse in sé, ma l’idea di un passato che ci perseguita è qualcosa che tutti gli esseri umani condividono. L’incontro di oggetti provenienti da narrative diverse crea una nuova dimensione, che per me è essenzialmente poetica. Una contemplazione visiva, che non può essere colta a parole.

– Mi sembra di capire che la dimensione poetica di un film consista per te in questo momento epifanico, contemplativo, che contiene una rivelazione per lo spettatore. 

Se dovessi pensare velocemente a cosa è poetico, penso a una porta, che ti conduce sulla soglia di un mondo. Non mi viene in mente nulla di più emozionante che trovarmi di fronte a quella porta e affacciarmi su un mondo che metta in discussione le mie idee, i miei principi, che instauri il dubbio. E questo penso sia un elemento essenziale di tutta la questione dell’arte e della poesia: la cosa più importante è sentire di avere il permesso di dubitare, di mettere in discussione il sistema, in modo provocatorio e anche personale.

– Di solito si cercano certezze.

Per la verità è molto più interessante sollevare domande. “Dovrei davvero gettar via il passaporto di mio nonno”? Questa è una domanda interessante, per cui non ho risposte. Anche nel film nebel di Vögele e Kremser si sollevano domande e non si danno risposte.

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Nicole Vögele, “nebel” (Fog), 2014, 60 min, image courtesy of Nicole Vögele and Elsa Kremser.

– Ma non diventa frustrante, cercare e non trovare? Penso alla frustrazione di uno studente di filosofia che per la prima volta si confronta con il pensiero di Wittgenstein, per scoprire che la filosofia è una scala da gettare una volta utilizzata. Inutile. Non c’è via di fuga.

È vero, sono d’accordo che manca il lieto fine. Eppure non conosco altro modo di condurre la mia vita. Non ci sono altre opzioni, se non porsi costantemente domande che restano senza risposta. Per questo diffido dall’accademia: deve per forza dare risposte, fornire una conclusione. Anzi, parte da una tesi da dimostrare, e man mano elimina tutti gli elementi che non combaciano. La mia vita, però, non funziona così.

La prima volta che ho visto nebel, non riuscivo a pensare ad altro. Nel film compaiono persone che vivono, isolate, nei loro mondi: che cosa cercano nella vita? Cosa dà senso al loro esistere? In una scena c’è una donna che lavora nella giuria di una competizione canina. È così coscienziosa e orgogliosa della sua professione, un orgoglio per me completamente folle, che mi ha fatto pensare: io invece che cosa cerco nella vita? Cosa mi rende felice? Perché? Il punto ovviamente non è la risposta, ma la riflessione che questo film provoca.

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Nicole Vögele, “nebel” (Fog), 2014, 60 min, image courtesy of Nicole Vögele and Elsa Kremser.

– La parte difficile per un regista è anche suscitare domande con il suo film senza scadere nel moralismo, nel paternalismo, e rinunciare almeno in parte a quell’autorità di cui gode sullo spettatore.

È vero. Ci sono autori che sfruttano con arroganza questa posizione autoritaria, e vogliono imporci la loro visione. Penso a Jean-Luc Godard e Lars von Trier, che sfruttano le dinamiche di potere del cinema. Ricordo una lezione sulla poetica di Godard durante i miei studi a Parigi. Dopo la visione di Histoire(s) du Cinéma, sentii un compagno di corso dire che probabilmente non era abbastanza intelligente per capirlo. E questo è stato incredibilmente deprimente per me. Certo che sei intelligente, volevo gridargli. Questa sensazione di inferiorità è assolutamente ridicola e inaccettabile, ed è esattamente l’opposto di ciò che dovrebbe fare il cinema e l’arte in generale. Creare senso, condividere domande e l’impossibilità di dare risposte, in uno scambio onesto. Oppure prendiamo i film di Lars von Trier: non sono altro che una serie di torture di donne, in una prospettiva completamente misogina. Mi stupisco che gli si dia ancora credito.

– D’altro canto non stupisce che sia la donna la prima vittima dell’arroganza registica. Trattandosi anche nel cinema di strutture di potere, la donna è spesso relegata a un ruolo subalterno, allontanata dal potere effettivo. Nella tua selezione di film per Casa dei Saperi hai scelto invece film di registe donne. È un caso o una scelta politica?

Sì, c’è un’intenzione politica consapevole dietro questa decisione. Tuttavia, credo che una volta che una rassegna si presenta come “serie di film di donne”, il contenuto diventi meno rilevante e, di conseguenza, perda senso. Tutti i film selezionati per Casa dei Saperi sono opere di alta qualità, complesse, delicate ed emozionanti, e sono felice di mostrarle indipendentemente dal genere dei loro creatori. In generale sono più interessato a far sì che siano gli spettatori più attenti a notare certi elementi di un progetto, piuttosto che affermare esplicitamente questi elementi.

Per questa serie di film in Fondazione Pini, ho lavorato sul concetto di Nuove Utopie, che è il tema dell’intera programmazione di Casa dei Saperi per i prossimi due anni. Sono partito dalla ricerca umana di alternative alle realtà esistenti, dal dubbio sull’effettiva possibilità che tali utopie possano esistere. I film e le conversazioni in programma faranno luce sulle diverse visioni, metodi e tecnologie con cui artisti, registi e attivisti politici lavorano per affrontare questi temi.

– Oltre all’aspetto curatoriale della tua attività, mi piacerebbe sapere di più sui tuoi progetti artistici. Quali sono le tue linee di ricerca?

Fino ad oggi mi sono collocato sul piano della ricerca curatoriale, teorica. Della professione del curatore amo la possibilità di aprire nuovi spazi di discussione, di creare narrative che creino potenziale attività critica e una qualche forma di dibattito. Difatti, è molto importante per me che le proiezioni che organizzo siano seguite da una conversazione autentica con il pubblico, per uno scambio reciproco. Il mio progetto artistico è ancora in divenire. Mi interessa moltissimo la combinazione di elementi d’archivio con elementi contemporanei, così come la relazione – e il conflitto – tra reale e immaginario. Qualche tempo fa mi sono trovato al Palazzo Topkapı di Istanbul. Con mia enorme sorpresa, ho scoperto che lì sono custoditi oggetti come la spada di Davide, la pentola di Abramo, e perfino il bastone con cui Mosè separò le acque del Mar Rosso. Ora, quando vai in un museo ti aspetti che gli oggetti esposti siano il risultato di accurate ricerche di un team di esperti, storici, etnografi. La mia ricerca artistica si colloca in questa dimensione di scontro tra finzione e realtà, in cui sfumano i confini tra reale e finzionale. Che cosa rende un oggetto degno di essere presente in un museo? Mi interessa mettere in discussione il contratto implicito che regola i rapporti tra museo e visitatore, e che prevede la cieca fiducia nella veridicità di ciò che è esposto.

– Non so se hai letto “Il museo dell’innocenza”, di Orhan Pamuk. Nel libro si racconta di Kemal, il protagonista del romanzo, che costruisce un museo in cui espone oggetti quotidiani appartenuti alla donna che amava. E questo museo esiste effettivamente a Istanbul, e contiene esattamente gli oggetti descritti nel romanzo…

C’è qualcosa di folle nel progetto di Pamuk. Ho letto il romanzo e visitato il museo a Istanbul, che, devo dire, mi ha dato l’impressione di essere un po’ troppo artificioso. Allo stesso tempo, però, l’idea di Pamuk è geniale. Finzione e realtà si sovrappongono, e viene il dubbio che forse il museo sia vero, che la storia di Kemal e Füsün sia reale, e che ti sia perso qualche passaggio. È proprio questo dubbio, se qualcosa sia reale, ciò che trovo interessante. Mi interessano quelle opere che dipingono uno scenario possibile, realistico ma non reale, che potrebbe essere reale, che utilizza elementi finzionali e reali, così da non poter separare i due mondi.

– Ti vengono in mente altre opere, altri lavori in cui trovi le tracce di questo scontro tra reale e finzionale?

Mi viene subito in mente il francobollo creato dall’artista palestinese Khaled Jarrar. Jarrar sfrutta la possibilità del sistema postale tedesco di creare francobolli personalizzati per compleanni e occasioni varie, e crea il primo francobollo palestinese. Lo fa stravolgendo la narrativa relativa alla Palestina: niente bombe e immagini drammatiche, ma un uccello in volo su sfondo colorato, un’immagine piena di positività, con la scritta “State of Palestine” in inglese, ebraico e arabo. Ha creato francobolli reali, funzionanti, ufficiali, per uno Stato che non esiste. Ecco, mi emoziona moltissimo quell’istante in cui una persona si domanda: “Attenzione, ma è tutto vero?”. Quel momento di disagio in cui ci si chiede “chi ha autorizzato questo, come è stato possibile?”. Posso solo immaginare il momento in cui il Ministro dell’Educazione israeliano riceve una busta con questo francobollo. Non saprebbe cosa fare, probabilmente darebbe la busta alle fiamme; il dubbio assumerebbe un potere estremo, un effetto immediato e potente sulla realtà. Ecco perché le Nuove Utopie di cui parlavamo sono importanti. Un’utopia non può per definizione esistere, ma ha effetti pratici nella vita reale.

Itamar Gov sarà a Milano il 23 marzo 2019, per il programma Nuove Utopie di Casa dei Saperi alla Fondazione Pini.