Ad aprire La pista di ghiaccio, primo romanzo pubblicato da Roberto Bolaño, sono due versi di Mario Santiago, amico di una vita che con lui fondò il movimento poetico infrarealista: «Se proprio devo vivere che sia / senza timone e nel delirio». Il distico apre degnamente una storia roboante e congestionata, raccontata da tre personaggi che intrecciano le loro voci e, alternandosi di capitolo in capitolo, ripercorrono le vicende relative a un omicidio occorso in Costa Brava, nella piccola cittadina marittima di Z. Il primo a prendere parola è Remo Morán, poeta cileno, che si guadagna da vivere gestendo una serie di attività, tra cui spicca la gestione di un campeggio e di un hotel. È grazie a lui che Gaspar Heredia, poeta scapestrato e seconda voce narrante, trova lavoro come guardiano del campeggio, finendo per trasferirsi da Barcellona al piccolo centro abitato. Completa il terzetto Enric Rosquelles, figura di rilievo nell’amministrazione cittadina di Z, catalano obeso dal carattere aspro. Il luogo incantato attorno a cui ruota l’intera vicenda, la pista di ghiaccio, costruita all’interno di un mostruoso palazzo abbandonato, Palazzo Benvingut, è opera di Enric, che la concepisce e disegna personalmente per amore di Nuria, incantevole pattinatrice.
Sono questi gli elementi fondamentali de La pista di ghiaccio: tre narratori, un luogo specifico. Il racconto alternato dei tre segna un progressivo avvicinamento alla pista, nucleo del romanzo, dove la storia ha origine e l’intreccio è destinato a sciogliersi.
1. sul genere
Appare fin da subito lampante come, nella logica di un romanzo giallo/noir, ognuno dei tre narratori (o protagonisti) possa rappresentare un soddisfacente profilo da killer. Basti pensare a Gaspar, di cui Remo ricorda anzitutto la recita di una battuta macabra su Jack lo Squartatore, pronunciata in una notte di nebbia con la sua voce «profonda, come di velluto». Notevole è anche il più che infelice principio del racconto di Enric, che confessa: «tutti quanti diranno che l’ultima persona che poteva trovarsi coinvolta in un delitto sono io». Si può dubitare, per chiudere la prima corona di personaggi, anche di Remo, che aspetta l’arrivo di Gaspar «con impazienza e nervosismo», quasi si trattasse di un complice. L’iscrizione al registro degli indiziati potrebbe contare anche il nome di qualche personaggio secondario: l’esempio lampante è l’enigmatica Caridad, ragazza dal viso smunto che si aggira per il villaggio con un coltello nascosto sotto la maglietta. Ciò che stupisce però è come l’evidente trama di base a tinte noir finisca per essere svuotata della sua energia: Bolaño procede a una cosciente smembratura degli elementi tipici del genere, sfruttando il narratore multiplo (che attraverso la moltiplicazione del punto di vista e il continuo spostamento di fuoco allarga le maglie della narrazione, fornendo tre differenti testimonianze) per dissipare ogni senso di suspense. Si aggiunga che da indovinare non è soltanto l’identità del killer, ma persino quella della vittima: all’assassinio si ritorna compulsivamente, ma senza far nomi. Il lettore è come spinto alla deriva dalle voci di Remo, Gaspar ed Enric, che confessano i fatti accaduti a posteriori, sapendo benissimo il nome di killer e vittima, e finisce per essere soggiogato a un tempo di narrazione che non ha nulla a che vedere con la ritmica giallesca, noir o thriller; il senso del tempo si appiattisce. Il gioco è fine: ciò che andrebbe a costituire normalmente il clou del racconto, il momento dell’assassinio e ancor più la scoperta delle identità dell’assassino (in questo caso, anche della vittima), passa in secondo piano lentamente, man mano che le storie dei tre personaggi-narratori si intrecciano e complicano. La presenza del delitto è alimentata artificialmente, attraverso qualche battuta icastica, e la sicurezza dell’infausto destino si trasforma in tranquillità, bonaria attesa, come se l’incidenza del male (il resoconto del fatto di sangue) fosse inevitabile.
I giorni che precedettero il ritrovamento del cadavere furono indubbiamente strani, dipinti dentro e fuori, silenziosi, come se in fondo tutti sapessimo che la disgrazia era imminente. (Remo Morán)
Il racconto, persa la tensione tipica del noir, si parcellizza, andando a costituire dei quadri d’esistenza autonomi: ogni microvicenda riflette una realtà esistenziale fatta di sentimenti e sofferenze, disegna i tratti d’un personaggio specifico. A saltare in primo piano non è la dinamica bruciante e scandalosa dell’assassinio, ma la tragedia giornaliera e ricorrente d’ogni attore. Pure il ritratto d’ognuno possiede un suo ruolo nell’intelaiatura complessiva e, cosa più importante, ogni quadro riporta alla visione ultima, totalizzante, romanzesca: da molteplici visioni ne scaturisce una sola, articolata e pulsante.
2. sulla ripetizione
Chiunque si sia imbattuto in uno dei libri in prosa di Bolaño sarà stato toccato dalla forza ipnotica dei suoi racconti, allucinati e indefiniti, che a partire da una vicenda di base sviluppano più sottotrame, aprendo la struttura romanzesca e costringendo il lettore al disorientamento – si pensi a quelli che sono generalmente riconosciuti come i due capolavori, 2666 e I detective selvaggi, al loro andamento labirintico. La brillante prova d’esordio assume oggi un significato differente, è allo stesso tempo arricchita e insidiata dalla considerevole (non solo per qualità indubbia, ma persino per peso specifico) produzione successiva; pure non si tratta semplicemente d’una sorta di tavola preparatoria. A trovare una prima e compiuta forma ne La pista di ghiaccio è quella che potrebbe essere definita la cifra tipica dello scrittore cileno, che all’interno di romanzi abilmente costruiti, tutt’altro che intuitivi nelle strutture e più o meno complicati, ritorna a racconti simili, quasi archetipi della sua letteratura, il più delle volte legati alla sua vicenda esistenziale. Ne viene un coerente e finissimo quadro esistenziale, umano e letterario, il cui valore scaturisce dalla ripetizione e dall’ampliamento di tematiche ricorrenti e stilemi tipici.
Può aiutare a questo proposito, per una prima identificazione d’una marca di scrittura circolare, soffermarsi sul ruolo della ripetizione, che nel romanzo agisce profondamente sul piano narrativo e stilistico (sull’importanza della ripetizione in Bolaño si è già espressa più volte Ilide Carmignani, traduttrice storica dello scrittore: «mi sembra che in Bolaño la ripresa, la ripetizione, sia una modalità creativa frequente e consapevole»). A livello narrativo, difatti, la struttura de La pista di ghiaccio si basa su uno schema di ripetizioni e variazioni di motivi fissi: le storie si intersecano e richiamano l’un l’altra. Sullo sfondo del fatto di sangue è raccontata la cronaca di tre amori disperati, due dei quali peraltro si muovono attorno a un fulcro comune, l’incantevole e irraggiungibile Nuria. La battaglia è combattuta tra Remo ed Enric, personaggi non a caso simmetricamente opposti per caratteristiche e temperamento: l’uno immigrato cileno, l’altro spagnolo; l’uno affascinante, l’altro goffo e sovrappeso; l’uno relegato a un amore fisico, sessuale, l’altro condannato a una relazione platonica. Il gioco di sdoppiamento è peraltro “raddoppiato”: l’ex moglie di Remo, Lola, è un’assistente sociale operante a Z e dunque subordinata a Enric, che per lei deve aver nutrito dei sentimenti tutt’altro che tenui.
Come credete che mi sentissi quando capii che tra Nuria e Remo Morán c’era qualcosa di più di un’amicizia? Morire, mi sentii morire. Mi sembrò che la terra mi si aprisse sotto i piedi e il mio animo si ribellò a quella che considerai una beffa e un’ingiustizia, perché qualche anno prima avevo già avuto occasione di vedere in circostanze simili Lola […] cadere nelle grinfie del suddetto commerciante sudamericano, che in breve le aveva rovinato la vita. Tutto ciò che Morán toccava si sviliva, si impoveriva, si sporcava. (Enric)
Il discorso può essere aperto a ventaglio, pressoché la totalità dei personaggi riprende e allo stesso tempo varia alcuni particolari del modello principale – il centro irradiante delle personalità finzionali il più delle volte non è altro che quella personale dell’autore, cileno e disperato. Tra i protagonisti, ancora a titolo d’esempio, è inevitabile individuare in Gaspar qualcosa che appartiene a Remo: entrambi sono sudamericani rifugiatisi in Spagna, entrambi sono (o sono stati) poeti, entrambi vivono una difficile storia d’amore (l’uno con Nuria, l’altro con Caridad). Li differenzia la situazione economico-sociale, ma non mancano i punti di tangenza.
Dal punto di vista stilistico, invece, la ripetizione si fa strumento di ritmo e scansione della sintassi. Bolaño costruisce un fraseggio prevalentemente paratattico che relega la punteggiatura a un ruolo secondario, fluidissimo nel suo svolgimento, e proprio la ripetizione di suoni e ancor più parole assume una funzione strutturante, quasi di rima. La ripetizione dei nomi, ad esempio, strategia prediletta dell’autore, ordina una sintassi fatta di incisi e sterzate del pensiero, assicurando al racconto un andamento ipnotico.
Al Carajillo quel palazzo faceva venire in mente Remo Morán; con voce rauca assicurava che Morán era come Benvingut, o che sarebbe diventato come Benvingut, un giorno sarebbe tornato in America con suo figlio e quel finocchio di Alex (da dove cazzo viene Morán?, domandò. Dal Cile, risposi insonnolito) e avrebbe costruito il suo palazzo lasciando stupefatti criminali, ignoranti e gente del posto. Uguale a qui. In pietra nera, se la trova. Mi sarebbe piaciuto averlo con me in guerra, concluse ad occhi chiusi […] (Gaspar)
3. labirintografie
Ricostruire i movimenti d’ogni personaggio porta alla forma del labirinto: ogni tracciato personale, il più delle volte ricco di svolte e imprevisti, culmina inevitabilmente nell’avvicinamento alla pista di ghiaccio, sede delle estrose piroette di Nuria e luogo infernale dove deve essere ritrovato il tanto chiamato cadavere. Lo stesso Palazzo Benvingut, magnifico e aberrante nelle forme, edificio disegnato da un architetto epigono di Gaudì, può essere considerato esso stesso un labirinto, o meglio un labirinto nel labirinto (e d’altronde ritorte e pericolose sono le strade sterrate che portano al suo ingresso). Tra le sue mura è facile smarrirsi, perdere la retta via, e si finisce per scivolare al centro dell’enigma, sulla scintillante pista di ghiaccio.
All’interno qualcuno, una volontà infantile e terribile, aveva costruito, servendosi di innumerevoli casse, una serie di rozzi corridoi, alti un metro e mezzo, che andavano calando, mano a mano che uno vi si addentrava, fino a ridursi a una cinquantina di centimetri. Al centro c’era la pista di ghiaccio. (Remo)
È come una forza sinistra, un soffio maligno a delineare gli spostamenti dei personaggi: si inseguono senza motivo, percorrono strade differenti e raggiungono a turno la pista di ghiaccio, luogo deputato allo scioglimento del rompicapo. Lo stesso assassino, il cui sguardo è colmo della «innocenza di un bambino» (Remo vede, nei suoi occhi stravolti, quelli del figlioletto), ammette di aver seguito la vittima «con l’unica intenzione di vegliare su di lei […]; con l’unica intenzione di stare vicino a del calore umano». Il sangue riga la superficie immacolata della pista, il delitto è consumato. Pure non c’è un Minotauro al cuore del labirinto, così come non c’è un eroe pronto a uccidere il mostro. A risaltare è la rappresentazione cruda e struggente della fragilità umana, e la sconcertante insensatezza del male.