La canonica soglia della Notizia sull’autrice descrive Trasparenza di Maria Borio, da poco pubblicato da Interlinea nella serie “Lyra giovani” curata da Franco Buffoni, come il suo “primo vero libro di poesia”. La dicitura “libro di poesia” è già di per sé problematica e potremmo accorgercene registrando le volte in cui s’alterna quest’espressione ad altre ritenute a torto intercambiabili, come “raccolta” o “silloge”. Con l’intento di individuarne tipologie, ricorrenze e strategie macrotestuali, del “libro di poesia” si sono occupati ormai in molti, da Enrico Testa ne Il libro di poesia (Il Melangolo, 1983) a Pier Vincenzo Mengaldo, di passaggio nell’ultimo breve saggio pubblicato da Carocci intitolato Com’è la poesia (2018). Tornando a quanto leggiamo nella Notizia, ne consegue che L’altro limite, recente libro di Maria Borio uscito per la collana di Pordenonelegge/Lietocolle nel 2017, non debba considerarsi alla stessa stregua, bensì come un’anticipazione, uno specimen. In effetti questo nuovo corposo libro sfida e sequestra l’attenzione sul proprio impianto di opera hegelianamente tripartita: Il puro, L’impuro, Il trasparente titolano le tre sezioni che innervano e calamitano il montaggio dei testi, quasi questi fossero diverse limature ferrose, mentre la nota finale ci avverte che il trasparente «è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’umano e il non umano, la velocità e la prospettiva. L’uno altro limite dell’altro.»
Tripartizione hegeliana, mondo digitale, grande vetro, altro limite (e limite dell’altro), velocità e prospettiva ma soprattutto, a mio avviso, umano e non umano, ai quali aggiungerei infine un cenno al disumano e post-umano: bastano questi cardini per suggerire l’idea che Trasparenza si prenda tutto lo spazio per veleggiare nel mare di una poesia di pensiero, proprio laddove è chiaro che rilavora incessantemente un nugolo di percezioni e una materia concretissima che appare come affaticata da una foscoliana «forza operosa». Del resto non è nuovo questo dato, ossia una certa frequentazione filosofica da parte dei cosiddetti “poeti giovani”, anche se sarebbe più corretto parlare più semplicemente di generazioni recenti (detto per inciso: sia ben chiaro che categorie come “poesia giovane” o “poeti giovani” sono comode etichette in mano a chi, più in là negli anni, cerca di mantenere un certo status quo e una certa segmentazione dell’offerta). E anche Maria Borio con questo testo si immerge in un flusso che fa della riflessione filosofica, apparentemente prima che della tradizione lirica o delle ormai isterilite difese dell’archè orale della poesia, un binario privilegiato. In realtà la questione non è così semplice, a maggior ragione considerando il recente lavoro critico dell’autrice intitolato Poetiche e individui (Marsilio, 2018), dove la tradizione dell’ultimo trentennio è stata largamente perlustrata. All’orecchio non mancheranno di manifestarsi, a esempio, cicli di sintassi che ci riannodano con i versi di Mario Benedetti oppure, sorprendentemente, con il Di Ruscio più tardo (quello di «ho la bocca piena di farfalle | so benissimo che se apro la bocca | volano via tutte | e non ritorneranno neppure | se rimango a bocca spalancata per sempre») quando leggiamo per esempio la chiusa della poesia intitolata Aquatic Centre che dice «La vita è ovunque, in una linea curva | ognuno abita come pensare. | Le api ora lasciamo la mia bocca perché le penso.»
Non c’è facile sociologia o antropologia in questa poesia, allora, ma un’inedita riflessione che si muove per sottrazioni («Chi ci guarda può annullarci, farci dimagrire, portarci via»), silenzi («Il cono dell’atmosfera vuoto su tutti, azzurro»), nonsensi («Anche la voce può dimagrire») e tutto appare bene inchiavardato al flusso digitale che impasta e devasta le nostre giornate sotto il “cielo”, altra parola-perno del libro, nonché titolo di una sottosezione de Il trasparente. Cielo-convessità che a seconda dei casi «si contorce», «è armonia», «preme su tutti», «è un uomo nero perché addensa». L’interesse è saldo sopra il puro e l’impuro della trasparenza, sugli abbassamenti di volume che la trasparenza stessa, in quanto materia dotata di tale proprietà, comporta. Ed è proprio nella trasparenza che si salda e si completa il ragionamento caro all’autrice sull’altro limite, o per meglio dire del limite che è limite a sua volta di un altro limite; ed è così che la trasparenza, prima di disfarsi, sfiora per qualche istante la condizione di aporia e non-limite.
Eppure, si sa, le cose (termine passepartout della poesia contemporanea) hanno un limite e soprattutto si sa che non solo il vedere conta in questa scena. Proprio di qua credo provenga, di conseguenza, la rilevante componente acustica del libro. Uno dei versi più belli, rannicchiato in uno dei componimenti a sua volta più belli, Dorsoduro, dice «Un suono umano è disumano.» È in simili veloci, stordite girandole di pensiero che questa poesia offre i momenti più carichi di conseguenze. Parliamo dunque di fenomeni acustici e di volume inteso sia come misura del suono in decibel, sia come spazio occupato dai solidi (dalle “cose”, appunto), in contrapposizione al liquido baumaniano d’ordinanza, pur evocato dai testi (si veda, a tale proposito, soprattutto la sottosezione de L’impuro intitolata Il tutto amare liquido, in un libro che conta comunque ben 27 occorrenze della parola “acqua” e una di “acque”, così come sono 27 quelle di “vetro” e 5 quelle di “vetri”); parliamo anche della pluralità di invii e rinvii che la trasparenza dei nostri plurimi schermi non-trasparenti mette in atto. Perché, se tutto diventa schermo – e sarà bene tornare su tutti i sensi della parola schermo, che ci riportano alla difesa e alla protezione – è altresì vero che lo schermo è un vetro nient’affatto trasparente, dove oggi si srotola quel digitale evocato dalla nota finale. Un semplice giro attorno alla parola-perno “schermo” ci porta a scoprire queste situazioni:
Mi dicono che può essere forma questo libro a schermo | dove vedi vite in frammento o luce stupita. (p. 5)
Con i pensieri come unghie lego vite | disunite a schermo. (p. 6)
Nella terza scena parliamo immobili | attraverso uno schermo nell’etere | particelle o nella sottospecie di materia, | gli atti che chiamano linguaggio | o il linguaggio vero, sinuoso, incosciente. (p. 19)
Alla settima scena torno e respiro | nell’irrealtà prodotta dello schermo dei colori | del viso e della voce […] (p. 20)
Può capitare che la scena indifferente di questa sera | si espanda come uno schermo verde dietro la nuca. […] (p. 23)
Nella penombra le parole cancellate | sullo schermo da sole come le dico | vanno indietro per una massa vasta e morbida. (p. 26)
Sullo schermo seguo l’immagine dell’oceano: ci separa | è freddo, ad ogni virata degli uccelli | il tuo corpo e il mio possono trasformarsi. (p. 32)
La freccia è sullo schermo | come se tutto il movimento possa esistere | nella scacchiera di una rete. (p. 81)
Tu sono io nello schermo, io è tutti. (p. 86)
Nel caso premi la mano, può frangersi || o resistere come l’etere resiste, || e lì coscienti o da noi separati || puro e impuro, || il grande schermo di Isola || o un continente. (p. 98)
Trasparenza si apre con una poesia isolata e senza titolo, rimasta al di fuori delle dette tre macrosezioni. Questa si presenta come un’invocazione capace di disporre la trama e lo spazio del libro che andremo a leggere e di incistare quasi tutte le parole-perno dell’opera, come “schermo”, “scrittura” o “scena”, la quale ha il suo massimo impiego nei due componimenti consecutivi intitolati Settima scena e Trovare. “Scena”, che da vicino ricorda il frame della psicologia cognitiva, ci rimanda a una dimensione teatrale della mente e della coscienza, nonché alle vite in frammenti che popolano queste pagine. In questo testo situato in posizione proemiale spicca il quasi-distico programmatico «[…] La forma è, non è ciò che volete | io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.»
I livelli di analisi che si possono attivare si muovono su più assi e nella forbice che va dal microscopico al macroscopico: la densità lessicale, i cicli della sintassi, le percentuali di ricorrenze di certe figure o lunghezze metriche, il ricorso a cluster ridondanti di versi sono tutte possibilità della critica. Chi lo vorrà potrà provare a cimentarsi. Da questo osservatorio, ha senso chiedere l’attenzione e la pazienza del lettore un’ultima volta, per proporre un ulteriore carotaggio, stavolta attorno alla parola “vetro”. Quest’ultima non solo è indicata come fondante dalla stessa autrice nella citata Nota, ma consente di scorrere trasversalmente con lievi fremiti l’intera pelle del libro, dal principio alla fine.
Come ci siamo abitati: scrivi e sai | che il vetro non riflette la persona | che muove la mano e pensa nel suo || a un altro profilo. […] (p. 14)
Se si appoggia al vetro è freddo […] (p. 14)
– una persona che teneva dentro | l’altra come il vetro prima di essere | sabbia e fuoco in fusione. […] (p. 15)
Si è rotta dentro il vetro, sottile, | per chiedere un tempo vero… || Si erano abitati. (p. 16)
[…] L’acqua è fatta di uomini, | il vetro impenna, gli atomi sono creatura e storia | in un passaggio. Ma è molto più semplice, || hai detto, la sostanza del vetro è la nostra e la finestra | un’architettura come il corpo. […] (p. 17)
Il respiro lascia elettroni sulla mano, tutto sul vetro | in potenza. Ma è molto più semplice || – siamo una finestra senza imposte, | il vetro su cui le storie aderiscono – […] (p. 18)
Tutta la notte era un vetro sopra un vetro sopra un vetro. (p. 28)
[…] Dietro il vetro della finestra l’alba ha tagliato | il cortile: […] (p. 55)
Nel vetro tagliente dell’alba la lama del treno è una prospettiva aerea. (p. 55)
[…] Come si forma la neve come si forma il vetro | come la differenza di temperatura | tra qui e fuori diventa una famiglia, | il vetro mastica, il fuoco mastica | il fumo arriva dalle case calde | dal cemento o dagli uccelli neri. (p. 65)
[…] come si forma la neve come si forma il vetro, | come accade sempre dentro, nessuno l’aspetta. (p. 66)
Ti ha mandato un silenzio ampio | dentro a un vetro sottile, si rifrange | mentre leghi la carta. […] (p. 76)
Lo spazio è un vetro, | l’interno è nell’esterno. (p. 85)
Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola | sembra una faglia sull’orizzonte […] (p. 97)
gli artefici di questa pulizia di vetro (p. 97)
[…] Al bar mi dici | che è metafora del mondo | oggi trattenendo il cibo nella bocca | il grande vetro di questi edifici | e il cibo profondo negli organi: || meccanica e carne invisibili lavorano | e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro | entrando uscendo dal grande vetro | come l’arte afona e oscura di Duchamp | taglia a sezioni. (p. 98)
Il vetro passa da un punto | trattenuto e libero. || Nel punto più denso della città scrivi | che le persone tornino, che torni | al molto disperso, raccoglierlo | dal vetro e gli edifici a un luogo della mente – (p. 110)
[…] Attraverso | il vetro appare reale solo la forma || delle magliette made in china. (p. 111)
[…] Sembra | di attraversarsi, noi nella mattina soli || dal banco al vetro alla strada… | Le aste traslucide attraverso i vetri || sono rami – e il vento | le apre, li chiude. (p. 112)
La schiena nuda non ha più freddo. Ecco le cose | che ci abitano: il vetro trasparente, il muro opaco, | noi per le cose, una strada curva sul muro, | il muro dentro vene lenticolari. […] (p. 125)
Dopo un simile regesto torna alla mente Vocativo di Zanzotto e il componimento intitolato Prima persona («Sul vetro | eternamente oscuro | sfugge pasqua dagli scossi capelli | primavera dimora e svanisce […] e là nel vetro | pasqua e maggio e il rissoso lume affondano»). Non casualmente è ancora Zanzotto, stavolta da La Beltà e nella seconda persona dell’«Imprevisto ritorno al tu» – «durante un’eclissi solare», continuava curiosamente il testo zanzottiano espunto nell’epigrafe dall’autrice – a proteggere l’avvio della sottosezione intitolata Distanze. Sono due spunti grammatologici e pronominali interessanti se vogliamo provare a situare, o quantomeno se ci interessa osservare iuxta propria principia, la moltitudine di relazioni, identità e distanze, umane e finanche post-umane, fluttuanti sotto il cielo di questa poesia.
Nella già citata Trovare leggiamo «[…] Così capita che il mondo | esista chiuso sopra la nuca e scivoli irrequieto | da una parte all’altra di quello spazio come luce | imprigionata. […]». È questa luce imprigionata, unita a una sua possibile liberazione, che si porta appresso il senso più promettente di una riflessione sulla trasparenza. La trasparenza oggi è diventata uno slogan politico e dell’informazione, e lo ha ricordato anche Byung-Chul Han, il filosofo coreano che ci ha parlato, fra altre cose, di società della stanchezza, di eros in agonia, di visioni digitali, di espulsione dell’altro nel mondo digitale (tutti aspetti che sembrano intenzionalmente sfiorati, quando non proprio toccati, dalla scrittura di Maria Borio). In quel senso la trasparenza diventa un falso ideale, funzionale alle odierne forme di dominio e egemonia del biocapitalismo. La trasparenza di questo libro assomiglia più a una frontiera che sta oltre la stanchezza di Byung-Chul Han e giunge piuttosto a lambire la condizione dell’esausto di Gilles Deleuze, una condizione estrema e pertanto più aperta, paradossalmente vibrante, foriera di un possibile cambiamento. Arrivati sino a qui, lo stallo di puro e impuro si può superare, se non con l’hegeliana sintesi, con una sorta di blochiano principio-speranza, con una crepa sul vetro o con un altro principio che provi a sfidare quello che sempre Zanzotto, ricordando l’opera di Giuseppe Berto, identificava come il «demonio del nichilismo». Un avvertimento: dovessimo arrivarci, non sarà un safe crash come quello del vetro antincendio.