Pubblichiamo oggi la quarta di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2019, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 27 aprile 2019. Francesco Targhetta è stato il quarto finalista che ha presentato il suo libro, Le vite potenziali (Mondadori 2018) al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.
Le vite potenziali è un romanzo definibile con tutta una serie di etichette – poi tutte discutibili – “romanzo del lavoro”, “romanzo del lavoro digitale”, “romanzo generazionale”, “romanzo del nord-est”, visti i temi e gli spunti che si trovano in questo romanzo, che mette insieme le storie di tre personaggi che, a partire dalla stessa società in cui lavorano – una società di servizi per il web – intrecciano poi le loro vite private e anche professionali. La prima cosa che vorrei chiederti, riguarda proprio un aspetto generazionale: per chi conosce il tuo percorso da romanziere sa che nel 2012 esce Perciò veniamo bene nelle fotografie (che è stato riedito recentissimamente da Mondadori), un romanzo in versi che raccontava la generazione, all’epoca di trentenni, che uscivano dall’università o affrontavano le prime esperienze di lavoro o di dottorato, in una situazione di grande disorientamento. Nelle Vite potenziali abbiamo la stessa generazione, vista a 5-6 anni di distanza, fatta ora di trentacinquenni che sembrano aver trovato una stabilità lavorativa – e pure originale, quella del lavoro nell’ambito digitale, in grande espansione – e però sembra sempre mancare qualcosa per rendere complete queste vite, anziché potenziali. Ecco, cos’è che continua a mancare a questa generazione che racconti nel romanzo?
Ha un bel lavoro. Questa, come dici tu, è la grande differenza rispetto a prima e l’ho voluta mettere a pagina uno. Perché poi c’è sempre quel rischio dell’etichetta; quando era uscito quel libro si era molto parlato di “letteratura del precariato”, che peraltro era una categoria che era già stata usata per molti libri precedenti a Perciò veniamo bene nelle fotografie. Qui a pagina uno invece si dice che il protagonista ha un contratto a tempo indeterminato; però è vero che manca ancora qualcosa, perché si rendono conto che in realtà la precarietà non è esclusivamente una categoria professionale, ma è proprio una categoria, se si può dire, esistenziale. Le nostre vite, in questo paradigma, abbiamo scoperto che sono per forza precarie, nel senso che si sviluppano in direzioni che sono impronosticabili. Perché la tecnologia che domina il paradigma della contemporaneità ha questa conseguenza, in realtà, di far schizzare le nostre vite in direzioni totalmente diverse da quelle che avevamo previsto, in modo un po’ schizofrenico, e soprattutto di sottoporci a continui cambiamenti, metamorfosi, per cui l’azienda in cui lavorano i tre protagonisti ha proprio questo problema, del fatto che ci sono diversi dipendenti che abbandonano, che lasciano, c’è un turnover continuo. È proprio l’assenza, l’impossibilità di una costanza, di una presenza di qualche cosa di solido e di costante nelle nostre esistenze. Bisogna abituarsi a vivere in questo tipo di mondo, la mia generazione era cresciuta con un’altra idea, quella dei nostri genitori, che avevano lavorato per quarant’anni nelle stesse fabbriche o negli stessi posti, mentre la generazione successiva alla nostra è già cresciuta con un’idea diversa del proprio futuro, e quindi in modo più versatile, più predisposto al cambiamento, mentre per noi è stato molto faticoso. E quindi, nonostante la stabilità lavorativa, questi personaggi sono in un certo senso fragili.
Sì, c’è un aspetto, che è anche uno dei caratteri originali del romanzo, che è il tentativo di raccontare una dimensione, quella del lavoro, ma nell’ambito del digitale, che non ha avuto grande rappresentazione – almeno fino ad adesso – nella narrativa italiana, e che però è una dimensione che sembra ricadere proprio sulla vita dei personaggi. C’è una sorta di virtualità che sembra rendere da un certo punto di vista tutto molto disponibile e possibile, al tempo stesso però fa mancare un elemento di solidità, la possibilità si ribalta sempre in evanescenza, in inconsistenza. Ci sono alcuni passaggi in cui questa riflessione affiora in maniera più nitida. È questo che ti ha spinto a parlare proprio di questa dimensione lavorativa?
Sì, volevo cercare di dare un’idea della contemporaneità, che è secondo me uno dei compiti che si deve dare la letteratura, quello di interrogare il proprio tempo. Questo tempo è sicuramente dominato dalla tecnologia, che ha cambiato di fatto il nostro modo di pensare e di stare al mondo, e quindi ho deciso di concentrarmi proprio su un’azienda di consulenza informatica perché mi sembrava che lì potessi trovare le persone che erano in prima linea, quelli che stavano portando avanti questo cambiamento vivendolo sulla propria pelle. Ma tutti poi lo viviamo sulla nostra pelle, loro in più hanno anche il fatto che lo eseguono, lo mettono in pratica e intravedono anche meglio di noi quelli che possono essere gli sviluppi futuri, le direzioni verso cui stiamo andando. E quindi sono portati maggiormente a interrogarsi – stiamo facendo la cosa giusta? –, almeno l’imprenditore a capo dell’azienda spesso si interroga proprio su questo. Quindi sì ho scelto l’azienda di consulenza informatica per questo. L’ho scelta anche banalmente per motivi più pratici, perché un mio caro amico era a capo di un’azienda informatica…
… esatto, infatti, nei ringraziamenti citi proprio questo amico, e quindi fai emergere anche il lavoro di ricerca: è stato difficile entrare nella mentalità e nel linguaggio di questo tipo di attività?
Beh sì, io ho una formazione prettamente letteraria e quindi non è stato semplice entrare soprattutto nel gergo, nella lingua che parlano loro, che è una lingua a sé. Ogni professione naturalmente ha un proprio gergo tecnico che risulta incomprensibile per chi non fa quel lavoro. Anch’io da insegnante parlo con sigle – TFA, POF, PTOF, DSA, BES – che risultano incomprensibili a chi non è del mestiere. Devo dire che la loro lingua è particolarmente incomprensibile, proprio perché farcita di anglismi, di adattamenti dall’inglese all’italiano – a tratti anche piuttosto aberranti se devo dire la verità: usano spesso il verbo startare (e a me vengono i brividi) al posto di “avviare” o qualcosa di simile.
Non è stato semplice, ma è stato interessante, in realtà, come è sempre interessante approfondire una dimensione di cui si conosce poco. Ho trovato sorprendentemente delle persone che avevano una gran voglia di raccontarsi, proprio perché, come dicevi tu, è un mondo che è pochissimo raccontato, soprattutto dalla letteratura. C’è qualche serie tv sui nerd, sul mondo dei lavoratori e dei programmatori, di quelli che fanno coding, però di letteratura ce n’è veramente pochissima. A me veniva in mente solo Houellebecq, Estensione del dominio e della lotta, che almeno avesse un valore letterario, e poco altro. E quindi proprio per questo avevano voglia di far sapere che ci sono anche loro.
…e uscire anche dagli stereotipi che solitamente gli si costruiscono attorno.
Senti, invece, restando sempre alla questione linguistica e dello stile, dicevamo prima che tu nasci come poeta, più che come romanziere, e con Perciò veniamo bene nelle fotografie fai una transizione dalla poesia al romanzo attraverso un romanzo in versi. La mia curiosità, nel leggere il libro, è cosa ti sei portato dietro della capacità di condensazione o dei vincoli che impone la scrittura in versi nello scrivere invece in prosa?
Eh, qualche cosa direi che mi sono portato dietro. L’attenzione verso la singola parola, inevitabilmente. Il poeta ne ha poche di parole a disposizione, e quelle poche le deve scegliere con particolare cura. Mentre spesso nella prosa narrativa si va in modo un po’ frettoloso sull’aspetto strettamente lessicale, ma anche proprio legato al significante, quindi la musicalità, il ritmo. Anche la prosa ha un suo ritmo e non soltanto la poesia, quindi diciamo che questi aspetti stilistici credo siano passati dalla poesia alla prosa.
Aggiungo un altro aspetto, che è forse la commistione di oggettività e soggettività, che è una cosa tipica di molta grande poesia, soprattutto del secondo Novecento italiano, ma non solo – penso a Giudici, a Pagliarani… Il fatto di non usare un io lirico, ma proiettarsi, l’autore si proietta con una specie di slittamento del sé in figure, persone, altre maschere a cui cede però la propria soggettività. Nel romanzo ho fatto qualche cosa di simile, nel senso che i protagonisti sono distantissimi da me, però – in particolare Luciano, ma non solo – hanno anche molto di me. Quindi questa operazione forse viene dalla poesia.
A questo punto, come al solito, rivolgo una domanda leggera e banale. Se dovessi dire una caratteristica che potrebbe far vincere il tuo libro in questo premio, quale diresti?
Mah, ero in finale anche al Campiello: lì era più facile rispondere a una domanda simile, perché era l’unico romanzo sulla contemporaneità, tutti gli altri erano romanzi storici o addirittura distopici, ambientati nel futuro. In questo caso non è così, motivo per cui ho molto apprezzato gli altri romanzi che sono nella cinquina del Premio Bergamo. Quindi non posso giocarmi la carta “contemporaneità”. Non lo so… insomma… è ovvio che anche questi aspetti linguistici sono molto cari agli altri scrittori, quindi… credo che anche io sarei molto incerto se dovessi decidere. Ne abbiamo parlato prima, sono un grande estimatore degli altri finalisti… non lo so… la copertina, mettiamola così, che è l’unica cosa che non ho scelto io.