Pubblichiamo oggi l’ultima delle cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2019, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 27 aprile 2019. Franco Stelzer ha presentato il suo libro “Cosa diremo agli angeli” (Einaudi) al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.
Eccoci con Franco Stelzer finalista con “Cosa diremo agli angeli”. Un romanzo smilzo ma con una trama che aggroviglia due linee, due percorsi: uno pienamente narrativo che vede al centro un narratore, un personaggio che è un doganiere in un aeroporto in una città di provincia, e una seconda linea che possiamo definire più “riflessiva”, con un andamento anaforico e più interrogativo sul senso del personaggio e della vita. Come nascono questi due percorsi e come è venuta l’idea di costruire questa sorta di coro che accompagna la linea narrativa, interrogandola e illuminandone il senso?
Non sono nate in contemporanea. Lo spunto narrativo dipende da racconti che mi sono stati fatti su una realtà italiana, e spunti che mi interessavano ma non trovavo la linea giusta finché sono arrivato a questa figura del doganiere: un uomo stanco, che vive una fase calante della sua vita, perdita di energia e osserva. Lì è nata questa seconda voce, questo “dialogo” che dà anche il titolo al romanzo (scelto poi dalla casa editrice, non l’avevo neanche pensato così).
Nella narrazione ci sono due elementi che si concatenano e danno forma al racconto: da una parte lo sguardo, da una parte l’immaginazione. A partire dallo sguardo laterale il doganiere comincia a proiettare su questi volti e su queste persone delle storie immaginarie: cosa potrà capitare, in particolare a una persona che verrà seguita immaginariamente lungo tutto il racconto: è questo per il personaggio un modo di colmare il vuoto della propria vita, in macerie, alla sua conclusione di senso; è una spinta per proiettarsi in maniera così vivace sulle vite degli altri?
Immagino – perché poi le cose nascono e prendono una vita propria – che così colmi la sua vita abbeverandosi alle vite degli altri. Nel contempo questo diventare lettore delle vite degli altri lo innalza, come sempre quando si racconta una storia, qualsiasi esistenza acquisisce una propria nettezza, una propria icasticità che la solleva e la nobilita. Lui continua a immaginare, resistere al fatto di essere completamente risucchiato nel grigiore del suo quotidiano, che sarebbe molto grigio se non seguisse alcune strategie per rimanere a galla.
Sia una vita che immagina di questo personaggio che segue idealmente, sia una vita “analoga”, a lato, di qualcuno che che si infatua della vita di qualcun altro, di qualcuno che si mette a seguire un’altra persona: come se in un gioco di scatole cinesi non potesse mai essere la persona che vive, ma solo quella che rimane a metà. Come si fa a costruire un racconto e a coinvolgere il lettore mantenendo sempre questa posizione defilata: perché il lettore si appassiona, proiettandosi però non nella vita del protagonista ma in chi continua sempre a essere un passo indietro.
Sì, proprio così. Non sono le cose narrate in sé, ma il fatto che vengano narrate l’elemento che credo possa attrarre il lettore: è un continuo lavoro di sfasature. Forse è proprio ciò che si fa sempre quando si scrive, si è sempre un passo indietro, un passo discosti: il doganiere e il suo osservato sono infatti sempre fuori.
In questo quadro di estrema coerenza c’è però un elemento che colpisce e che crea una sorta di scarto: da un lato c’è una sorta di poetica delle piccole cose che affiora sia dalla parte in cui a narrare è il doganiere, sia nelle invocazioni a queste figure angeliche della parte più riflessiva; dall’altro lato abbiamo un richiamo a una dimensione metafisica, quella degli angeli. Come stanno insieme le piccole cose e questo bisogno di innalzamento quasi assoluto, metafisico o religioso?
Forse non sono poi così lontane: le piccole cose sono descritte nel loro valore residuale che però rivela sempre qualcosa, oppure sono piccoli gesti descritti dal punto di vista di chi cerca di metterle in atto obbedendo in modo più preciso a un compito: il lavoro fatto bene, il lavoro stesso che il doganiere svolge sistematicamente nella sua abitazione per cercare di darle una veste più adatta ad accogliere eventualmente persone che probabilmente non verranno mai. C’è sempre questa cura della cosa portata a termine, che anche quando riguarda ciò che è basso o respinto guadagna una sua compostezza, una sua dignità. E forse anche questa è una forma di resistenza estrema: “non è mi rimasto altro, ma almeno porto a termine il compito proprio come si deve”.
Ci sono dei padri nobili, dei modelli e dei riferimenti dietro a questo libro?
Chiunque può vedere chiunque. Ho letto in alcune recensioni riferimenti che mai mi sarebbero venuti in mente, ma d’altronde se sono stati visti è legittimo che ci siano e ci potevano stare. Io personalmente non ho pensato ad alcun padre nobile, cosa che non faccio mai.
Qual è la qualità o il carattere che possono far vincere questo libro?
Forse proprio il fatto che non è un libro tanto da premio, ma non ha delle caratteristiche che normalmente credo possano possano essere attribuite a un libro da premio: non ha una trama forte, non ha personaggi dai contorni netti, non ha nemmeno nomi…