Lo scorso settembre abbiamo pubblicato una puntata di #botta&risposta – rubrica curata da Davide Castiglione dedicata alla raccolta poetica Il sogno di Pasifae di Marco Malvestio, pubblicata all’interno del libro a sei mani Hula Apocalisse (Prufrock Spa, 2018). Abbiamo deciso di pareggiare i conti, affrontando nello stesso modo (uno scambio epistolare tra critico e autore) le altre due raccolte che compongono il libro. Eccezionalmente, in queste due puntate la parte del critico non sarà svolta da Davide Castiglione.

Si parte con Affeninsel di Roberto Batisti, in dialogo con Lorenzo Mari.


Caro Roberto,

ti scrivo a proposito della tua Affeninsel, parte prima del triplice libro Hula Apocalisse, firmato insieme a Marco Malvestio e Francesco Brancati e pubblicato nel 2018 da Prufrock Spa. Ti confesso: non ho mai avuto modo né voglia di giocare a Monkey Island, il videogame a cui si riferiscono il titolo della raccolta e quello dell’ultimo testo (prima in tedesco, poi in francese: un vezzo nobilitante?) e non mi ci metterò proprio adesso che l’Amiga ha fatto il suo tempo. Anzi, mi scuserai se mentre scrivo questa metto a scaldare l’acqua per mangiarmi una pasta al tonno, come tu stesso scrivi a pagina 17, strappandomi il sorriso largo e amaro della condivisione, da ex-fuorisede a Bologna che tende comunque, strenuamente, a perpetuare la mitologia felsinea che ci ha condotto fino a qui.

Qui dove? Chiedo, a te e a me, riempiendo d’acqua la pentola. Siamo davvero sull’isola (o sul pianeta?) delle scimmie, in questa tua prima raccolta organica che si presenta da subito come «un esercizio di contemplazione della storia umana (antica) come malinconica allucinazione o come ‘videogioco indicibilmente triste’» (p. 6)? Non cogliendo la citazione del virgolettato – Google non mi dà risultati affidabili e mi rinvia a siti e forum su videogiochi che, proprio come Monkey Island, non mi intrigano affatto – mi soffermo sull’inciso parentetico: «storia umana (antica)». Sono poi utili quelle parentesi a circondare un aggettivo? Parrebbe di no, a prima vista, ma utili lo sono, se si legge tutto il testo, dove note a margine (e sopra e sotto) e perifrasi e citazioni svolgono lo stesso ruolo ambiguo.

L’acqua bolle. Di solito, l’acqua che bolle non è cosa ambigua, ma di per sé è poco interessante. Molto più avvincente, allora, scendere nel dettaglio di quest’opera: cercare di capire dove siamo (ma anche no, perché alla successiva domanda «dove andiamo?» non abbiamo molte risposte, mentre fortunatamente alla chiosa woodyalleniana «cosa si mangia?», sì possiamo rispondere: pasta al tonno) e perché le spiegazioni abbondino, ma non riescano ad assolvere la funzione che ci si potrebbe immaginare loro propria.

Le note, in particolare, occupano anarchicamente lo spazio della pagina e sono squarci «di storia (antica)» o estremamente contemporanea, subito ricomposti dalla brevità della funzione testuale svolta. Vanno dalle «iscrizioni antico-persiane dei sovrani achemenidi» (p. 19) a «certi personaggi minori dell’opera di F. Scòzzari» (p. 20), talora completando talora creando ulteriori voragini nel testo poetico. Quest’ultimo, probabilmente, non è il testo che si dovrebbe principalmente leggere, come indica l’uso del maiuscoletto nelle note; non è, almeno, da leggersi in isolamento rispetto ad un apparato che è doppiamente para-testuale. Più precisamente, sia il testo poetico che le note sembrano elementi paritetici di una filter bubble o di una echo chamber che, di volta in volta, riguarda le cerchie dei filologi classici, dei poeti contemporanei, dei videogamers e di altri gruppi ristretti. Al di fuori di un pubblico limitato, chi può convenire con il fatto che la poesia di Federico Italiano sulla migrazione dei granchi giganti sia «celebre» (p. 9)? Allo stesso modo, per chi è «ovvia l’allusione a Hegel» delle «metafisiche nottole» (p. 28)? Hegel, Scòzzari, Federico Italiano, gli Achemenidi, Ron Gilbert, etc.: che non ci siano gerarchie di valori estetici e politici, né movimenti dialettici, in questo remix che tende all’appiattimento e che rende mimeticamente i processi culturali dell’epoca contemporanea, è un effetto inquietante che perdura ben oltre la lettura.

Io salo. O Salò?  Del resto, «la belva si fa uomo a morsi e a calci» (p. 10), con la lettura di Cioran a rincarare, e più chiaramente, più avanti, «i Gérmara segnalati dai periegeti, | sentina di blatte o nidiata angelica, cantano heils, scapia matzia ja drincan | und morgen die ganze Welt» (p. 26). Dico più chiaramente, anche se il plurilinguismo à la Villa Emilio tende momentaneamente a oscurare i riferimenti intertestuali, poi parzialmente esplicitati in nota, con usuale, perturbante, ambiguità: al penultimo verso, in lingua gotica o più probabilmente, vandalica, segue l’ultimo verso che è costituito invece da una citazione dalla canzone nazista Es zittern die morschen Kochen di Hans Baumann.

Forse è il caso di aggiungere sale e togliere un po’ di quel che si salò. Da un lato, infatti, manca un movimento temporale che rimetta i riferimenti in prospettiva, negando ogni possibilità ad una funzione critica, o politica, ben riconoscibile. O forse, più semplicemente, sono io che non riesco a rintracciare questo filo, impaniato come sono in un linguaggio che è stratificato, certo, ma che non giova ad una lettura che si collochi, o che si voglia collocare (il gesto è diverso e uno dei due, almeno, denota falsa coscienza) fuori dalla echo chamber, a tratti estremamente individualizzata, dell’autore (se poi questa esiste, eh).

D’altra parte, mi si propone come una sfida da accettare in toto, questa: una rincorsa, un percorso indiziario di ricostruzione, una ricerca di metodo almeno embrionale – da applicarsi poi quando si inizia una nuova partita di Monkey Island o, per restare aderenti a Hula apocalisse, quando si prosegue nella lettura di questa triplice opera. Si ricomincia ogni volta, infatti, sia nei confronti de L’inesploso di Francesco Brancati sia con Il sogno di Pasifae di Marco Malvestio, però il tono è sostanzialmente, con le variazioni del caso, quello cui si accorda Affeninsel.

È un giusto inizio, dunque, il tuo, Roberto, ma i fusilli impiegano dieci minuti a cuocere per risultare al dente (mai violare il comandamento della pasta al dente, anche se è pasta al tonno!), dunque mi affretto a concludere. Torno su alcuni versi che possono rendere conto del polimorfismo metrico e del plurilinguismo dei tuoi testi: «a refoli salivano | dalle provincie i tecnici del verso | con distici e cesure, | per cagliare gli aggettivi | e forgiare dal tuo corpo | uno scafo vittorioso” (p. 21). Ecco, nel discostarsi ironicamente da questo provincialismo, Affeninsel resta comunque, dolorosamente, una provincia dell’impero (non si sa di quale popolo: forse perduto, forse a venire) e questa, più che una sconfitta, nell’atto della lettura, è una prova di quanto possa essere forte la presa di un testo così stratificato e superficialmente ostico su un lettore.

(Tipo me.)

Mangerò pasta al tonno, decisamente e felicemente inquietato.

(Buon appetito a me, dunque.)

E salutami Marco Bin.


 

Caro Lorenzo,

ti ringrazio, anzitutto, per la lettura attenta e critica che hai riservato alla mia raccolta. Il ringraziamento non è solo formulare, perché avevamo il forte sospetto d’aver messo insieme un libro, se non illeggibile, irrecensibile.  La tua nota mi dimostra che così non è, e anche le perplessità che non dissimuli mi confermano che il testo produce gli effetti che intendeva produrre, fra cui spiccano inquietudine e disorientamento. Al tempo stesso, non pensavamo che sarebbe risultato così tanto ostico anche ai lettori più preparati: sento dunque, anche in seguito a questa tua, il bisogno di chiarire alcune scelte alla base del nostro esperimento. Sono ammirato, inoltre, dall’aver cagionato col mio scritto bizzarro la memorabile bizzarria di un’epistola critica ritmata sulla cottura della pasta. Proverò a risponderti sviluppando alcuni degli spunti che hai offerto, sperando che la mia replica non si adagi piuttosto sui tempi di preparazione della cima alla genovese.

Inevitabile partire dal tratto più caratterizzante e – le reazioni ricevute ce lo vanno confermano – spiazzante, ovvero le note. Come hai giustamente osservato, esse raramente sono fedeli alla propria missione chiarificatrice, ed è innegabile che a volte si divertono a depistare, o esercitano una presa di distanza autoironica dai testi; ma, più in generale e più seriamente, direi che servono a problematizzare, a far emergere tutto il lavorio che precede, circonda e segue l’atto della scrittura, e che può forse oggi costituire un contributo più interessante della scrittura stessa. In molta poesia sperimentale o ‘di ricerca’, invero, questo lavorio è tematizzato ed esibito in una scrittura che si presenta franta, contraddittoria, o esplosa: ma questo avviene di solito nel testo stesso, mentre noi abbiamo scelto di farlo (anche/soprattutto) tramite un paratesto aggiunto a posteriori a dei versi che in sé, per quanto referenzialmente oscuri, sono (fin troppo) compiuti e conclusi.

Il primo nucleo di note nacque a uso mio personale. I testi di Affeninsel risalgono a quasi dieci anni fa, quando studiavo Lettere Classiche (con un indirizzo già glottologico), e incorporavano inevitabili spigolature da ciò che leggevo e che affollava il mio universo mentale – in una maniera giocosa e fantasiosa, a tratti balorda, ché anche allora non intendevo affatto fare un uso esornativo e pedantesco della cultura letteraria e delle allusioni classiche. Riprendendo in mano quei testi dopo nove anni (giusta il precetto oraziano…) mi sono reso conto di quanto però le allusioni, proprio perché oblique e non canoniche, riuscissero ormai oscure a me per primo. Di qui l’idea dell’annotazione, e poi la scelta di espanderla e promuoverla a testo sullo stesso piano delle poesie.

Compiuta tale scelta, non nego d’essermi abbandonato all’horror vacui, nello spirito del grande studioso bizantino Giovanni Tzetzes, che nel suo commento ad Aristofane ammette di essersi dilungato in una nota solo perché bisognava riempire la pagina. E in effetti abbiamo forse prodotto il primo libro di poesia italiana contemporanea già munito di veri e propri scholia marginali, per la gioia dei filologi e il torcicollo dei lettori.

Vorrei però ribadire che l’operazione non è una gimmick per far parlare di Hula Apocalisse, o un maldestro tentativo di gareggiare con DFW e le sue note alle note. Anche osservare che si tratti della deformazione professionale di giovani studiosi abituati a redigere tesi e articoli scientifici sarebbe poco più di una battuta (sebbene certo Hula Apocalisse sia inter alia anche l’opera di tre autori che cercano di fare dello studio il loro mestiere, vivono volenti o nolenti immersi in un certo tipo di cultura, e non sentono il bisogno di nasconderlo. Come tutte le etichette basate su categorie anagrafiche o sociologiche, tipo ‘scrittura femminile’, ‘scrittura under 35’ o ‘scrittura dei migranti’, trovo che serva poco a capire l’opera, ma non la rifiuterei).

L’unica allusione in nota di cui mi sono pentito è proprio quella (ante rasuram!) a Bello Figo $wag, che ha suggerito il Leitmotiv della tua lettera e non è sfuggita neanche al nostro primo recensore, Roberto Gerace: troppo facile, troppo pop, induce inevitabilmente a vedere nel gioco di Affeninsel (e di Hula Apocalisse tutto) una ludicità goliardicamente postmoderna, un sabotaggio della cultura ‘alta’ con quella ‘bassa’, che – per il resto – mi sembra assente. Non penso infatti che il fumetto d’autore come quello di Filippo Scòzzari o il videogioco pure d’autore come le avventure grafiche della Lucasarts (e in particolare i primi due Monkey Island del grande narratore Ron Gilbert, capolavori di comicità surreale e di gameplay cervellotico, certo, ma a modo loro non ignari del favoloso proprio di ogni storia di pirati che si rispetti: te li consiglio!) siano oggi considerabili fenomeni subculturali, o tantomeno ‘trash’, come scrive Gerace.

(Tant’è che in un’altra nota, a p. 10, osservo di aver impiegato nel testo l’aggettivo catafratto «prima di Diprè, quando si poteva usare», e qui non v’è il minimo ammiccamento al trash internettaro: sono sinceramente rammaricato che le risonanze del termine siano state successivamente inquinate, per un lettore italofono, dall’uso scemo popolarizzato dall’Avvofatto.)

Seguendo Marco Malvestio (che ha contribuito al libro con un testo tanto diverso, e tanto migliore, del mio – ma mi fa piacere che le misteriose e profonde consonanze fra le tre sezioni esistano non solo nell’intuizione dell’editore, sì anche nella percezione del lettore avvertito), rivendico l’affiliazione del mio esperimento alla tradizione del Modernismo, senza post‑.

La mescolanza infatti non vuole sortire effetti grotteschi, né contestare l’esistenza di gerarchie qualitative tra prodotti artistici differenti, ma è riflesso spontaneo dell’educazione intellettuale e sentimentale delle persone della nostra generazione, dove le letture erudite si affiancano alquanto naturalmente all’influsso formativo di media meno tradizionali. Le note dovrebbero servire come una sorta di ipertesto che apre spiragli sull’universo spirituale e culturale di chi ha scritto i versi. Dici benissimo, insomma, che ci sia qui una mimesi dei processi culturali contemporanei: ma non trovo che sia, o che dovrebbe essere, in sé inquietante.

In aggiunta a ciò, in alcuni e solo alcuni testi (vedi p. 17 con relativa nota) lo sguardo simil-videogioco che adotto serve a inquadrare certi aspetti grotteschi della storia da una prospettiva inusuale e a porne in rilievo la violenta gratuità. Un piccolo tentativo in linea, non a caso, con diversa poesia recente che cerca di rispecchiare a livello non contenutistico certe ristrutturazioni cognitive apportate dall’informatica e dai mondi virtuali.

Vengo ora ad altre cause dello smarrimento da te segnalato, e in particolare alla mancanza di «un movimento temporale che rimetta i riferimenti in prospettiva, negando ogni possibilità ad una funzione critica, o politica, ben riconoscibile». Devo ammettere che l’osservazione iniziale mi lascia perplesso. Il movimento temporale è, in realtà, l’unico tratto sostanzialmente lineare della raccolta, che muove (nella misura in cui i referenti sono identificabili) da riflessioni sull’evoluzione dell’uomo e sulla preistoria, a flashes sulla nascita e il crollo delle prime grandi civiltà, ad atmosfere da tardo impero e poi d’invasioni barbariche. Capisco anche, di fronte alle allusioni a una cultura e una filosofia della crisi tipicamente ‘di destra’ (da Spengler a Cioran, a Benn che molto leggevo quando scrivevo questi versi), le preoccupazioni che esprimi sull’ambiguo posizionamento politico. Basti dire che quelle suggestioni mi tornavano utili, e quasi naturali, per dipingere appunto quel clima di decadenza e per caratterizzare lo sguardo di chi parla nei versi – uno sguardo che ha qualcosa d’aristocratico, nostalgico, probabilmente morboso, e che ovviamente non è deputato a esprimere in modo letterale le idee o le sensibilità dell’autore. Se nello stesso volume Malvestio fa parlare Pasifae, indossando una maschera mitologica ben determinata, nei miei testi brevi e tanto più impersonali è difficile dire se si esprima un preciso qualcuno, né se quel qualcuno sia sempre lo stesso. Una chiave parziale, in realtà, c’è, ma al solito dissimulata (anche perché a mio avviso non necessaria): a p. 20 presento un Frammento («letteralmente» tale) d’un mio vecchio e inedito eteronimo, lui sì parodicamente reazionario e decadentista. Infatti il testo, a marcare l’irruzione d’una voce altra, è in corsivo. Ma la «strana figura di seduttore pancronico» che lì parla mi sembra parente di quelle, più sfumate, che percorrono Affeninsel. Così come Pasifae, e come l’Inesploso di Brancati, questa voce non è la mia ma cerca d’esprimere qualcosa che sta a cuore a me, e potrebbe stare a cuore anche ai lettori.

In ultima analisi non posso però negare di aver composto un’opera estremamente personale, in cui anche la spinta (auto)esegetica all’annotazione si accartoccia su sé stessa; se, anche grazie all’accostamento con i versi di Francesco e di Marco, qualcosa emerge dall’oscurità per arrivare al lettore posso dirmi soddisfatto. L’obiettivo che invece non ci siamo posti è quello di scrivere un libro generazionale. Sento però che esiste una certa tendenza a leggerlo in questo modo, forse per un’esigenza già latente nella critica, forse per la difficoltà d’inquadrarlo altrimenti, e non nego che questa lettura abbia degli appigli. Abbiamo scritto la poesia del tardo capitalismo al tramonto, la poesia della classe disagiata™? Può darsi, anche se non era questa l’intenzione né ce n’era bisogno (già il celeberrimo libro di RAV, che a differenza del nostro non ha le note, è di fatto un poema travestito da saggio).

Nel mio caso, la fissazione sui «risvolti foschi, sanguinarî o grotteschi» della storia nasceva in tempi non sospetti dall’incrocio fra la mia vocazione di antichista (il crollo dell’Impero Romano d’Occidente continua effettivamente a dispiacermi) e di un temperamento soggettivo pessimista, malinconico. Ma anche se non abbiamo puntato a una poesia engagée nel senso di un posizionamento esplicito sull’attualità scottante, le consonanze con l’oggi ci sono e non del tutto a caso. È percezione ormai diffusa che viviamo in un’epoca in cui la storia non può non apparire come un succedersi assurdo e tragicomico di disastri: insomma, una timeline sbagliata, concetto su cui si sprecano ultimamente non solo i memi ma pure le riflessioni filosofiche.

In questo Gerace non sbaglia, anche se a mio avviso sbaglia nel vedere la «intenzione di concorrere, con tetro compiacimento, all’aria di smobilitazione che spira da molte immagini», quasi fossimo dei disfattisti. Non c’è invece compiacimento, ma sincera angoscia, e casomai disperato rifugio in un passato semi-immaginario, trasognato, che però riserva nelle sue insensate tragedie una prefigurazione delle angosce del presente. Né l’Apocalisse è per noi «una consumata arcadia» che ispira «poesie scritte sul banco nell’ora di Filologia italiana»: nell’ora di filologia casomai prendevamo appunti, e penso che questo emerga dall’impegno stilistico (linguistico, metrico) che anche tu mi riconosci. Per questo non sono d’accordo sul «senso generale di svendita, […] di un’intera generazione che ha perso per strada le sue verità, se mai ne ha avute» (Gerace) o sulla “sconfitta” che tu evochi, sebbene per denegarla: perché non vedere proprio nella nostra fiducia nella forma (non come orpello, ma come conquista di un arduo labor limae) e nella nostra attiva accettazione della complessità il segno che non ci diamo sconfitti e non rinunciamo a cercare delle verità?

O forse ho soltanto peccato di vanità, scrivendo il genere di libro che io avrei voluto leggere. Da studioso dei monumenti linguistici di civiltà antiche, aver scritto qualcosa che sembra provenire dalla remota provincia di un «popolo forse perduto, forse a venire» è davvero la riuscita migliore che mi potessi augurare.

(Marco Bin ricambia i saluti, e io da buon accademico faccio anche i soliti disclaimer sul fatto che con tutto il suo amorevole supporto non è responsabile di nessuna delle sciocchezze che posso aver scritto in, e su, Affeninsel).

R.B.

Bologna, 28/02/2019

POST SCRIPTUM, su un punto di dettaglio. La citazione di p. 6 traduce un sintagma («some unspeakably sad video game») usato in una recensione della hipsterissima rivista Pitchfork e citato per la sua ridicolaggine dal critico musicale Peter Menz. Sintagma rimasto casualmente impresso nella mia memoria e che mi tornava utile per caratterizzare la poetica della mia raccolta. Non segnalare la fonte della “cit.” da me dichiarata, né che l’avevo volta in italiano (così come ho invece volto in tedesco e francese il titolo Monkey Island) è uno dei piccoli depistaggi, delle consapevoli sbavature con cui cerco di far sì che questo oggetto misterioso resti comunque un oggetto d’arte e non un saggio accademico. (Anche la prefazione, come le note, fa parte dell’opera).