Lo scorso settembre abbiamo pubblicato una puntata di #botta&risposta – rubrica curata da Davide Castiglione – dedicata alla raccolta poetica Il sogno di Pasifae di Marco Malvestio, pubblicata all’interno del libro a sei mani Hula Apocalisse(Prufrock Spa, 2018). Abbiamo deciso di pareggiare i conti, affrontando nello stesso modo (uno scambio epistolare tra critico e autore) le altre due raccolte che compongono il libro. Eccezionalmente, in queste due puntate la parte del critico non sarà svolta da Davide Castiglione. Qui lo scambio precedente tra Roberto Batisti e Lorenzo Mari.

Concludiamo oggi con Maria Borio in dialogo con Francesco Brancati.


Caro Francesco,
ti scrivo dopo un viaggio fuori dall’Europa, nella distanza di tempo che basta per poter riflettere sulla tua raccolta, L’inesploso, sul libro che la contiene, Hula apocalisse (Prufrock 2018), forse su alcuni fenomeni della poesia italiana che mi sembra raccontano anche molte cose del nostro paese. Appena tornata sono a Milano, al Laboratorio Formentini. Dobbiamo illustrare lo stato della poesia in rapporto alla rete, sondare il corpo e la voce della rete, come ingloba e restituisce la letteratura. Se guardiamo i sistemi ideologici che hanno preceduto la nostra generazione, dal punto di vista letterario e dal punto di vista politico, non è affatto un male che le ultime parole di questo incontro non siano state assertive. Nulla è certo; proprio perché nulla è certo, quanto è importante, oggi, saper attraversare l’esperienza per portare alla luce delle idee, una visione…

Vedo il nostro paese e le sue voci con un occhio fuori e un occhio dentro. L’occhio che è dentro mi fa considerare la tua raccolta e il libro che la contiene parti di una catena di scritture sperimentali, con una ricerca formale e speculativa elaborata che potrei subito incasellare in una precisa tradizione. L’occhio che è fuori mi spinge ad aprire la genealogia di questa tradizione, a riflettere su come una serie di libri di poesia usciti in Italia di recente aprano un bisogno che, mi sembra, molti non sono più abituati a chiedere alla letteratura, all’arte. Ecco, cercando di trovare un rapporto tra la poesia e il contemporaneo, questo rapporto ci può far calibrare il peso di quello che sa produrre visione rispetto alla serialità e alla tecnica asettica? Almeno dal duemila, l’arte vive di ibridi e contaminazioni, ma soprattutto di attitudini per cui la cronaca del sé ha disossato il corpo della lirica. L’arte, oggi, si pone il problema di una visione, di un immaginario? Riflettere sulla poesia vuol dire bucare la crosta superficiale della referenzialità, che pretende di fare della vita documentari oggettivi, e dell’autoreferenzialità narcisistica; pensare che un’opera d’arte non funziona come uno schermo, una rete, dove sono trascritti i dati di quello che accade o di quello che si sente, ma come un campo di relazione. L’energia di un’esperienza che si trasfigura, si apre, parla, può farci scoprire una nuova idea di umanesimo, e insisto su ‘nuova’ rispetto a quella classica della cultura occidentale? Un immaginario poetico è oggi veicolato in varie forme che travalicano i confini della letteratura. Ma il linguaggio letterario sa, vuole, è messo nelle condizioni di produrre un vero immaginario? Ci sono contesti, europei ed extraeuropei, in cui la letteratura si mette alla prova con la produzione di un immaginario. L’Italia si mette alla prova?

Parto da questa domanda perché il progetto di Hula apocalisse e la tua raccolta, L’inesploso, mi sembra abbiano provato a mettersi alla prova. Allora, fin dal titolo del libro, che raccoglie, insieme alla tua, le raccolte di Roberto Batisti e Marco Malvestio, e che mesi fa mi faceva pensare a una utopica landa di distruzione, dove al posto della natura crescono atomi e strutture di linguaggio, scomposti, lacerati, che gridano, ho intravisto alcune prospettive. Che cos’è Hula apocalisse? Un libro a tre voci che attraversano l’estremo contemporaneo con una lingua che collassa di continuo e si rigenera rispondendo a un bisogno di immaginario. La biografia è allacciata alla storia, il quotidiano alla letteratura, il personale al non personale, i sentimenti alla pornografia, l’identità alla non identità, il diario nudo e fragile alla citazione. Ciò avviene squarciando sempre i limiti del referenziale attraverso la forma, lo stile. La complessità dello stile – la sua difficoltà o oscurità – deforma anche l’attenzione del lettore, come una vernice, a volte calda a volte gelida, che cola e apre percezioni dentro altre percezioni, trapassa i corpi, gli spazi della vita quotidiana, gli schermi dei cellulari e dei computer, gli ambienti e i ricordi. Hula apocalisse graffia le cose per spingerci alla ricerca di un immaginario. Non so se, alla fine, le tre raccolte riescano fino in fondo a costruirlo, ma mi pare che il tratto sperimentale che le accomuna profondamente sia questo bisogno.

L’inesploso prova a farlo decostruendo, interrogando e restituendo il rapporto tra il linguaggio e la realtà come nel flusso di una radiazione cosmica. È un tracciato dove poetica e meta-poetica sono sempre speculari. C’è una parte naturale, organica e una speculativa, intellettuale: si compenetrano. La seconda deforma la prima in modo da mantenere sempre attivo uno spasmo attraverso la lingua, la sintassi e il ritmo, ma soprattutto far sì che la scrittura sia sempre attraversata da un’interrogazione ambivalente: il linguaggio può tradire il mondo, il mondo può tradire il linguaggio («poi è sempre un’isola tradita / la lingua che trattieni con l’inganno»)? E tanto il linguaggio quanto il mondo hanno una fisionomia interscambiabile di fronte alla quale siamo posti come davanti al «fracasso» di un «assedio»: sia il linguaggio sia il mondo sono quelli della vita interna, intima, individuale, così come della vita esterna, spersonalizzata, sociale. In un continuo contraccolpo tra le parti, L’inesploso sfibra la grammatica. Ad una prima lettura, la scrittura fa pensare ad Amelia Rosselli: ma il suo sperimentalismo è soprattutto psichico; invece, la ricerca di questa raccolta è fonica, fisica, chimica (o neurochimica), come se le sillabe e le parole fossero cellule o materia dello spazio, particelle che rimbalzano dalla prima alla quarta dimensione. Le poesie sono dedicate ad Antonio Moresco. La Rosselli ha un immaginario psichico, Moresco ne ha uno visionario. In modi diversi, entrambi fondono introflessione ed estroflessione. Sembra di sentirli attraverso i testi come le radici di un iceberg.

Lo stile complesso è una necessità radicale di questa poesia. L’inesploso è denso, stratificato, oscuro in molti passaggi. L’oscurità è una delle caratteristiche che in poesia hanno generato fascino e reticenza, stupore e perplessità, vortici emotivi e fredde astuzie intellettuali. L’oscurità è anche una delle caratteristiche di tutte e tre le raccolte di Hula apocalisse. Il fatto che quasi ogni poesia sia accompagnata da una nota, non esplicativa ma che genera un doppio livello di significato nel testo, aumenta l’oscurità di una scrittura già di per sé difficile rispetto ad una immediatamente fruibile: la rende straniante, ironica, come nella letteratura postmoderna, che nella poesia italiana non ha avuto larga diffusione. Ma l’oscurità del libro va ben oltre l’ironia. È anche diversa da quella difficoltà della poesia erede della Neoavanguardia e dalla poesia ‘di ricerca’ sul modello di Gleize. La Rosselli e Moresco sono autori da molti punti di vista ‘oscuri’. Per te quale valore ha l’oscurità nell’arte contemporanea? Rileggendo L’inesploso e i suoi contraccolpi tra linguaggio e mondo, credo di aver trovato una spiegazione dell’oscurità anche nello stile come necessità radicale. Lo stile è pensato attraverso giustapposizioni semantiche. C’è un primo livello che sembra piano, scorrevole: nessuna infrazione, nessuna torsione violenta come nella Rosselli. Poi c’è un secondo livello dove, ad esempio, vicino a un sostantivo apparentemente neutro, innocuo, compare un aggettivo o un verbo inconsueto, improprio, che trasforma quel sostantivo in una parola non più innocua: il giallo dei lampioni è «enfiato», un abisso è «sbrecciato di occhi», lo spasimo «interstardiva». L’effetto è di una lingua setacciata con il bisturi che «procede per sinapsi», rovescia un livello semantico nell’altro e riversa un sostrato metrico in uno ritmico («quando prova a farfugliare la rima / male con fiume, una frazione / di luce») che fa rimbalzare le sillabe tra loro come «lenti soniche».

Leggendo attraverso queste lenti sembra di vedere una prospettiva concava e una convessa che si scambiano incessantemente o, dal punto di vista fonico, come dice una delle tue note a margine, ascoltare i Throbbing Gristle suonati dai Cocteau Twins. C’è un circuito di doppia tracciabilità iniettato tra le parole, il ritmo favorisce la doppia conduzione. La scrittura è un ibrido di acqua che vortica e ferro che risuona, entrambe materie con elevata conducibilità elettrica. La doppia conducibilità buca la realtà e i suoi paradigmi, la fa implodere e vorticare dentro di noi, dalle certezze della realtà ci porta verso la possibilità della visione o, meglio, verso la complessità della verità: «l’attesa del vero uccise il reale». Anche Hula apocalisse forse cerca un immaginario non più di realtà, ma di verità? Non so… C’è bisogno di tempo e di trovare una comunità di voci più estesa che risponda. Salutandoti ti chiedo se il problema della verità può essere una strada per la poesia dove mettersi alla prova e produrre immaginario. Non è anche una forma di politica, in fondo?
Con affetto,


 

Maria

Milano, 30 settembre 2018

Cara Maria,

Anch’io ho atteso e riflettuto a lungo prima di rispondere a questa tua attenta analisi in forma di lettera su Hula apocalisse e sull’Inesploso; la distanza temporale ha agito da cassa di risonanza per le tante questioni che sollevi e che, mi sembra, vadano oltre il discorso strettamente poetico e letterario sull’opera. Fin da subito, anzi, vorrei dirti che posso ritenermi soddisfatto se il libro che ho scritto insieme a Roberto Batisti e a Marco Malvestio ha suscitato in te una riflessione più ampia del consueto formulario sui poeti e sulle loro biografie che, in alcuni casi, sembra voler esaurire il discorso critico e in altri addirittura sostituirsi a esso. Dire qualcosa in più sul mondo attraverso l’esperienza: non si tratta dell’aspirazione intima e ingenua riposta in fondo a ogni creazione artistica? Al netto delle scuole, dei pensieri, degli stili, dei travestimenti e, infine, ancora alla base di quei sistemi ideologici di cui tu constati con sollievo la fine (e sul cui tramonto non riesco invece a essere così sereno) permane oggi, in maniera più problematica di quanto non avvenisse in passato, la necessità di ristabilire il valore del principio fortiniano intravisto nelle tue parole. Nulla è sicuro, neanche l’assunzione di una posa vicina all’orizzonte di attesa del lettore garantisce sulla sincerità (e sul valore) di una visione aderente all’esperienza del soggetto. Ciò nonostante occorre scrivere, ricollocare l’atto della poesia al di fuori del principio egotico della referenzialità per riuscire a realizzare un campo di significati e, appunto, una visione.

Mi chiedi se attraverso la ricerca di un rapporto tra la poesia e il contemporaneo sia possibile stabilire che cosa è in grado di generare una visione rispetto alla riproducibilità delle scuole e degli incasellamenti. Io penso che questo interrogativo debba sempre risiedere alla base di ogni scrittura, costituirne il nucleo a partire dal quale il poeta struttura e definisce il proprio immaginario e la propria intonazione, operando, attraverso lo stile, una selezione del materiale (psichico e collettivo) che rende credibile la sua poetica e, di conseguenza, autentico e trasmettibile all’esterno il complessivo sistema della sua opera. Non posso smettere di credere che esistano messaggi scambiabili (come direbbe Dal Bianco [1] ) e che la poesia sia uno dei modi (forse il principale?) per trasmettere il non altrimenti trasmissibile. Immagino che, in fondo, questa funzione rimanga attiva anche in quelle scritture che tu chiami sperimentali, nonostante la progettualità e il sentimento di appartenenza a un gruppo o a una tradizione rendano talvolta meno riconoscibile allo stesso poeta tale evidenza, mediata dall’ideologia. In questo senso, allora, penso anch’io che interrogarsi sulla poesia (non solo lirica) voglia dire «bucare la crosta superficiale della referenzialità», purché la disposizione assunta da chi sceglie di dedicarsi a tale compito rimanga quella di un’assoluta sincerità, direi implacabile soprattutto verso se stesso e le proprie miserie, e nei confronti del mondo. È chiaro, poi, che quando a prevalere sono interessi di scuderia «il campo di relazione» diventa uno strumento di collocamento all’interno delle filter bubbles di Facebook e di Instagram, tutti questi discorsi vanno a farsi benedire e tu e io ricaveremmo molto più utile e diletto da una ritemprante passeggiata primaverile. Non sono affezionato all’idea di un nuovo «umanesimo» e al corollario di contenuti, forme e idee che questo termine (pur rifunzionalizzato) sembra inevitabilmente evocare; penso che il Novecento abbia disvelato a sufficienza l’ingenuità (quando non la vera e propria malafede) insita nella messa a punto di una concezione del mondo antropocentrica. A incuriosirmi sono semmai esperimenti di travalicamento delle categorie di pensiero ereditate dal tardo Ottocento con cui spesso continuiamo a rapportarci ai fenomeni artistici (penso, nel romanzo, a opere come quelle di Cărtărescu, di Volodine e, appunto, di Moresco).

È possibile realizzare in poesia un simile movimento di disposizione dei piani? qualcosa che, come tu dici, sia sintesi dell’«energia di un’esperienza» che, aprendosi al contemporaneo, «trasfiguri», senza epifanie e allegorie di sorta, la semplice sommatoria di dati di contesto e biografici e di verosimiglianze storicamente determinate in un discorso strutturato in grado di produrre, appunto, un immaginario? Non saprei rispondere a questa domanda se non dopo essermi interrogato sugli ipotetici referenti di questo discorso che, in uno spazio così contratto come l’attuale campo della poesia, finiscono in buona parte a coincidere con gli stessi ‘produttori’ di poetiche e di correnti (i ‘lettori ideali’ cui pensiamo di rivolgere i nostri ‘immaginari’ sono, a loro volta, autori, lettori, critici accademici e militanti, organizzatori culturali, ecc.). Da più parti si è detto per tempo della crisi del mandato sociale della poesia, che corrisponde a una generale e ben più preoccupante assenza di valori condivisi a livello politico e comunitario (che non siano quelli intercettabili dal puro mercato). All’assunzione di questa consapevolezza da parte dei soggetti coinvolti, non mi sembra abbia sempre fatto seguito un ripensamento sincero delle motivazioni alla base delle singole necessità di scrittura (con belle e recenti eccezioni che iniziano a creare un sistema in grado di non disperdere in singole iniziative le forze di un percorso che può essere condiviso). Il tentativo di creazione di un immaginario, a mio avviso, dovrebbe sempre tenere conto di questo duplice circuito e «bisogno»: da un lato, il processo di elaborazione alla base necessita di una forma di nudità verso l’esperienza che consente alla componente etica della comunicazione letteraria di manifestarsi e di prendere forma secondo il tragitto di volta in volta inseguito dal singolo poeta; su un altro versante, però, il movimento verso l’esterno (in cui è implicita una tensione politica) consiglia di abbandonare l’immagine monadica di un io poetico condannata dall’ultimo secolo e mezzo di storia del mondo all’insignificanza anche in quei casi in cui la sua visione suggerisce un profilo di finta orizzontalità.

Con L’inesploso mi è parso fosse possibile suggerire una fra le tante plausibili chiusure del cerchio, una tensione appena fuori il dicibile motivata da una istanza conoscitiva personale che tenta di costruire un dialogo con alcune costanti dell’esperienza collocabili all’interno dell’orizzonte percettivo del singolo individuo. In una fase storica in cui una condizione compiutamente postumana appare quanto mai presente nello spazio percettivo del presente, lo specifico della poesia credo possa strutturarsi intorno al quesito su cosa farne di quella «povera umana gloria» [2] , della residuale componente umana, storica e biologica, rimasta sul fondo dell’esperienza di ciascuno di noi (in questo senso, allora, la parola poetica sarebbe la ricerca di una forma estrema di consapevolezza). Mi fa piacere, quindi, che tu abbia individuato nel «rapporto tra il linguaggio e la realtà» uno dei principali tracciati della raccolta; una riflessione a riguardo, basata su modalità non argomentative ma legate alla consistenza ritmo-timbrica e fonica della parola e del verso, è stata senza dubbio uno dei vettori che hanno maggiormente indirizzato la scrittura dell’Inesploso. Così come mi trovi d’accordo sulla natura «fisica» e «neurochimica» della mia ricerca: tentare di rinvenire, attraverso le sedimentazioni e gli strati di accumulo del linguaggio, una verità (non orfica, non epifanica, non nichilistica, non ‘modernista’) della materia mi sembra sia compito specifico della poesia e che anzi tale azione possa configurarsi come atto di interpretazione e di resistenza nei confronti del presente, collocabile a livello ideologico e politico tanto più che «il linguaggio può tradire il mondo» e «il mondo può tradire il linguaggio». Per Amelia Rosselli poesia significava appunto «riuscire a trasmettere questa esperienza del reale collettivo» [3] attraverso una ricerca sul linguaggio e sul ritmo che è di natura personale (come «l’esperienza», anch’essa unica «perché è anche di altre persone» [4] ) ma che aspira a individuare un continuum biologico con altri esseri viventi, «la parola che esprima gli altri» [5] . Mi rendo conto della parzialità di questa visione e del suo carattere forse aleatorio ma non saprei individuare una prospettiva meno edonistica e meno insincera per scrivere ciò di cui voglio scrivere.

Così, «lo stile complesso» è davvero per me una «necessità radicale» della scrittura, connesso con il bisogno di riportare con quanta più millimetrica precisione possibile e in maniera non impressionistica un contenuto legato al trauma e alla biografia personale e collettiva. Non ho mai pensato all’oscurità come a un valore aggiunto dell’arte contemporanea e sono lontano da qualsiasi attitudine esoterica o trascendentale (la verticalità, per me, è semmai nel linguaggio stesso come in Kafka o in Celan), quindi non saprei che valore assegnare all’oscurità in poesia se non nei termini di una fedeltà alla complessità e alla problematicità dell’esistenza che il linguaggio e la poesia possono faticosamente tentare di scrutare. Le tre sezioni dell’Inesploso (La grammatica dell’assedio, L’inesploso ed Emporio del deserto) provano a tematizzare la conquista di una lingua adatta a esprimere un contenuto di verità da parte di un soggetto poetico: in questo senso la fatica per l’appropriazione di uno stile e di un linguaggio è sempre uno sforzo per raggiungere quello che rimane sul fondo delle cose, dei gesti e delle narrazioni e che la poesia può condividere con il lettore. L’inesploso è inesploso appunto perché incespica di continuo, si trova di fronte a un assedio storicogeografico e a un parallelo agguato biografico, psichico e linguistico nella contemporaneità anch’essa inesplosa e violata del meridione d’Italia – che, per l’esasperazione di alcune dinamiche sociali e umane in quei luoghi particolarmente scoperte, mi sembra possa essere considerata una sintesi nuda e fedele di alcuni aspetti della complessiva realtà occidentale (la breve narrazione della sezione centrale ha luogo nel quartiere Rusholme di Manchester). Le «giustapposizioni semantiche» consentono un’apertura verso un senso non immediato delle cose, eppure presente a livello organico e materico, che può diventare discorso poetico senza necessariamente assurgere a simbolo o ad allegoria e concorrono a rendere percepibili le doppie prospettive concave e convesse da te precisamente individuate. Anche le note, nelle intenzioni di Marco, Roberto, del nostro editore Luca Rizzatello e mie, dovrebbero contribuire a implementare le possibilità di lettura di Hula apocalisse, non certo a replicare soluzioni postmoderne o pantomime gaddiane, come qualcuno avrà probabilmente frainteso.

Credo che ultimamente la questione della verità sia stata avvertita con particolare sensibilità da una parte considerevole di poeti e di critici (ne parla Italo Testa, in questo articolo le cui argomentazioni e conclusioni mi sento di poter condividere quasi integralmente). Pur non potendo rispondere a nome di Marco e di Roberto, immagino che anche Affeninsel e Il sogno di Pasifae, conservando un’intonazione fedele al vero storico e fonologico (Batisti) e alla conclamata finzione che finisce per essere una nostalgica dichiarazione d’amore per l’impossibilità di una verità (Malvestio), riflettano sul problema della verità ponendolo in contatto con quello della necessità della scrittura. Per parte mia, mi sento di poter dire che la verifica delle condizioni essenziali alla costruzione di un immaginario di verità, tanto a livello metrico-formale quanto su di un piano tematico-contenutistico, costituiscono il centro dell’Inesploso, il nucleo intimo e insieme politico da cui ho sentito la necessità di partire una decina di anni fa, quando iniziai a comporre una sezione considerevole dei testi della raccolta.

Un abbraccio affettuoso,
Francesco

Pisa, 1 aprile 2019

 


Note:

[1] Stefano Dal Bianco, Il suono della lingua e il suono delle cose, in Ritorno a Planaval, Gialla Oro pordenonelegge.it, Varese, LietoColle, 2018, p. 126.
[2] Mario Benedetti, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta, Garzanti, Milano, 2017, p. 128.
[3] Amelia Rosselli, È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 40.
[4] Ivi, p. 56.
[5] Ibid.