Le strade che penetrano nel cuore del capoluogo d’Abruzzo sembrano serpenti fumanti che inseguono le loro stesse code, girano intorno al nucleo storico, senza entrarci; non ci sono molte faccende da sbrigare. Gli esercizi commerciali che hanno riaperto lì sono solo quelli che assecondano le esigenze degli studenti di Lettere e degli operai. Bar, tavole calde, ristoranti, tabaccherie, pub: sono loro che tengono insieme le fragili trame del centro città. Il tessuto sociale è la cosa più difficile da ricostruire dieci anni dopo il terremoto del 6 aprile 2009, l’Evento.
Nell’Aquila di oggi tutto ha ancora a che fare con l’Evento, è tutto ancora un riorganizzarsi, un riadattarsi a dieci anni dall’anno zero. Ogni persona che cammina per strada sembra spaesata, non rassegnata ad una città che ha cambiato il suo arredo urbano e umano, nonostante i tentativi di riportare tutto a “come era prima”. L’odore che si respira in città deriva da uno strano composto di nostalgia e voglia di nuovo, una vibrazione continua che favorisce lo scorrere del tempo.
I cittadini aquilani si sono tutti spostati dal centro, hanno contribuito ad estendere la città nei suoi dintorni, andando ad abitare le nuove strutture collocate negli spazi di terra liberi che separavano L’Aquila dai paesi limitrofi. Il risultato è ora una sorta di megalopoli provinciale, un flusso di edifici che riempiono i finestrini delle macchine per chilometri. La periferia si è allargata e nello stesso tempo accentrata, stritolando sempre di più il cuore antico della città con la sua morsa di traffico incessante. Ci si saluta da una macchina all’altra, perché qui tutti si conoscono, ma il saluto ha di umano solo una mano che si alza, il resto è meccanico, come se fossero le auto stesse a riconoscersi e salutarsi. Difficile stabilire il momento in cui L’Aquila sia diventata una città estremamente trafficata.
Ci sono quartieri nell’hinterland aquilano che non hanno simili nel resto della nazione. Sono quelli costruiti subito dopo il sisma da Berlusconi. Un uomo passeggia sul marciapiede con il suo cane al guinzaglio, sguardo basso, ogni tanto alza gli occhi verso gli edifici che lo circondano, i loro colori accesi sembrano chiedere sempre di essere osservati, quasi per favorire l’evasione dei pensieri. Queste strutture danno l’idea di una modernità a basso costo, di precarietà. Ma questa precarietà è vivace, con ambizioni consolatorie; non è più la vecchia casa nel vecchio quartiere certo, ma ci si può accontentare se l’alternativa è nulla. Qui la gente ci abita, come si vede dai panni stesi sui balconi, ma sembra che nessuno abbia voglia di uscire dagli appartamenti. Se qualcuno esce di casa lo fa solo in auto, non ha senso uscire a piedi perché non c’è niente da raggiungere, salvo qualche altalena. Non c’è il bar. Tocca uscire e raggiungere altre periferie, magari quella dominata dal centro commerciale.
La piazzetta del centro commerciale è una sorta di ricostruzione di quelle cittadine: panchine, tavoli e sedie offrono ristoro e sostegno. Grande assente è il proverbiale freddo aquilano, che nei meteo nazionali sfida quello di Bolzano a suon di numeri negativi; qui la temperatura è sempre uguale, sempre giusta. Nelle mattine dei giorni feriali, alla buon ora, diversi gruppi di anziani arrivano e si radunano a grappoli intorno ai tavolini, con i loro quotidiani e i loro caffè. Trascorrono la mattinata lì, chiacchierando. Ogni tanto qualcuno si alza e si avvia spaesato nell’immenso supermercato, per comprare pane e un po’ di frutta, poi torna cercando di evitare i venditori di materassi ortopedici e si risiede, sotto un cartellone digitale che pubblicizza macabro un’agenzia di pompe funebri. Questo è il simulacro della vita di piazza: un capannone colorato, dove le nuove hit rimbombano tra gli scaffali stracolmi.
Il centro commerciale ha sostituito anche il mercato, luogo cardine della vita cittadina (In realtà il mercato c’è ancora, ma si è spostato verso l’autostrada, in un piazzalone di cemento che non gode più della protezione dei monumenti: è in balìa del vento, del fumo e del sole).
Il problema però è che non sembrano esserci validi motivi per frequentare il centro storico. Questo perché il centro dell’Aquila è ora un gioiello scheggiato nelle mani di centinaia di orefici sporchi di calce, che da un ponteggio e l’altro si apostrofano a voci sguaiate. Lungo i viali che portano a Piazza Duomo qualche agile studente si divincola tra betoniere, carrucole e carpentieri che vanno in pausa caffè. Un posto sporco e rumoroso, scomodo per le passeggiate dei pensionati e delle madri nei giorni feriali. Un posto che il giovedì sera si riempie di giovani e il venerdì mattina si riempie di vetri e chiazze di vino. Ma la maggior parte dei suddetti giovani sono studenti che vengono da fuori, il venerdì vanno via. Allora il sabato e la domenica, quando gli operai e gli studenti tornano a casa, gli aquilani tornano in centro.
La domenica mattina è festa. Le scarpe pulite, le carrozzine e i bastoni ritornano a percuotere il suolo del Corso e di Piazza Duomo. Ci si saluta ben vestiti, si parla della settimana trascorsa e si guardano i progressi dei lavori post Evento. Sempre più palazzi vengono liberati dalle impalcature e si mostrano con le loro tinte nuove, che non riescono mai a replicare quelle vecchie, quelle sporcate dagli anni. La gente radunata a grappoli nella piazza è circondata da queste enormi torte variopinte, che da una parte rassicurano per quello che sarà, dall’altra rattristano per quello che è stato. Le bancarelle vendono palloncini e zucchero filato, i bambini urlano e corrono, i cani vagabondi vengono allontanati dai genitori premurosi, la domenica è il giorno delle famiglie.
Ma nessuno si allontana dalla piazza e dal corso, perché si sa bene cosa c’è nei posti non raggiunti dal sole: basta entrare in un vicolo qualsiasi per esser colpiti in faccia da una ventata fredda che sa di nulla, dal silenzio assoluto. Percorrendo questi vicoli si può ascoltare solo il rumore delle proprie scarpe. Camminando qui si ha la stessa sensazione di vuoto che si ha nei nuovi quartieri residenziali. La differenza è la romantica bellezza delle rovine. Le insegne dei negozi sono coperte da una patina di abbandono, alcune porte sono spalancate e lasciano vedere ancora i segni della fuga disperata. Tra questi vicoli non ci sono locali, non ci sono nuove facciate, non ci sono persone, solo ricordi. Tuttavia la macchia d’olio della ricostruzione si espanderà inesorabile anche negli angolipiù nascosti, porterà agibilità e freschezza, ma soprattutto un nostalgico nuovo, un “non come prima”. La nostalgia del centro storico è quella più forte, è quella che renderà più dolce l’accontentarsi, che giustificherà qualsiasi nuova sistemazione, purché consenta di ascoltare le vecchie campane del Duomo o di San Bernardino.
Ma questa nostalgia non è altro che una scoria, una di quelle che ci impiegano secoli a decomporsi, le più difficili da smaltire; una macchia che sporcherà sempre la gioia incompleta del ritorno ancora segnata dal trauma collettivo e sparirà solo quando tutti i testimoni dell’Evento non ci saranno più, quando non ci sarà più nessuno che dirà: “era meglio prima”.