Cos’è lo Stradone che dà il titolo all’ultima opera di Francesco Pecoraro (Lo Stradone, Ponte alle Grazie, Milano 2019)[1], dopo sei anni di attesa da La vita in tempo di pace? Nel complesso, serve a poco che un lettore attento sappia riconoscere l’ambientazione cifrata dietro la patina epicizzante, con Roma come la Città di Dio, lo Stradone come la via Aurelia, San Pietro come il Tempio della Redenzione Globale e Berlinguer nei panni dell’Ultimo Segretario. La Roma di Pecoraro è un ambiente nascostamente allucinatorio, deformato dallo sguardo di un protagonista autobiografico che, ristretto spesso a pura funzione visiva, esprime il proprio fastidio di sentirsi (senza però esserlo fino in fondo) fuori contesto, il proprio (impaludato) disprezzo verso un mondo che più che pacificato appare sedato, contrario a ogni progettualità e slancio verso il futuro. È un luogo terminale o, come Pecoraro fa trapelare in modo meno altisonante, di pensionati; un ambiente che esaspera un percorso comune a tutte le città dell’Occidente, rispecchia fin troppo bene chi lo abita («Al posto dell’odio c’è una specie di disprezzo amoroso, come quando non riesci a staccarti da qualcuno che non stimi, ma a cui sei misteriosamente legato, qualcuno che in fondo ti rappresenta, rispecchia ciò che hai fatto della tua vita, anzi proprio ciò che sei, che dice della traccia inconsistente che resterà di te, quando anche tu», p. 365) e segna la fine concreta di qualsiasi progetto di un altro mondo possibile.
Per motivi analoghi è tutto sommato irrilevante individuare le molte somiglianze e gli scarti apparenti fra il protagonista senza nome dello Stradone (storico dell’arte fallito nella ricerca e riciclatosi in un ufficio pubblico; costruito per incarnare lo spirito di quattro decenni, dall’antagonismo giovanile al riflusso tangentista degli anni Ottanta, fino all’individualismo rassegnato come unico orizzonte post-Duemila) e gli alter ego seriali della Vita in tempo di pace, di Dove credi di andare e di Questa e altre preistorie. Gli individui sono bidimensionali e replicabili, parte di un unico “ceto medio esteso” che ha pazientemente appiattito, nel corso di un sessantennio, le differenze di classe, di pensiero, di condizione materiale:
Sulle prime mordiamo alla cieca, ma poi lentamente ci adattiamo, perché non abbiamo sensazioni di minorità, nessuna insoddisfazione, nessun conflitto di classe, nessuna tensione di superamento, nessun progetto politico cui aderire, nessuna visione d’insieme, nessun futuro, non ce ne frega di niente e di niente, viviamo per vivere […] Noi ci andiamo bene come siamo fatti (p. 295).
All’astrazione crescente dell’esistenza, che accomuna gli individui, fa da contrappeso una tendenza degli stessi a radicarsi in mondi distorti e privati, che non comunicano fra loro.
In un quadro simile, analisi e scomposizione diventano strumenti preferenziali per descrivere il mondo: proprio perché, arrivati alla fine di una vita giocata tutta nel Novecento, cambiarlo è impossibile, e perfino capirlo («[…] noi ciò che è non lo possiamo capire», p. 366). Se questa consapevolezza generava nella Vita in tempo di pace monologhi rabbiosi e potenzialmente infiniti contro bersagli di ogni tipo, qui la nevrosi e l’avversione si nascondono, sempre tangibili, dietro la volontà di descrivere con esattezza l’ambiente circostante. Sono funzionali a questa visione alcuni motivi formali che vanno contro un’architettura conchiusa e troppo definita: e non è detto che sia un male, per uno scrittore che, più di ogni altro, dà l’impressione di essere l’autore di un solo discorso a cui, ogni volta, assegna forme – destrutturate – diverse. Si nota per esempio la fitta presenza di elenchi che interrompono la narrazione e scompongono la realtà, fino a renderla un catalogo indecifrabile, privo di gerarchie interne («Ri-enumero ossessivamente le presenze fisiche di questo lato del Quadrante, faccio elenchi di oggetti mai davvero messi a sistema, ma persino in questo sfasciume, nella stessa palazza dove abito, posso riconoscere, e volendo (ma non voglio) descrivere frammenti di utopia», p. 72). E saltano all’occhio anche i micro-dialoghi intercettati al bar Porcacci, che puntellano Lo Stradone. Isolati da uno spazio tipografico e dal corsivo (basti uno per l’insieme: «A me, me basta che m’affoghi de verdure», p. 391), rinviano chiaramente agli status dei social network (di cui Pecoraro è accanito e intelligente frequentatore), ma sono in senso più ampio isole del discorso, spazi segregati di uno sciocchezzaio condiviso, che fanno ridere proprio per il loro non rimandare ad altro che a un significato di stupida letteralità. I micro-dialoghi possono insomma essere letti, non troppo implausibilmente, come il corrispettivo letterario dei meme. Al mondo virtuale rimandano altri elementi, del resto, come l’ecfrasi del porno (pp. 412-418), che riecheggia le descrizioni pornografiche nella Pura superficie (2017) di Guido Mazzoni,[2] in particolare della prosa poetica Barely legal. Con una differenza almeno: la fruizione del porno in Mazzoni è distaccata e tragicizzata; in Pecoraro, una scena di Lesbian sucking and fucking dildos si scompone nella comicità ripetitiva delle troppe sigle dell’osceno, nella prevedibilità del canovaccio e nella riflessione, di umorismo raggelato, su ciò che lo sguardo maschile si aspetta:
La fine di ogni rapporto etero-sessuale, reale e porno, pare sia l’orgasmo maschile, che è quando si schianta la libido dell’uomo, almeno per un po’ e lui vorrebbe farsi subito un sonno, che di solito nel sesso reale gli viene negato, mentre nel porno non si sa, ma è probabile che vada a farselo a casa. Immagino che un rapporto lesbico reale finisca per reciproca soddisfazione. Il porno lesbo, non essendoci quasi mai un orgasmo comprovabile come autentico, credo vada a minutaggio, alla fine del quale, esaurite le figure obbligatorie, anche lì si può andare a casa. (pp. 417-418)
In generale, quei tratti meccanici, rassicuranti e un po’ prevedibili che a tratti comparivano nei segmenti più distesi della Vita in tempo di pace (e che dimostravano per contrasto, forse, la vocazione più pura di Pecoraro: incrociare brevi lampi narrativi e saggismo) sono coperti, nello Stradone, da un discorso disordinato, ma più efficace. Manca la doppia progressione lineare all’opera nella Vita in tempo di pace (con la divisione in due pannelli alternati, dall’opposta direzione temporale: una sezione verso l’Origine, una verso la Fine); nello Stradone c’è una narrazione centrifuga e a-gerarchica, raro prodotto felice della scrittura sul Web, quasi del tutto incurante della linea temporale, divisa in quaranta capitoletti su debole base tematica. Ci sono qui meno personaggi e scene, si cerca meno la profondità, la tridimensionalità, la psicologia (zone largamente inesplorate, del resto, nei primi due libri, eccellenti, dell’autore). Il posto è lasciato a frammenti in prosa che si possono ricondurre, semplificando, a tre filoni: un racconto autobiografico per cenni, condotto in prima persona; una descrizione disordinata dello Stradone e dei suoi abitanti; un discorso saggistico che divaga su ciò che tocca da più vicino le idiosincrasie del protagonista – fra i tanti, la pornografia, gli abitanti del bar Porcacci, il terrorismo islamico, l’evasione controllata e distopica delle serie tv, la rivoluzione russa del 1917, i cani e i padroni di cani, la violenza, l’urbanistica selvaggia del comune di Roma e, su tutti, la rimozione del conflitto sociale, rimpiazzata dall’immaginazione televisiva del ceto medio che, non entrando più in contatto con le altre classi, crea mitologie su di esse (le notevoli pp. 200-205). È in questi passaggi che Pecoraro dimostra al tempo stesso uno stile unico, fuori dalle pressioni commerciali e sociali che si stringono sempre di più attorno alla letteratura, e insieme un’eredità forte dalla migliore tradizione della prosa breve del Novecento italiano: Pasolini, nell’incrocio fra antropologia d’assalto, polemica e fantasmi privati, e Calvino, di cui Pecoraro mi sembra uno dei continuatori più veri, non nell’enfasi combinatoria e nel citazionismo ludico (fortunatamente passati di moda), ma nella nevrosi dello sguardo e nello scavo delle superfici.
A questi tre filoni in soggettiva si può aggiungere una quarta linea di racconto, in cui l’io narrante si eclissa dietro la ricostruzione della vita dei fornaciai romani a Valle Aurelia, nella cosiddetta Valle dell’Inferno che, fino agli anni Venti del Novecento, contava una ventina di fornaci e accoglieva masse di operai impiegandoli in condizioni di puro sfruttamento (la storia è raccontata con un’alternanza di discorso storico e di lacerti di testimonianze «ricalcate liberamente» su veri resoconti di ex fornaciai, v. p. 444). Eclissi quasi completa, perché nel raccontare le vicende della Sacca, dietro cui si cela una borgata storica di Roma, avamposto comunista della città, Pecoraro rende omaggio a un’ideologia perdente a cui sente ancora di appartenere integralmente, a dispetto della logica della Storia. Lenin, che definì Valle Aurelia una «piccola Russia», compare in veste di personaggio, nel corso di una visita del 1908 a una fornace del quartiere. Lo sguardo retrospettivo dopo il crollo dell’ideologia comunista illumina di una luce ambigua, disincantata ma piena di ammirazione, la figura vitale e attiva di Lenin nel suo incontro con i fornaciai. Il tutto suona da involontario controcanto al modo visionario e postumo in cui Lenin è comparso in un altro romanzo di uno scrittore della stessa generazione (e impegnato nella lotta politica a sinistra per tutti gli anni Settanta). Negli Esordi di Antonio Moresco il personaggio del Gagà, in fin di vita, racconta al protagonista senza nome di aver conosciuto Lenin, assistito nei suoi ultimi giorni da paralitico, da Anastasia Romanov, e di aver contribuito alla sua imbalsamazione[3]. Ma ciò non significa che la ricostruzione di Pecoraro sia, al confronto, neutra. Vale la pena individuare dove la visione dell’autore, con il nichilismo furente che nella Vita in tempo di pace abbiamo conosciuto in dettaglio, riemerge attraverso i suoi personaggi, ri-significando il passato con la verità del presente:
Un uomo giovane dalla faccia segnata lo interrompe dicendo che anche ammesso che ammazzi tutti i padroni poi sempre qualche altro padrone ti ritroverai sulla groppa, sempre ci sarà uno a dirti quanti mattoni devi fa’ al giorno, sempre i lavoratori staranno sotto qualche cappella, padronale o socialista che sia, sempre: l’unica cosa da fa’ è una rivoluzione che non finisce mai – la voce gli si strozza in gola per la disperazione – un movimento rivoluzionario contro la fatica, contro il lavoro che t’ammazza e contro chi comanda: appena uno comanda lo ammazzi, è l’unico modo, io a fine giornata penso solo a quello, a quanto sarebbe bello vedere scorrere il sangue, tanto sangue, giù per la valle, un torrente di sangue giù fino al Fiume, allaga’ la Piazza der Colonnato e perdio affogarci tutti i preti … (pp. 152-153)
Su un libro che si presta malissimo a venir riassunto, e che meriterà molta attenzione, rimane sospesa una domanda che viene istintivo fare: dove ci porta lo Stradone su cui il protagonista senza nome vive e racconta? Oltre le sue fattezze di luogo reale, si tratta di un simbolo vuoto, una via che non conduce da nessuna parte, per essere invece, come ribadito con ossessiva insistenza nel corso delle pagine, un duplice punto d’arrivo: della lotta delle ideologie del secolo scorso e della vita di un uomo ormai vecchio, sopravvissuto a quelle ideologie di cui la sua vita si sostanziava. E dove porta Lo Stradone? A differenza della Vita in tempo di pace, con la sua costruzione a ritroso e la morte finale, ma preannunciata dall’inizio, di Ivo Brandani, il libro si chiude «per sfinimento» (p. 442). Data la sua natura di “faldone”, appare normale che sia così. Sullo sfondo dell’Epilogo si annuncia la costruzione del Centro Commerciale Aura, disprezzato a parole ma segretamente desiderato da tutti gli abitanti che «sanno che gli unici posti in cui stiamo bene sono quelli del consumo» (Ibidem) e sperano in un mutamento qualsiasi dell’ambiente urbano. È un finale in sordina per una narrazione (l’etichetta “romanzo” non convince: troppa frammentarietà volutamente de-strutturata) che fa della stasi e del disfacimento una condizione d’essere. Lo si vede nella sequenza del capitolo 40 Granularità in cui il protagonista medita l’idea del suicidio, buttandosi dalla finestra del suo appartamento, alla luce della granularizzazione ad infinitum dello spazio tempo. Quando leggiamo:
Ecco: se lo spazio-tempo è granulare, c’è il rischio che così facendo io non riesca mai a toccare il suolo dello Stradone, vivendo per sempre il terrore di un’eterna caduta, la cui infinita durata potrebbe scaturire da una più lenta percezione del tempo, di cui, dato lo stato a dire poco alterato che l’atto del suicidarsi mi provocherebbe, analizzerei ogni quantum, scrutandolo uno per uno, aggiungendo tempo al tempo, cadendo e intanto ricordando ogni istante della mia vita passata, anch’essa pressoché divisibile all’infinito (p. 438).
è facile andare con la mente alla scomposizione del tempo che trentacinque anni prima Palomar medita di compiere, prima di essere smentito da ciò che più teme, cioè la sua stessa morte:
«Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine». Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore[4].
Eppure, nella modulazione del tema, gli esiti sono rovesciati. Palomar vuole scomporre il tempo, descrivendolo, per scongiurare l’arrivo della fine (non solo la sua, ma quella dell’umanità e forse dell’intero universo); l’uomo dello Stradone invece teme che si verifichi, suo malgrado, questa scomposizione, che lo cristallizzerebbe nella continua ri-descrizione del proprio passato mentre attorno il suo mondo finalmente si estingue. Nonostante la parentela apparente, l’ansia di non morire nel Palomar di Calvino sembra antitetica all’ansia di estinzione di Pecoraro. La cosa peggiore che potrebbe succedere nella condizione terminale dello Stradone è una paura che si applica all’individuo, all’Occidente, persino a un discorso letterario che, a furia di rigirare su se stesso, non sa o non può finire. La si potrebbe racchiudere in una riscrittura: In quel momento non muore.
[1] Tutte le citazioni da questo libro sono d’ora in avanti a testo, fra virgolette, seguite dal numero di pagina. Ringrazio Giacomo Raccis per alcuni suggerimenti in corso di stesura.
[2] Va d’altronde notato che alcune riflessioni di questo libro hanno visto un primo sviluppo in brevi articoli pubblicati sul blog «Le parole e le cose», fino al gennaio 2019 coordinato fra gli altri da Mazzoni.
[3] Antonio Moresco, Gli Esordi [1997], Mondadori, Milano 2011, pp. 449-81.
[4] Italo Calvino, Palomar, , Palomar [1984] in Romanzi e racconti II, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano 2004, p. 979.