Leggendo La giusta posizione, la silloge di Pietro Cardelli pubblicata nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea, si è innanzitutto colpiti da una serie di parole, gesti e posture che una certa pratica della poesia contemporanea ci ha reso quanto meno sospette. In queste poesie chi parla si muove tranquillamente tra i pronomi tabù “io” e “noi”, dice senza veli un’angoscia e uno stallo suoi e di tutti quelli che potrebbero essergli alleati, affronta di petto fatti di storia o di cronaca, non ha paura di aprire al futuro cercandone i germi nel presente (se, nonostante tutto, «Non possiamo negare il futuro»). E tutto questo, senza ingenuità e velleitarismi, piuttosto con la sicurezza di chi, comunque, sa bene il rischio che sta correndo.
Qui non c’è traccia di minimalismo né di vergogna della poesia. Pietro Cardelli non ha interiorizzato quel super-io avanguardistico che sovraccarica la scrittura di remore e divieti e che pare abbastanza diffuso in molti autori della nostra generazione (compresi parecchi tra i più bravi). Non che gli manchi la consapevolezza dell’odierna condizione, sociale e non solo, della poesia, delle contraddizioni e aporie che scrivere poesia comporta (anche questa mancanza di consapevolezza è diffusa negli autori della nostra generazione, e quasi sempre tra i peggiori); il fatto è che il monito, la messa in guardia, non gli viene dalla tradizione avanguardistica, ma da quella in cui il quid della poesia ha come sostanza il dialogo e scontro razionalizzato con l’altro dell’extra-poetico, insomma – per semplificare di nuovo – non da Sanguineti, ma da Fortini.
Quindi avremo da una parte la coscienza del limite, che ne La giusta posizione affiora nei diversi momenti metapoetici (o leggibili anche in chiave metapoetica), oppure in un atteggiamento di continua autocritica che cancella preventivamente le illusioni e dove i dubbi prevalgono sulle speranze, o ancora in certi scrupoli nella nominazione (cito dalla stessa poesia: «se scende quella che – obbligatoriamente, | almeno questa – dobbiamo chiamare notte», «Di là le foglie così dense (e vorrei dire gialle)», «una stasi, un riposo | – puoi chiamarla quiete, come tutti –»). Dall’altra avremo la tensione che, più che voler punire la poesia, la interroga e cerca di usarla, potenziandola, per uno scopo che la trascende. Ed ecco allora il massimalismo progettuale di certi titoli (Etica e resurrezione, Una nuova etica); ecco una scrittura dalla qualità semantica altissima (per dirla con Pagnanelli), che non nasconde di aver qualcosa da dire e prova a farlo; ecco la pressante volontà di agire («Ci vorrebbe coraggio: un gesto sicuro, l’urgenza di dire, un’affermazione studiata», «Cerco un pretesto per l’azione, anche qui fra contrasti e violenza»).
Ed è ovvio che questa distinzione di massima è solo una separazione critica: le due forze che percorrono La giusta posizione stanno insieme, contemporaneamente percepibili in ogni testo. Così l’autocritica metapoetica è sempre anche autocritica etica, fin dal primo esemplare della raccolta: l’inutilità della poesia è lì sentita e dichiarata accanto a quella della politica e della quotidianità del cibo, e quando poco dopo viene detto che «Accampiamo scuse a mai una lotta» il disincanto o la rabbia taciuta hanno abbondantemente superato i confini della pratica scrittoria.
In un quadro simile, è del tutto naturale che il problema fondamentale di questo io-noi bloccato in una stasi piena di un senso di resa e di colpa, diviso tra il vago ricordo di una lotta passata e la necessità difficilissima da attuare di uno scatto nel presente, preda delle sue ipotesi e dei suoi ripensamenti, è del tutto naturale, dicevo, che questo problema sia anzitutto «un problema di forma». E anche qui parlare di forma significa da un lato accamparsi nel metapoetico, nella ricerca, a tratti tematizzata, della forma giusta che dica quella condizione di scacco e insieme la forzi. È una ricerca che nella silloge si dispiega, a livello macroscopico, nelle differenti modalità del discorso. C’è il monologo lirico, apparentemente tradizionale ma in realtà attraversato da spinte che lo portano a un’impersonalità ragionativa più ampia, oppure in un territorio dove quell’io è già sentito come un noi, il quale del resto prende spesso e volentieri la parola. Un io ‘allegorico’ simile a quello teorizzato e praticato da Dal Bianco, tra i sicuri punti di riferimento di Pietro Cardelli? Forse, ma con molto di fortiniano, quest’ultimo influsso riscontrabile poi nella tendenza generale alla costruzione di allegorie (cfr. la «donna» di Alla radio ticinese, la «struttura» di Una nuova etica, la «radice» della poesia eponima). Infine, va menzionata almeno l’allocuzione, a un tu che può essere il lettore o l’io stesso e che va interrogato, scosso, se non proprio sferzato: modalità decisiva per una condizione nella quale si è perplessi e si deve comprendere, si è ignavi e si deve agire.
Ma la ricerca della forma, si diceva, trascende il piano della rappresentazione, e tocca il nodo ideologico fondamentale del contatto tra il sé e l’altro: il problema di forma è cioè un problema di collocamento dell’io nel mondo. Ne sono spia, per fare un solo esempio, le ricorrenze davvero insistenti del lessico geometrico («cerchi», «forme geometriche», «angoli», «archi di meridiano», «prisma regolare, precisissimo», ecc.), sintomi di un’esigenza, quasi sempre frustrata, di ordine, di precisione e di chiarezza, non punti di arrivo consolatori ma punti di partenza indispensabili all’azione. Diverse volte questi problemi geometrici interessano lo spazio tra l’io e l’altro (p. es. Incidente), l’interpretazione soggettiva della realtà (p. es. Alla radio ticinese, A.A.A.), o una sua possibile manipolazione (p. es. Etica e resurrezione, Una nuova etica).
La ricerca della giusta forma fa tutt’uno con la ricerca della «giusta posizione», e ha visto bene Pusterla quando nella premessa ne riconosce diverse declinazioni e prospetta un’evoluzione. Si tratta di una conquista preliminare a quell’agire di cui si è parlato, e non è un caso che, la maggior parte delle volte in cui compare, la posizione sia una posizione sbagliata, figlia di un’accettazione distruttiva (ancora Pusterla), di una rabbia rivolta al passato (Alla radio ticinese), o di una «postura» didascalica già percepita come inautentica e arrogante (“Come se questa angoscia…”). Se l’obiettivo è chiaro, insomma, l’approdo è dubbioso; non c’è soluzione, ma lì si tende.
Conviene allora chiudere su questo insegnamento di Me-ti, che – è l’autore stesso a indicarcelo – sintetizza perfettamente l’assunto di base di questa poesia: «Se non si aspira al godimento, non si vuole tirar fuori il meglio da quel che c’è e non si vuole assumere la posizione migliore, perché allora si dovrebbe combattere?».