La banda Wu Ming ha da pochi giorni lanciato l’ultima opera del proprio atelier, La macchina del vento, in libreria dallo scorso 16 aprile. L’autore del testo non è però il collettivo nel suo complesso ma Wu Ming 1, che dopo Un viaggio che non promettiamo breve (2016) torna a comporre un brano dei suoi da solista. Sorpresi?
Il rapporto tra progetto politico-culturale del gruppo e singolarità autoriale dei suoi membri è da sempre uno dei fondamenti dell’officina wuminghiana, nella quale tra alti e bassi individualità e concertazione collettiva hanno sempre convissuto. Si insiste qui su questo aspetto perché La macchina del vento al tempo stesso segue e declina in modo molto personale la linea che il collettivo ha seguito nell’ultimo Proletkult (2018): un’attenzione peculiare alla soggettività individuale, il suo incontro con l’altro e, sul piano più propriamente letterario, la commistione tra genere storico e fantascientifico. Tutto ciò è però complicato da intrusioni mitiche e… divine. Di che cosa stiamo parlando?
La macchina del vento racconta la storia di un gruppo di antifascisti confinati sull’isola di Ventotene tra la fine degli anni ’30 e la caduta del fascismo. L’arrivo sull’isola di Giacomo Pontecorboli, fisico romano legato ad ambienti giellisti, è l’evento da cui il ripercorrere della vita di questi confinati ha inizio. Tra di essi si annoverano nomi celebri dell’antifascismo nostrano – basti citare Sandro Pertini, Umberto Terracini, Giovanni Domaschi – ma anche personaggi di finzione ed originali, tra cui lo stesso Pontecorboli. Con il passare dei giorni – scanditi dall’appello mattutino e serale, dalle passeggiate limitate a solo alcune vie dell’isola e da molti dialoghi – Giacomo lega molto con Erminio Squarzanti, socialista e studente di lettere classiche che non ha mai concluso la sua tesi di laurea. Il legame tra i due porta Giacomo a confessare all’amico un segreto: insieme al collega Ettore, scomparso in circostanze poco chiare, Giacomo avrebbe inventato una macchina del tempo. Il dover dimostrare ai compagni di confino la veridicità delle proprie affermazioni porta Giacomo a rinchiudersi in se stesso e a sviluppare calcoli per spiegare alcuni fenomeni dell’isola che rimangono inspiegabili – per esempio il concentrarsi dei venti proprio in quel punto o il continuo guastarsi dell’orologio del campanile. Secondo Giacomo, l’isola stessa costituirebbe una macchina del tempo biologica che si proietta nel futuro rispetto al continente e sarebbe capace di mostrare ai suoi abitanti la fine del fascismo e della guerra con un certo anticipo rispetto al resto dell’umanità.
Questo suggestivo scenario rappresenta un unicum nella produzione wuminghiana già dal punto di vista tematico. La macchina del tempo è il primo romanzo dei Wu Ming ambientato interamente durante il ventennio fascista – il che potrebbe sorprendere, date le varie indagini storiche e l’attivismo politico di chiara matrice antifascista che caratterizza il collettivo. Nella loro produzione precedente, i Wu Ming hanno toccato gli anni del fascismo attraverso l’esperienza partigiana (Asce di guerra [2000], 54 (2002], Basta uno sparo [2010]), raccolte di testimonianze collettive (La prima volta che ho visto i fascisti [2005]), oppure all’interno di archi narrativi più ampi atti a mostrare la continuità istituzionale ed ideologica tra Italia fascista e repubblicana, specie in relazione al colonialismo nostrano (Momodou [2008], Timira [2012], Point Lenana [2013]). Qui invece le trecento pagine composte da Wu Ming 1 insistono sul confronto quotidiano tra questi personaggi più o meno rinomati e le imposizioni dittatoriali durante gli anni del regime. Perché?
La resistenza a tali imposizioni assume forme discorsive parodiche – Mussolini è soprannominato “Pasta e fagioli” attraverso un’associazione onomatopeica tra il suono della sua voce e quello dei moti gassosi prodotti dalla digestione della pietanza – ma anche serie e profonde – Pertini è la figura che mantenendo il proprio portamento elegante non permette al regime di spogliarlo della propria dignità. Non sono queste però le forme di resistenza che il romanzo incorpora in modo radicale, vale a dire alla sua radice strutturale. La battaglia con il regime inscenata dal romanzo ha luogo al confine tra interiorità e dimensione sociale, immaginazione e linguaggio razionale, scelte d’utilità personale e integrità morale. Il personaggio selezionato come teatro per questo tipo di battaglia è Erminio Squarzanti.
Come il Bogdanov di Proletkult, Erminio è la figura attraverso le cui riflessioni il lettore incontra le vicende del testo. Erminio racconta i progetti di Giacomo e gli episodi che lo riguardano, la perseveranza di Pertini, i confronti tra Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni durante la scrittura del famoso manifesto Per un’Europa libera e unita. Diversamente dal romanzo russo però, la modalità narrativa di questi racconti plasma il testo più in profondità. Le vicende non sono riportate da un narratore onnisciente extradiegetico che concede spazio all’indiretto libero, bensì da Squarzanti stesso durante un’intervista realizzata alla fine degli anni ’60, forse in pieno ’68, da uno studente universitario. L’intervista tra quest’ultimo ed Erminio è il nucleo strutturale intorno a cui ruota l’intera esperienza di lettura. Il tu con cui Erminio si rivolge a questo studente è il tu con cui il libro si rivolge al lettore. Wu Ming 1 sembra tenere particolarmente a questa impostazione: in New Thing (2004) il testo si compone di una serie di brevi resoconti o battute la cui forma è fortemente influenzata dallo stile orale, mentre le voci degli attivisti NO TAV popolano Un viaggio che non promettiamo breve, come se il lettore fosse parte di una conversazione collettiva.
L’intervista incornicia perciò le vicende del romanzo per intero e permette al racconto di Erminio di mescolare memoria e immaginazione, quest’ultima plasmata da un intimo rapporto con la mitologia della Grecia classica. Il racconto memorial-immaginario di Erminio interpreta la storia del regime fascista attraverso le azioni delle divinità greche più note. Mercurio ed Atena sarebbero così gli dei antifascisti per eccellenza, mentre Marte e Poseidone i più guerrafondai ed allineati con la dittatura. Questo tipo di approccio in soggettiva è pervasivo e, nella prima parte del testo, dove non è ancora chiaro il contesto dell’intervista in cui il tutto avviene, disorienta il lettore. Quest’ultimo trova nelle prime pagine passaggi dal tono fortemente didascalico – per esempio dove si spiega perché “ti mandavano al confino” o “perché Poseidone aveva aderito al fascismo” – passaggi che trovano una spiegazione solo più avanti nell’opera, quando diventa chiaro che Erminio sta parlando al giovane studente – o al lettore contemporaneo – che potrebbe essere totalmente ignaro di cosa sia stato il confino a Ventotene. Il tono didascalico è però necessario anche alla commistione stessa tra mitologia greca e storia contemporanea e funzionale alla familiarizzazione dello studente/lettore con la visione del mondo di Erminio. La diversa intensità narrativa tra questa prima parte e il resto del romanzo – il quale si evolve in racconto vero e proprio, con suspense, prolessi ed analessi annesse – trova forse spiegazione in una conversazione che si presenta al lettore nell’atto stesso del suo costruirsi. L’evoluzione non è perciò solo del dialogo, bensì anche di un rapporto di confidenza e fiducia tra gli interlocutori. La crescente intimità tra Giacomo ed Erminio è la stessa crescente familiarità tra Squarzanti e lo studente/lettore. Incontri che evolvono, che spingono il rapporto con il testo e la sua storia in profondità e al di là dei confini del testo stesso. Notevole è però lo scarto rispetto allo stile wuminghiano degli UNO, o la più generale tendenza a mescolare fiction e prova storica documentaria della narrativa degli anni Zero. Quest’ultimo approccio avrebbe reso l’apertura del romanzo meno didascalica e più tangibile attraverso la citazione di documenti, articoli di giornale, lettere o quant’altro. La domanda è quindi ancora: perché ci troviamo di fronte a questo pervasivo approccio in soggettiva?
La soggettiva rivela l’interesse a capire come storie letterarie e narrazioni mitologiche intervengano nell’educazione del singolo, nel suo incontro con l’altro e nel kairòs, «il tempo supremo della consapevolezza e delle scelte». Quello che La macchina del vento investiga è perciò una certa «termodinamica della fantasia», per usare una formula cara ai Wu Ming, e come essa agisca su forme di scelta e militanza morale e politica. Se per il fisico Pontecorboli questa termodinamica si fonda su una critica creativa del famoso romanzo di Herbert George Wells La macchina del tempo (1895) e su teorie visionarie di viaggio nel tempo, per Erminio il tutto ruota intorno ad una tesi di laurea mai realizzata a causa del suo arresto. Come Squarzanti racconta nella seconda parte del libro, la tesi voleva mostrare «come, nel mito greco, i mari d’Italia siano sempre spazi aperti e illimitati, e il solcarli sia occasione di incontri inattesi e sorprendenti tra popoli diversi e diverse razze umane, tra uomini e divinità, tra uomini, animali e mostri» e come da tali incontri scaturiscano conflitti ambigui, accoglienza e nuove e produttive «ibridazioni». Il rifiuto di un tale approccio transculturale – probabilmente inaccettabile per molti ministri attuali – da parte del fascistissimo professor Coppola, suo relatore, e l’arresto dovuto ad altre azioni sovversive pongono Erminio di fronte ad un what if con il quale non si è mai veramente confrontato: se si fosse trovato davanti alla scelta di sfidare il proprio professore e probabilmente rimetterci personalmente, avrebbe avuto il coraggio di andare avanti con il suo progetto? O, nelle parole di Erminio, sarebbe stato all’altezza?
La contaminazione narrativa tra fantasie mitologiche, vita quotidiana dei confinati e storia del regime diviene perciò una risposta performativa a tale domanda, vale a dire negli atti, nelle azioni informate da una certa visione del mondo, attraverso cui Erminio di fatto “vive” la sua tesi. Ventotene è un’isola dove Squarzanti – ed il lettore – incontra lingue (italiano, francese, greco, tedesco) e dialetti (ferrarese, triestino, romano) diversi. Il confino è un’esperienza d’incontro tra confinati appartenenti a diverse formazioni politiche (comunisti, socialisti, liberali, anarchici, giellisti) ma anche persone provenienti da diverse zone d’Africa e d’Europa (albanesi, catalani, eritrei, sloveni, croati, jugoslavi, etiopi). Non si pensi però ad una versione edulcorata di tale esperienza punitiva. Il romanzo ribadisce le imposizioni e le limitazioni della libertà personale subite dai confinati – e da chi è oggi vittima delle misure di “sorveglianza speciale” o obbligo di presenza, come spiega Wu Ming 1 nei “titoli di coda”. La riflessione però può essere estesa ad includere ulteriori forme di confino, più subdole e pervasive. Come direbbe Maurizio Lazzarato, rielaborando il pensiero di Gilles Deleuze e Félix Guattari, oggi siamo tutti confinati a livello molare e molecolare attraverso modalità di assoggettamento sociale e asservimento macchinico. Il confino neoliberista assegna un’identità ed una posizione sociale gerarchizzata all’individuo, al soggetto come centro antropomorfo della vita, ma esso lo irretisce anche a livello affettivo, organico e binario trasformandolo in dati, input e output di network macchinici complessi e sfruttati. Cosa fare dunque? Abbandonarsi alla rassegnazione?
La forza del romanzo sta nel cercare comunque uno spiraglio. Esso indaga, come si accennava prima, le forme di resistenza possibili all’interno del confino stesso. Questa esperienza non spinge l’immaginazione a generare solo fughe dalle costrizioni del reale, fughe che, se accolte acriticamente, potrebbero rinchiudere il fuggiasco in una dimensione totalmente sconnessa dal reale stesso. L’esperienza di Erminio trasforma l’immaginazione in un potere performativo di intervento nella realtà. Nel finale del romanzo, quando Pertini e gli altri confinati guardano a Squarzanti per proporre una forma di organizzazione per la gestione della colonia dopo la caduta del regime nel ‘43, è l’immaginare il consesso degli dei “antifascisti” composto da dieci rappresentanti – il Dekatheon – ad ispirare la sua scelta, a rendere tale visione del mondo potente nel kairòs, a suscitare una presa di responsabilità nell’hic et nunc in cui, come spiega Antonio Negri, l’esprimersi e l’essere si compiono nell’istante e al tempo stesso si aprono al futuro.
La soggettività immaginaria di Erminio è perciò autoriflessiva, ma non è mai rinchiusa in se stessa in modo idiosincratico. Essa si apre all’incontro con l’altro nella dimensione storica e sociale e fonda sullo scambio comunicativo la propria esperienza educativa, nel significato etimologico di “tirare fuori” idee, pensieri, affetti. È l’incontro con l’altro nel kairòs a far scaturire idee, «universi e futuri» alternativi, come si legge nel libro. Un incontro non imposto, ma spontaneo, non controllato e diretto da un potere forte, ma aperto al diverso in quanto tale e non aderente ad una norma necessaria. È questa la tesi con cui, a margine delle vicende, Erminio critica il manifesto di Spinelli ed Rossi. La critica, che in forma di lettera occupa un intero capitolo del romanzo, attacca quei punti del federalismo degli albori – l’imposizione dall’alto di una linea politica ed economica, l’idea delle masse come materia passiva ed ignorante che deve essere guidata da un partito di eletti – che oggi ritroviamo nell’Europa degli ultimi anni, troikizzata e BCEntralizzata. Non è forse un caso che questo libro venga pubblicato poche settimane prima delle prossime elezioni europee, anche se sappiamo che il collettivo bolognese non si è mai identificato con alcuna organizzazione partitica – tantomeno quelle attuali. Probabilmente le critiche mosse da Erminio al manifesto faranno anche discutere del libro, focalizzando il dibattito, a torto, su questo aspetto. Il libro non è uno strumento di propaganda, ma chiede una riflessione più profonda intorno alle basi su cui l’Europa si sta, non evolvendo, ma involvendo. I populismi gratuiti sbandierati dai rappresentati politici di diversi paesi si fondando su un disprezzo normativo del diverso che divide, piuttosto che generare confronti, conflitti costruttivi e ibridazioni transculturali. L’incontro, la conversazione e l’educazione attraverso scambi critici e creativi sono invece gli strumenti per creare forme sostenibili di valorizzazione del diverso e di coesistenza. Come dice Pertini nell’ultima parte del romanzo, «c’è ancora un’altra Italia» e, se vogliamo, un’altra Europa, «e noi torneremo a incontrarla».