Simone Monsi (1988)[1] raccoglie ossessivamente immagini e messaggi pescati in internet per una catalogazione personale, da cui parte per rielaborare immagini “altre”, mettendo in azione una denuncia critica. Queste images trouvées sono rimesse in circolo per instillare dubbi, con l’intenzione di muovere qualcosa nel pensiero collettivo. Immagini e testi presi dai social network sono re-indicizzati e inseriti in installazioni site-specific. Monsi utilizza il tema tragico, cercando di sensibilizzare le persone per mezzo di un’esca attraente, risolta attraverso rielaborazioni visive puramente estetiche. Rivolge l’attenzione sui tramonti – intesi come emblemi dell’aspetto lirico – che però hanno sempre più colori influenzati dall’inquinamento atmosferico. Nelle sculture della serie CAPITOLO FINALE: Let’s Forget About It Let’s Go Forward – From Meaning To Intensity (2016), soffici totem-mano di stoffa, sono stampate immagini scaricate seguendo l’hashtag #sunsetporn, in cui compaiono tramonti belli ma innaturali. Le mani di stoffa paiono esorcizzare l’assenza di fisicità che sta dietro ogni atto virtuale, si ergono quasi come monumenti della frizione tra corporeità e tecnologia. Sono strutture che rendono visibile l’indagine dell’artista sulla funzione delle mani nell’era “post-slide to unlock”. I tramonti presi da Instagram, stampati sulla pelle delle mani, sono metafora di una transizione verso la nuova era geologica dell’Antropocene. Le manone sono sculture morbide. Paiono anche alberi, con piccole protuberanze dinamiche, che al contempo fungono sia da radici sia da gambe: «C’è un senso di vitalità grottesca in queste foto di Instagram che sviluppano delle gambine per scappare via». Can’t Wait For The Weather To Get Warmer (2018) mostra foto di tramonti raccolte da Instagram e Tumblr, immagini che presentano un pattern comune nella conformazione delle nuvole, causato da campi elettromagnetici. A Monsi interessa sondare la transizione verso nuove forme di interferenze tra corpi. Le sculture, le installazioni e i social network sono momenti di un unico processo, a loro volta opere, che, ripostate online, divengono immagini virali.

3. Simone Monsi, CAPITOLO FINALE Let’s Forget About It Let’s Go Forward – From Meaning To Intensity (2016), Courtesy Una Galleria e l'artista

Posizionamento politico e immagini che producono verità. Perché i tramonti?

L’interesse per le foto di tramonti ha preso forma durante il primo anno di accademia a Londra ed è mutuato da un’intuizione dell’antropologo Michael Taussig che interpreta la magic hour – quel momento particolarmente apprezzato in fotografia in cui durante il crepuscolo la luce solare è naturalmente morbida e calda – come una metafora visiva dell’attuale momento di passaggio del genere umano: dalla fine di un’epoca in cui le attività dell’uomo si mantenevano in equilibrio con le risorse naturali disponibili, verso l’Antropocene, una nuova era geologica nella quale invece i processi di antropizzazione hanno modificato la biosfera in modo irrevocabile e dove la stessa sopravvivenza del genere umano sulla Terra è messa a rischio.

Tuttavia, data la sua gravità, Taussig individua in questo eccezionale frangente di “quasi-non ritorno”, anche una possibilità per l’uomo di redimersi, auspicandone la decisione di indirizzare le attività umane verso una irrinunciabile sostenibilità ambientale.

Auspicio che sembrerebbe ben riposto, considerando l’elevatissima popolarità degli hashtag #sunset, #sunsetlove e #sunsetporn su Instagram. Ma mentre iniziavo a collezionare sistematicamente immagini di tramonti, ebbi l’impressione che negli ultimi anni questi fossero diventati sensibilmente più “rossi” che in passato. E non mi riferisco ai vari filtri Instagram che aumentano la saturazione dei colori, intendo il tramonto vero, quello che si può vedere a occhio nudo tutti i giorni. Ebbene, facendo un po’ di ricerca non è stato difficile capire che i fumi causati dall’inquinamento di particolato metallico derivanti dai gas di scarico dei veicoli a motore colpiti dai raggi solari al crepuscolo tendono a colorarsi di sfumature che vanno dal rosa, all’arancione, al rosso – evidenziando il fatto che i tramonti dai colori più intensi e, se vogliamo, più emozionanti, siano in effetti quelli che rivelano un tasso più alto di inquinamento atmosferico. È così che le foto dei tramonti presi dai social sono diventate elemento caratterizzante di diversi miei lavori. Un elemento visivamente accattivante ed emotivamente coinvolgente che possa essere l’espediente per entrare in un dibattito più approfondito sulla realtà di un’immagine, capace di svelare il fragile equilibrio tra bellezza estetica e avvelenamento della biosfera.

C’è una storia interessante dietro al lavoro Can’t Wait For The Weather To Get Warmer (2018). Ce ne puoi parlare?

Can’t Wait For The Weather To Get Warmer (2018), costituito da sei stampe Fine Art dimensione iPhone esposte su un display di acciaio, si inserisce appunto nel discorso dei colori del tramonto come indizio di un’atmosfera inquinata. Partendo dalla mia collezione di foto di tramonti raccolte da Instagram e Tumblr, questa volta ho selezionato le immagini che presentano un pattern comune nella conformazione delle nuvole, che si ritiene causato dell’interazione con campi elettromagnetici – vedi nuvole con formazioni a strisce equidistanti. Queste foto sono presentate come sfondo per le Instagram stories pubblicitarie della compagnia aerea low cost fittizia LF, che invita gli utenti a prenotare il proprio volo il prima possibile cosicché il clima possa riscaldarsi al più presto! Il nome della compagnia aerea è sì fittizio, ma le frasi riportate sono in realtà riprese da una recente campagna marketing di una compagnia low cost reale; cosa che ovviamente mi ha incuriosito non poco, sapendo che l’inquinamento da particolato metallico presente nei carburanti (anche degli aerei, non solo delle automobili) è ritenuto incidere significativamente sull’effetto serra e quindi sul riscaldamento atmosferico. Insomma, campagna pubblicitaria ingenua o spregiudicata? Quel che è certo è che la dispersione di questo particolato in atmosfera non sarebbe solo la causa dell’innalzamento delle temperature, ma sarebbe anche ritenuto funzionale alla propagazione delle onde elettromagnetiche… e questa è solo l’entrata della “rabbit hole”.

Come definiresti le fotografie presenti nelle opere?

La mia è una fotografia trovata e presa in prestito. È la foto di una foto, arrivata a me senza che lo volessi. Come fosse posta indesiderata. Vedo la home del mio Instagram come una buca delle lettere piena di posta indesiderata. Ecco, credo che concettualmente la mia fotografia nasca tra i dépliant dei supermercati lasciati nelle cassette della posta. Mi piacerebbe fosse una “fotografia naturale” di una “fotografia artificiale” elevata a potenza.

Che cosa accade al “warning” quando entra in un’opera? Ci riferiamo alle immagini di inquinamento rosa. Che cosa accade quando una immagine viene mostrata per denunciare un problema o per evidenziare un allarme nel contesto dell’arte?

Nel mio caso non accade molto, anzi, spesso proprio niente. Sinceramente non vedo le persone molto preoccupate, anzi, proprio per niente. Non vorrei essere frainteso però: la tendenza ad alienarsi dai problemi, a evadere dalle responsabilità e dalle decisioni vincolanti non credo sia segnale di mancanza di umanità, o meglio, la sopraffazione dell’alienazione sul sentimento di umanità penso sia dettato dal fatto che tutti siano sì tragicamente preoccupati per le sorti del genere umano (in termini materiali quanto spirituali), ma il sentimento di impotenza verso problemi di scala globale ha un effetto paralizzante, nella apparente totale mancanza di alternative possibili. Ovviamente, la mia speranza è di smuovere una piccola “virgola” in ogni persona che ha contatto col mio lavoro e di piantare un semino del dubbio sul perché alcune tematiche siano considerate tabù nel dibattito generale. Mi piacerebbe che un giorno tutte queste “virgole” e “semini” potessero unirsi e muoversi verso una consapevolezza critica condivisa. Spesso, però, ho la sensazione che la maggior parte del pubblico non conosca neppure la grammatica del linguaggio per comprendere. Lo scambio di informazioni è al rallentatore, e molto tempo è speso per introdurre i concetti basilari di un discorso che si sviluppa su ben altri livelli di complessità. Seppure io trovi sempre più difficoltà a riporre speranza nei miei contemporanei – cosa che mi provoca un dolore talmente intenso da non avere parole per descriverlo –, mi consolo sperando che qualcuno, tra due generazioni, quando si interrogherà sul perché il mondo si sia evoluto in una direzione piuttosto che un’altra, durante le sue ricerche potrà trovare la documentazione del mio pensiero attraverso i miei lavori e che, finalmente interpretati in prospettiva, potranno essere decodificati a pieno. Così un giorno, quando nuovi giacimenti di gas e petrolio saranno stati resi accessibili scongelando quello scomodo strato di ghiaccio che sono i poli e la telepatia via Neuralink di Elon Musk sarà operativa, quel qualcuno avrà a disposizione una testimonianza che potrà farlo riflettere sul fatto che (e sulle motivazioni per cui) le basi di tali cambiamenti e delle tecnologie per renderli possibili furono gettate in un’epoca di distrazione di massa e annichilimento spirituale come quella odierna – una testimonianza dell’idea che l’innovazione (tecnologica e non) non sia una forza neutra, bensì sviluppata in direzioni stabilite ai fini di raggiungere obiettivi definiti da interessi superiori convergenti.

Let’s Forget About It Let’s Go Forward – From Meaning To Intensity (2016)

Ci interessa indagare il rapporto tra il medium fotografico e lo spazio interiore dell’artista che lo utilizza. In qualche modo potremmo leggere questo rapporto come dimensione scultorea o come spazio ulteriore della coscienza? Per te la fotografia è una scultura (metafisica o ultradimensionale)?

Sì, la vostra definizione mi sembra appropriata: “dimensione scultorea della coscienza”, mi piace. Cercando rapidamente dentro di me, ho la sensazione che le mie immagini fotografiche nascano da un settore interiore che chiamerei “coscienza visiva generativa”: una sorta di processo che attinge dall’archivio della mia memoria visiva, ne filtra i contenuti e li rimodella in nuove immagini. Ma la tua domanda mi ha riportato alla mente anche un altro pensiero che coltivo da qualche tempo, un pensiero che interpreta il mio agire come artista nel ruolo di scultore di pensieri: cioè, intuisco che un lato della mia pratica artistica tende allo scolpire pensieri (altrui? sì, ma anche i miei). Vista in questa ottica, la fotografia per me ha certamente una dimensione scultorea, in quanto attraverso le immagini che produco scolpisco pensieri. Una scultura metafisica ma non ancora ultradimensionale.

Immaginiamo l’oltrefotografia come una struttura interiore, al di là di questioni concettuali e ideologiche, appostata dietro/dentro/oltre la fotografia. Come immagini chi sta trasportando o spostando la fotografia verso il suo oltre, anche utilizzando nel frattempo altri media? Questo passaggio epocale indaga la faglia invisibile di ciò che la sola fotografia non è riuscita a mostrare o a evocare. Tu come ti poni in questa nuova fase o possibilità?

Bene, se mi chiedete di immaginare, io mi lascio andare. Perdonatemi se da qui in avanti i miei ragionamenti potrebbero non essere del tutto lineari. Prima di tutto il resto, io penso a Mark Zuckerberg. Ci sono conferenze di qualche anno fa in cui dice che l’obiettivo finale di Facebook è quello di implementare la telepatia tra i suoi utenti. Non so se dovremo dimenticarci della fotografia come immagine statica, ma quello a cui penso è una fotografia prodotta da impulsi in codice binario a livello neurale. Per quanto mi riguarda, è da tempo che immagino di sparare le immagini nella testa delle persone, proiettargliele nella mente. In questo senso, scolpire i pensieri. Tempo fa ho sentito dire che nel secondo dopoguerra, credo fosse negli USA, furono sperimentate delle macchine che attraverso impulsi elettromagnetici permettevano a una persona di imparare una lingua straniera nel sonno. Sinceramente, a me questa sembra una bella tana di coniglio nella quale infilarsi!

Cosa pensi a proposito dell’autorialità nel rapporto tra essere umano e macchina?

Affrontando la questione in quest’ottica nella quale i dispositivi per produrre immagini potranno essere integrati all’interno del nostro corpo in un sistema “bio-tech”, la questione sul valore dell’autorialità della macchina potrebbe risolversi, tornando ad essere pienamente “umana” (anche se di un umano un po’ evoluto: “umano aumentato”, potremmo dire). In verità però, questo è un dibattito che ho sempre trovato noioso. In un momento in cui tutti sono diventati dei pecoroni che pensano e fanno le stesse cose, il dibattito sull’autorialità diventa poco avvincente. In un momento in cui le persone si comportano come se fossero macchine pre-programmate, allora provocatoriamente ti dico: preferisco l’autorialità della macchina, ammesso che una cosa del genere esista. Ma almeno possederebbe un proprio carattere di originalità, in un certo senso.

Pensi che la valanga iconica contemporanea sia una conseguenza di tutto quello che è stato causato (e viene indotto continuamente) dal capitalismo delle apparenze?

Ne sono certo. Siamo diventati i marketing manager di noi stessi, lavoro e vita privata si sono fusi per renderci a tutti gli effetti lavoratori emozionali. Ma l’attività di self-branding quotidiano non-stop non mi pare essere una strategia di marketing che punta davvero verso i propri followers, quanto piuttosto a noi stessi. Questa valanga di immagini segue logiche iconografiche meramente materialistiche, producendo un enorme fracasso emozionale che ci fa dimenticare che la nostra vera essenza appartiene a un altro registro. A questo proposito, c’è una frase che mi fa sempre piacere ricordare: il silenzio interiore è la porta dell’infinito.

La velocità prevale sull’istante decisivo, la rapidità sulla raffinatezza, il transitorio divenente sulla durevolezza essenziale, l’immersione superficiale nella mediasfera prevale sul saper attingere profondamente agli archetipi di una memoria universale. Che nuovi scenari può indurre l’oltrefotografia?

Mi avete fatto tornare in mente questa frase: «Shakti, vedi tutto lo spazio come se fosse già assorbito nella tua testa nello splendore». Questo è il 60esimo di 112 modi – raccolti nel testo Trovare il centro – che Shiva enuncia quando Devi la interroga sulla natura della realtà divina e di come poterne fare esperienza pienamente. Lo scenario a cui aspiro, l’ideale da perseguire, non è materiale, il cambio di registro è spirituale, verso quella che tu chiami memoria universale.

L’atto di inserirsi in una situazione psicologica collettiva cosa ha spostato fino a oggi nei fruitori delle tue opere? Hai riscontri sulla loro sensibilizzazione rispetto al grave problema dell’inquinamento? Il mondo che frequenta l’arte contemporanea (e si trova perfettamente a suo agio nella società dello spettacolo), secondo la tua esperienza, è interessato prettamente alle questioni estetiche e concettuali delle idee e delle intuizioni, o pensi che i fruitori abbiano attivamente mosso qualcosa a livello politico-sociale?

Non dobbiamo avere fretta. La valutazione delle tempistiche di certi cambiamenti non si basa sulla stessa scala temporale con cui misuriamo la nostra vita. Il cambiamento oggi è impercettibile, tra due generazioni capiremo meglio. Io sono impegnato a muovere un granello di sabbia ogni giorno. E te lo assicuro, vedo che i granelli si stanno muovendo.

2. Simone Monsi, CAPITOLO FINALE , Courtesy Una Galleria e l'artista

[1] Simone Monsi (Fiorenzuola d’Arda, 1988) ha conseguito un MFA presso Goldsmiths University di Londra nel 2016, attualmente vive e lavora a Milano. Tra le mostre a cui ha partecipato si segnalano: Refresh02 – #LAYERS. Contemporary Art in the Digital Era, a cura di Fabio Paris e organizzata da iMAL, La Raffinerie, Bruxelles, 2018; Hyper-Faded Ordinary Life. Simone Monsi e Lucia Cristiani, a cura di Carlo Sala, TRA Treviso Ricerca Arte, Treviso, 2018; Deposito d’Arte Italiana Presente, a cura di Ilaria Bonacossa e Vittoria Martini, Artissima, Torino, 2017; Utopias are more or less fascistic, a cura di Roxane Bovet, Nicolas Krupp, Basilea, 2017; Spero che questo trasloco sia l’ultimo (solo show), Placentia Arte, Piacenza, 2017; Cyphoria, a cura di Domenico Quaranta, 16a Quadriennale d’arte, Roma, 2016.