Il miracolo genuino della letteratura è ciò che accade quando la vita sembra essere a lato del libro, quando all’improvviso i personaggi sono così reali che per un lungo e significativo momento, noi stessi diventiamo, con il libro in mano, meno reali.
Alejandro Zambra
L’anno scorso ho avuto mal di testa per tre mesi e mezzo. Da metà luglio a fine ottobre. Non 107 giorni ininterrotti di dolore, ma quasi. Una volta, al decimo giorno consecutivo, quando la mattina mi sono svegliata e la tagliola era ancora lì, conficcata nel lato destro della faccia, mandibola-tempia, ho pensato che l’unico modo per farlo smettere sarebbe stato saltare giù dal balcone. Cefalea a grappolo, o anche cluster headache o anche suicide headache.
Lo svantaggio serio del mal di testa è che debilita chi ne è affetto mettendolo in una condizione di sofferenza fisica più o meno intensa, senza tuttavia mostrare esteriormente lampanti segni di disagio. Quante volte un mal di testa viene scambiato con una luna storta. Una delle conseguenze è che molto spesso il mal di testa è una malattia sottovalutata. Quante volte come cura viene proposta una maggiore idratazione.
La cosa più triste di una malattia, però, è il senso di solitudine che impone, l’(auto)esclusione dal mondo dei sani, la convinzione di non essere compresi da chi sta bene. L’alienazione inflitta dal dolore. È forse per questa serie di motivi che, in quel periodo, mi è tornato in mente un racconto di Alejandro Zambra contenuto in I miei documenti (Sellerio 2015), e poi pubblicato in volume singolo, Io fumavo benissimo (Sellerio 2018).
Il racconto è sì la storia in prima persona di come il narratore cerca di smettere di fumare, ma la ragione per cui ci prova è l’insorgenza di questi famosi mal di testa a grappolo. L’io narrante si prodiga, in un certo senso, in un’autobiografia del fumo; oltre a essere un’attività in cui eccelle, per lui il fumare è indissolubilmente legato allo scrivere e al leggere. Nel suo resoconto, l’io narrante non manca di citare autori famosi e serie tv. Parla di Oliver Sacks e Dr. House in relazione ai mal di testa. Riporta lo scrittore Julio Ramón Ribeyro che a sua volta riporta André Gide il quale dice che «scrivere è un atto complementare al fumare». Tira in mezzo Heinrich Böll, grazie al quale, leggendo Confessioni di un clown ha iniziato a fumare. Nomina anche Svevo, il creatore del fumatore più celebre della penisola italiana, «leggere un romanzo senza fumare è impossibile». In forma di notazione diaristica il protagonista intervalla riflessioni su lettura e scrittura a racconti di fantastiche fumate e mal di testa lancinanti.
Da lettrice, mi ritrovavo nella descrizione del terrore per le ricadute, negli elenchi dei tentativi falliti, nello sconforto dei consigli inutili. E rileggendo il testo ho provato sollievo, se non fisico, per lo meno emotivo. Ho provato quella sensazione di comunione, accettazione e appartenenza a un gruppo non definito, ma di sicuro esistente. Quelle sensazioni cioè che, mal di testa o meno, i libri sono in grado di far provare.
Incoraggiata dal sentimento di fratellanza, generato dalla condivisione e dal fatto che qualcun altro là fuori aveva pensato di sbattere il cranio contro il muro finché non avesse perso coscienza, ho pensato di scrivere ad Alejandro Zambra.
Quando l’autore ha risposto, acconsentendo a una mia intervista, sopraffatta dall’emozione, credo di non essere stata in possesso di tutta la lucidità necessaria per formulare domande ben articolate e consequenziali. E il risultato è stato una serie di risposte parecchio eterogenee, ma che non differivano molto dalle numerose interviste già uscite all’autore sugli stessi argomenti.
Alejandro Zambra oltre a essere autore della raccolta di racconti I miei documenti, ha scritto due romanzi brevi, Bonsai e La vita privata degli alberi (pubblicati in Italia in un unico volume, Storie di alberi e bonsai, Sellerio 2018), e due romanzi, Modi di tornare a casa (Mondadori 2013) e Risposta multipla (Sur 2016). È uno degli scrittori cileni contemporanei più conosciuti, nonché uno dei miei autori preferiti.
Recentemente è uscita con in Gran Bretagna la raccolta di saggi Not to Read (Fitzcarraldo Editions 2018), un compendio di testi e interventi dell’autore su lettura, scrittura e, soprattutto, letteratura. È un libro per quelli che lo scrittore stesso definisce «una manica di nerd». Una piccola teoria della lettura zambriana, che ho cercato di arricchire con alcuni luminosi frammenti di quell’intervista che altrimenti sarebbe rimasta solo a occupare giga nella mia casella di posta elettronica.
Not to Read è composto – nella versione britannica – da cinquantaquattro brevi testi. Compaiono numerose recensioni e pezzi di critica. Su autori latinoamericani poco noti dalle nostre parti, come Alejandra Costamagna, Nicanor Parra, Josefina Vicens, Pedro Lemebel. O su “mostri sacri” della letteratura sudamericana, Bolaño, Borges e Neruda, solo per citarne alcuni. Quattro sono i brani dedicati ad autori italiani: la recensione de Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani, l’ammirato elogio all’opera di Dino Buzzati, la felice epifania rappresentata da Natalia Ginzburg che Zambra introduce dicendo che «la scoperta di un grande scrittore in qualche modo cambia tutto o tutto ciò che pensavamo di sapere: quei libri erano proprio lì ad aspettarci e noi ci sentiamo un po’ fessi per averci messo così tanto a trovarli». Infine, il divertente resoconto del pellegrinaggio a Santo Stefano Belbo sulle tracce di Pavese, in cui a seguito di una citazione da Il mestiere di scrivere, Zambra regala una massima di ispirazione pavesiana: «L’artista è per sempre un dilettante il cui successo minaccia il progredire del suo lavoro».
Molti sono gli interventi su varie sfumature della lettura, dai testi imposti a scuola, all’abitudine sua e dei suoi amici di passarsi libri fotocopiati, alla compulsione illogica di portare con sé, quando viaggia, libri che ha già letto due o tre volte, ma che lo fanno sentire al sicuro. C’è qualcosa sui festival letterari. Qualcosa sul parlare della propria città. Qualcosa sul tema libero.
Zambra quando scrive, qualsiasi cosa scriva, possiede una capacità stupefacente: quella di far sentire il lettore incluso. Come una di quelle persone che si ha sempre voglia di avere intorno perché mettono a proprio agio, lo scrittore cileno si apre con naturalezza e onestà ai lettori. Talvolta può risultare arrogante, altre superficiale, altre ancora divertente e arguto, ma emerge sempre carismaticamente come “uno di noi”. Uno scrittore, certo, ma ancor prima un appassionato lettore. Zambra a proposito scrive:
Quello che spero adesso, come lettore, è esattamente quello che cercavo quando avevo nove anni: di non annoiarmi. Posso dirlo in maniera leggermente più sofisticata: quello che cerco è di dimenticare che io stia leggendo. Dimenticare me stesso, e visto che sono uno scrittore immagino che questo significhi dimenticare anche di essere uno scrittore.
Nella lunga email di risposta alle mie domande, l’autore confessa di essere stato un “nerd” da ragazzo, scriveva e mostrava ad altri ragazzi, che sono tutt’ora suoi amici, quello che produceva:
Condividevamo e abbiamo continuato a condividere. Le loro esperienze erano molto diverse dalla mia. Molti dei miei più cari amici sono poeti e lungo la via ho incontrato nuovi membri della mia famiglia estesa. Penso anche alla letteratura cilena come a una grande famiglia, perché sono cresciuto leggendo la letteratura del mio paese. Sento come se avessi padri e patrigni, un sacco di sorelle e fratelli e lontani cugini.
In un saggio di Not to Read difende i libri che “intrattengono”, affermando che uno non comincia a leggere per diventare professore o critico o scrittore, sebbene per lui lettura e scrittura siano due facce di una stessa medaglia. Ciò è reso evidente in un passaggio in cui cerca ironicamente di articolare il motivo per cui scrive:
Scriviamo per leggere quello che vogliamo leggere. Scriviamo quando non vogliamo leggere gli altri. Ma la maggior parte del tempo vogliamo leggere gli altri. […] Spesso, quasi sempre, vogliamo leggere cosa scrivono gli altri, scriviamo solo quando gli altri non hanno scritto il libro che vorremmo leggere. Questo è il motivo per cui ne scriviamo uno noi, uno che finisce per non essere mai quello che avremmo voluto.
Sulla stessa linea paradossale troviamo un passaggio tratto dal brano Il silenzio di raccontare, in cui si parla di fiction:
Il cliché dice che a volte la verità è più strana della finzione. Forse è proprio lì, in questa frase fatta, che sta il significato della fiction. Magari scriviamo per confermare la disfatta della finzione. Per dimostrare che la finzione non è abbastanza, non è sufficiente. Che è buona solo a interrompere la vita per il tempo che dura una lettura. La finzione trionfa solo quando fallisce, quando ci lascia vedere tracce di realtà.
Nell’intervista, l’autore si esprime su concetti simili in maniera però più visiva e scanzonata. Dopo aver raccontato che l’impulso per scrivere un nuovo libro gli viene spesso dalla voglia di leggere quel libro, che tuttavia non esiste ancora, descrive le convenzioni di genere come una camicia stretta:
Continui a indossarla perché è l’unica che hai, e con il passare del tempo prende la forma del tuo corpo, quindi ti appartiene. Ma a un certo punto la strappi, e forse avevi bisogno di distruggerla, per capire che era tua. Se qualcuno dovesse chiedermi che cos’è il romanzo risponderei come un amante geloso: non lo so e non voglio saperlo. Alla fine nessuno sa davvero cos’è un romanzo.
Not to Read rappresenta un’epitome sfaccettata sui vari usi e applicazioni della letteratura in perfetto stile Zambra, il quale non differisce da quello nel racconto menzionato prima, Io fumavo benissimo. Il discorso viene continuamente interrotto riproducendo più o meno fedelmente l’andamento dei pensieri di una mente attiva e curiosa, che rimbalza da una parte all’altra tra citazioni e associazioni.
Questo forse è il più grande pregio del libro, che tra un’analisi e una spiegazione, tra una critica e una descrizione, compaiono, come margherite in un prato, riflessioni acute e spunti originali, di chi ha fatto del leggere e dello scrivere la propria occupazione.
I momenti che preferisco, tuttavia, sono quelli meno convoluti in cui Zambra arriva a parlare di letteratura, sia prendendo in considerazione le generazioni più giovani, abituate a interfacciarsi con testi – digitali – piuttosto che libri, sia citando le definizioni che altri scrittori danno alla materia. Come le ultime sette righe di risposta alla mia domanda, in cui riassume, con quel suo fare da compagno di bevute, il motivo per cui le persone leggono, le persone scrivono e la letteratura è importante.
Puoi dire che la letteratura parla di temi come l’amore, la morte e tutto il resto, ma io credo che sia solo uno il tema applicabile a tutta la letteratura: il tema dell’appartenenza. Ogni storia, ogni poesia, ogni brano scritto parla di appartenenza. C’è un io, c’è un noi di cui vogliamo fare parte o non fare parte. La letteratura è mettersi in contatto. Suona da fricchettoni, ma è davvero così, gira tutto intorno al condividere. Siamo una comunità che non sembra così interessante per il resto della società, ma siamo persone che vogliono entrare in contatto, davvero in contatto. Vogliamo pensare insieme.