La sezione del XIV Quaderno italiano di Poesia Contemporanea Marcos y Marcos dedicata a Carmen Gallo è intitolata La corsa. Si tratta di una scelta antologica dai due libri di poesie precedentemente pubblicati dell’autrice – Paura degli occhi (L’Arcolaio, 2014) e la plaquette Appartamenti o stanze (Edizioni d’if, 2016) – aumentata di un poemetto di 5 testi, inedito, che dà il titolo all’intera “raccoltina”. La ricerca poetica di Carmen Gallo è caratterizzata da una peculiare forma di sperimentalismo: partita nell’alveo del lirismo tradizionale – già però tramato di incrinature e inconsistenze – con Appartamenti o stanze si è spinta a inscenare una sorta di estroso “teatro psichico”, in cui personae e presenze fantasmatiche recitano una misteriosa pantomima, un dramma astratto e perturbante. Il poemetto La corsa prosegue in questa direzione, proponendosi come sequel della smilza plaquette e sviluppandone gli enigmi, i tic enunciativi.
A uno sguardo d’insieme, colpisce molto positivamente la parsimonia creativa di Gallo, che in 5 anni ha dato alle stampe un numero esiguo di testi, specie se paragonato a tendenze di segno opposto (il “pubblica-o-muori” pare regnare anche tra i poeti, del resto sempre più impegnati 24/7 nel “torneo micidiale” della visibilità). A un lettore che ha seguito il suo valido lavoro, però, spiace un po’ ritrovare le vecchie cose nella “raccoltina”: se da un lato, infatti, la selezione antologica ha il merito di sottolineare l’“unità di ispirazione” dei testi e anche di renderli disponibili (specie Appartamenti o stanze, oggi poco reperibile), dall’altro avremmo voluto addentrarci in qualcosa di totalmente nuovo, data anche l’abilità dell’autrice nel congegnare luoghi macrotestuali. Una simile situazione si verifica anche, sempre nell’ambito del XIV quaderno, con la raccolta di Giovanna Cristina Vivinetto, che insieme a una (nutrita) serie di inediti ripropone testi da Dolore minimo, opera incomparabile – per hype e baccano – ai più appartati libretti di Gallo. Perché riproporre testi già editi in una sede tanto ambita? Manovre del genere, a mio avviso, gettano lumi sull’ibrida natura del Quaderno: laboratorio creativo e macchina promozionale “di lusso”, collettore di energia poetica ma anche grancassa del “canone”, tappeto elastico, esempio di quello che nei media studies si chiama “effetto San Matteo”.
Mi addentro ora a ragionare sui testi di Gallo, partendo da i dieci tratti da Paura degli occhi, che si impongono subito per lo stile prezioso e respingente, sebbene ancora nel solco della lirica tradizionale. Più precisamente, Gallo sembra attingere a un linguaggio “meta-ermetico”, fatto di analogie preposizionali («la schiena curva delle parole», p. 132), accensioni sinestetiche («lasciare che la pelle infine veda», p. 132), violazioni logiche di vario genere («Abitarsi nelle mani e addormentarsi | a poche bocche di distanza», p. 135). Nello scenario lirico di Paura degli occhi il linguaggio sofisticato e scartante è usato per due ragioni: da un lato la dissimulazione – sul piano tematico – di motivi tipicamente lirici (come il travaglio affettivo e l’apostrofe al tu), dall’altro la riflessione teoretica, in particolare relativa al rapporto tra lingua e percezione visiva. Il testo di apertura adombra un rapporto diretto tra tirannia dello sguardo e fallacia della lingua, e forse da qui discende la volontà di autoaccecamento che permea la raccolta («come se gli occhi fossero finalmente | da un’altra parte», p. 136), il desiderio di liberarsi dagli schemi mendaci della percezione. Tale desiderio comporta infatti una specifica deflazione, scomposizione dell’io, diviso tra introversione endoscopica (come in Abitarsi nelle mani e addormentarsi, p. 135), derive simbolico-astrattive (Resistere all’aria immobile, p. 134) e referto di una percezione opaca, che tende allo scotoma o si integra con riflessioni sapienziali («E mai più cercare ragione del torto | perché il torto lo portiamo al collo», p. 136). Un’altra conseguenza di questo accecamento – oltre all’anatomia da “corpo in frammenti”, in verità sottorappresentata nei testi antologizzati – è la preferenza per gli infiniti autonomi, spesso riflessivi, affastellati in sequenze paratattiche.
Portarsi i pazzi a casa
dare loro da mangiare
la nostra lunghissima sera
togliere il nome alle cose che non tornano
prima che sia troppo tardi anche per noi
afferrarsi le maniche e chiedere ragione
di questi occhi che non si chiudono
di queste risa strette contro il giorno
oggi si accendono le luci
i cani non girano più armati (p. 137)
Gli enunciati nominali iterati generano un effetto a metà tra il training autogeno e la depersonalizzazione, («nella perdita degli occhi | tutto sembrerà inseguirci | ma noi impareremo a vivere | a essere senza di noi», p. 135). Gallo sembra ricusare il vedere in nome di uno stato percettivo meno organizzato e anarchico: la cecità pare una condizione autentica o desiderabile, in qualche misura liberatoria e più “democratica” («la caduta è rivendicazione silenziosa | di ogni cosa al di qua della visione», p. 136) La raccolta si chiude, tuttavia, con l’esortazione a «sostenere lo sguardo | del disastro» (p. 138), ficcando gli occhi nel volto di Medusa senza temere le punture del trauma e le aporie della percezione.
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I motivi portanti di Paura degli occhi tornano in Appartamenti o stanze,[1] ma sono immessi in una cornice generica diversa, di tipo teatrale-narrativo. Il Quaderno antologizza 23 dei 26 testi che costituiscono la plaquette ma sacrifica – per evidenti ragioni paratestuali – la Nota al testo e la divisione in sezioni. Appartamenti o stanze si apre con la scena di un grave incidente, in cui un uomo ha perso un braccio e probabilmente sta per morire. La descrizione è condotta in modo anomalo: da un lato, il testo mette a fuoco dei dettagli particolarmente vividi, come un braccio tagliato, gli occhi o il bicchiere. Dall’altro, i dettagli faticano a comporsi in una scena organica, in uno stato di cose coerente:
L’uomo ha accompagnato il vetro
lungo una linea gonfia e verticale
il sangue si è rappreso in fretta
sul braccio lasciato staccato
dall’asfalto incerto delle luci
le voci sul fondo della piazza
fatta più alta dagli alberi tagliati
la testa reclinata sotto il peso
degli occhi aperti, abbassati
a cercare il bicchiere più vicino. […] (p. 141)
Ritroviamo dunque la visione selettiva e le forzature della logica della raccolta precedente. Tuttavia, in Appartamenti o stanze l’autrice produce disturbi della testualità in modi più vari e sottili: tra questi, spiccano l’anomalia nella distribuzione delle informazioni (alcune taciute altre iperdeterminate) e l’ambiguità radicale del soggetto dell’enunciazione. La maggior parte dei testi della plaquette, infatti, è dominata da un “noi” che pare indicare un misterioso gruppo di presenze fantasmatiche, impegnate a infestare personaggi e luoghi in cui si svolge l’azione.
Noi siamo in piedi a sostenere il soffitto
che è diventato sempre più curvo
e poi è caduto e ci ha raccolti
e siamo diventati pareti bianche
conchiglie con le bocche chiuse (p. 144)
[…] La donna scava
la superficie piombata. Noi chiudiamo l’acqua
e la infiliamo vestita nella doccia.
La guardiamo finché non si spoglia. (p. 148)
Noi prendiamo posto nella sua macchina.
Sistemiamo gli specchietti, le allacciamo la cintura. (p. 150)
Questo “noi” fantasmatico è il filtro attraverso cui partecipiamo alla vicenda narrata nella raccolta. L’infestazione si verifica anche a livello della sintassi: il pronome noi viene ripetuto con altissima frequenza e costituisce – similmente ai nomi generici degli altri personaggi, come la donna bianca o l’uomo – una catena anaforica tanto potente quanto vaga a livello rappresentativo-referenziale. Il lettore, dunque, viene straniato perché il testo lo costringe a figurarsi con insistenza dei personaggi che rimangono però “infigurabili”. A tale ambiguità si assommano i dubbi sull’agency dei fantasmi, basata sulla ricorrenza ossessiva del vedere («Noi intanto la guardiamo, noi la guardiamo sempre», p. 150) ma anche sugli incantesimi del linguaggio («ci ha chiesto di sparire. Non vuole più ascoltare le storie che raccontiamo», p. 157; «Di notte proviamo a parlare, ma lui piange, piange, e non riesce a sentirci. Nessuno riesce più a sentirci», p. 158). Più ancora, grazie alle ragnatele linguistiche di Gallo, il lettore viene messo “al posto” del fantasma, vive attivamente l’esperienza paradossale dell’infestazione. Si trasforma, in altre parole, in un’ossessione, in un consesso di larve che partecipano alla vita degli altri personaggi e insieme ne sono separate, perché appartengono a un altro mondo, a un diverso piano d’esistenza; come gli “spiriti senza nome” a cui accenna Virginia Woolf in Gita al faro.
Ma quale tragicommedia, surreale e minimalista, viene inscenata in Appartamenti o stanze? Nonostante le anomalie narrative e i macchinismi enunciativi, sembra possibile individuare una trama di massima: l’incidente dell’incipit – forse una caduta dal balcone a cui si sovrappone un incidente stradale – costituisce un evidente nucleo traumatico, che riaffiora anche nei testi finali della raccolta («ho provato a raccontarlo il lancio la caduta | ma poi lui è caduto e cade ancora», p. 160). A questo si aggiungono conflitti e altri traumi domestici, tra cui la malattia della «donna bianca» (tematizzata ad esempio in La donna bianca adesso è una sedia, p. 151). Nella prima parte della raccolta i fantasmi – incarnazioni o proiezioni dei traumi – compiono azioni simboliche, spengono la luce, chiudono le porte a chiave, manovrano gli altri personaggi come pupazzi. Oltre a infestare, agiscono come custodi di un limbo psichico-domestico, guardiani di un paradossale, luttuoso equilibrio.
Dalla prosa Adesso non sappiamo dove andare (p. 153) la situazione cambia: i fantasmi allentano la loro presa su persone e cose, e vengono confinati, rinchiusi in una stanza finché non rimangono in due e poi spariscono del tutto. («Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo cominciato a sparire, uno a uno», p. 154). La donna coi capelli neri, vittima preferita degli spettri, diventa via via più libera: «Le abbiamo coperto gli occhi, e le orecchie, e la bocca con le mani. Perché non sentisse, non sapesse cosa accadeva intorno. Adesso dice che vuole vedere, decide lei quando vuole parlare.» (p. 153).
Nell’ultima sezione, concluso l’esorcismo (ma a ben vedere la sparizione sfuma in una disturbante ubiquità “linguistica”, p. 159), Gallo abbandona la prosa adottata nei testi centrali per tornare a un’impaginazione lirica più tradizionale. Negli ultimi componimenti non sono più i fantasmi a parlare, ma «una donna che parla in prima persona, e prova a rivolgersi a un tu», come recita la Nota al testo della plaquette originale. Il motivo è probabilmente quello dell’elaborazione di un lutto, fisico e/o simbolico, che non viene rimosso ma trasformato. Nel conclusivo tutti scompaiono, infatti, si fa ingresso in un «nuovo ordine di calamità», in cui la donna, sebbene ancora «estranea ad ogni assestamento» (163), è più libera da ossessioni e schiavitù che prima parevano insormontabili.
Appartamenti o stanze è un’opera innovativa perché narrativizza il conflitto interiore, lo spazializza, lo inscena come a teatro: un conflitto che – se da un lato sembra avere una realtà tutta psichica – dall’altro sfocia in una dimensione collettiva, comprende altre persone, spazi, oggetti e ricordi. Al di là della strutturazione accattivante – e del mistero, della frustrazione che quest’opera impone al lettore – l’autrice tenta una riflessione sulla natura infestante del pensiero, che, visto dal di dentro, si estroflette nel mondo, si avvolge intorno alle cose, deforma lo spazio, il tempo, gli esseri umani e le loro interazioni.
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Ne La corsa, Carmen Gallo pare addentrarsi ancor di più nel percorso sperimentale cominciato con Appartamenti o stanze. Il linguaggio si fa figuralmente scarico, quasi di grado zero: l’oscurità è tutta spostata sulle ambiguità enunciative, sulle sovrapposizioni delle “scene” narrative – quadretti monchi e rapidissimi – e sulle possibili interpretazioni allegorico-simboliche. Il breve poemetto si ispira all’ephedrismos, un antico gioco greco in cui bisogna colpire un bersaglio con un sasso. Si gioca in due, e chi perde incorre in una curiosa penalità: il vincitore sale sulla schiena del compagno e gli copre gli occhi con le mani; così accecato, il malcapitato deve correre in direzione della pietra che ha fatto da bersaglio.
L’anima “dialettica” del gioco si presta bene alle “psicomachie” care all’autrice. La corsa si presenta come un sequel della raccolta precedente, per l’omogeneità del tono, per le analoghe presenze fantasmatiche e per la temperatura emotiva, presa tra l’algido dell’astrazione e l’urgenza di mettere in scena il goufre, di far recitare fantasmi e proiezioni. Anche l’indicazione peritestuale, posta in apertura, richiama la Nota al testo di Appartamenti o stanze, la sua oracolarità stenografica, il gioco esibito dei pronomi: «Tutti i personaggi di questa storia sono due. | Alcuni giocano, altri si nascondono. | Ma sono sempre due, come noi.» (p. 166). L’autrice invita a lambiccarsi il cervello per indovinare chi parla e chi c’è sotto la maschera dei personaggi chiamati sul palco dei 5 testi che compongono il poema. Il corsivo esibisce anche un’altra chiave: oltre al gioco dell’ephidrismos (di cui ci informa la nota in calce), il poema inscena anche una sadica “caccia all’uomo” in cui le figure umane provano a nascondersi dal noi fantasmatico, che si esprime in corsivo nei primi quattro testi (e, quindi, probabilmente, anche nelle righe di introduzione appena citata). L’impaginazione dei primi 4 testi può essere paragonata a quella di una regia teatrale che divida il palco in luoghi separati, in cui si svolgono scene in simultanea: dopo i versi introduttivi, in cui si spiega la dinamica del gioco e la dialettica confusiva a cui si prestano le figure («il gioco non è chiaro | la posa sempre identica | chi vince acceca l’altra», p. 167) interviene il corsivo fantasmatico, che sovverte e distorce le regole imponendo ai giocatori il proprio sadismo manipolatorio e haunting.
Le scene narrative del poemetto, che si sovrappongono creando effetti di interferenza, sono almeno 5: 1) le due donne giocano all’ephidrismos, una perde e carica l’avversaria sulle spalle; 2) il noi fantasmatico (maschile) che cerca di stanare il proprio bersaglio, probabilmente sempre le due donne o una loro diversa proiezione («Devi trovarle finché respirano ancora. Devi convincerle a restare con noi. Ad amarci per quelli che siamo»); 3) le due donne che dialogano tra loro cercando di sfuggire ai fantasmi («“Arrivano” | “Dove andiamo adesso?», p. 169); 4) zone in cui la prima plurale si alterna all’io e al tu: una scena ospedaliera («Siamo in una incubatrice, in una clinica […]. Io non sto bene, non respiro bene», p. 168) e un’altra in cui il noi si trova a faccia a faccia coi fantasmi («Non ricordo quando è accaduto, quando sono arrivati i colpi. Adesso però loro sono qui e ci guardano e ci parlano […]», p. 169); 5) un testo conclusivo in cui si torna ai modi di Paura degli occhi (La fine del gioco).
Gli straniamenti narrativi e enunciativi operati da Carmen Gallo si costituiscono in modo insieme flemmatico e ardito, con sofismi da conceit metafisico e modernista (di modernismo parla anche Massimo Gezzi nella prefazione alla raccoltina). In Storia di chi vince, i fantasmi si presentano «uno sopra l’altro» (p. 169) cioè nella stessa posizione del gioco in cui dovrebbero trovarsi le due donne. Le donne sono allora anche fantasmi? Il noi fantasmatico, inoltre, dichiara in modo scoperto «Finiamo male noi se le colpisci alla nuca» (p. 167), quasi a sottolineare la sua essenza ossessivo-proiettiva.
In genere tutto il pometto pare un tentativo di far convivere l’esistenza mentale delle ossessioni con la messinscena allegorica di un rapporto intimo, in cui chi “vede” non può muoversi e viceversa. Rimane limpido il contrasto, già presente in Appartenenti o stanze, tra l’ubiquità dei fantasmi («Torneranno da noi senza saperlo perché noi saremo ovunque», p. 169) e il desiderio-possibilità di sottrarsi che muove i personaggi “umani” («Chi corre scompare | ma si porta dietro tutto. Chi resta | impara a nascondersi | […] Le cose non accadono a quelli che spariscono», p. 171). La corsa, però, mi pare aggiunga un elemento di solidarietà, di connessione umana: le due figure dell’ephedrismos, infatti, paiono sostenersi teneramente – quasi con pietas – piuttosto che schiacciarsi nella lotta. Questa forma sghemba di sostegno è l’unica possibile in uno scenario psichico in cui le ossessioni ambiscono ad inquinare ogni angolo della soggettività. D’altra parte, ragionando sui titoli delle poesie e sulle indicazioni contenute nell’ultimo componimento (La fine del gioco), “chi vince” e “chi perde” potrebbero anche coincidere con il dentro e il fuori del soggetto: avremmo un così un corpo in fuga, ma cieco, che custodisce un’io nascosto, ridottosi al minimo per sfuggire al dolore. Allusiva e arzigogolata cronaca, forse, di un difficile abbandono.
Ne La corsa Carmen Gallo porta all’estremo il minimalismo intrapsichico di Appartamenti o stanze: il testo tuttavia perde un po’ in Unheimliche, se confrontato con le disturbanti architetture, le compatte scenografie del libro precedente. L’opacità delle allegorie e l’impossibilità di ricostruire le varie situazioni enunciative – iperstratificate – virano in una specie di eccesso didascalico: un didascalico “vuoto”, che spiega senza spiegare, che forza i lettori a moltiplicare le interpretazioni e insieme li frustra, costringendo a guardare le scene come da un vetro smerigliato. Il vetro della «teca» che custodisce le antiche statue, ma anche quello dell’«incubatrice» menzionata in Prova di lancio. Lo spazio frammentato e molteplice in cui si svolge il poemetto sembra infatti contenere una regolarità: l’incubatrice, la teca, il cerchio sono spazi di cura, ambienti protetti, ennesime stanze di esorcismo. Luoghi di riabilitazione dalle ferite che percorrono il linguaggio e minacciano l’esistenza del soggetto. E ad una sorta di funzione-incubatrice – azzardo – è possibile ricondurre la stessa voce poetica di Carmen Gallo. Ai tentacoli ubiqui del trauma l’autrice oppone le difese dell’astrazione e della sparizione, al contagio della lingua (dell’immaginario?) un macchinoso fin de non-recevoir, un confortevole sono-e-non-sono-qui.
Le astuzie di Gallo catturano! Viene però da chiedersi – a questo punto – se in futuro l’autrice moltiplicherà strati, mediazioni e aggiramenti, o se, al contrario, calcherà il tratto, inseguendo i destini esiziali dei suoi pupazzi, l’estro barocco che sotto sotto muove il suo circo.
[1] Le considerazioni su Appartamenti e stanze sono la rielaborazione di un intervento che ho proposto al convegno Teoria&Poesia: ad esempio? (Università Roma 3, 2018), intitolato “Spiriti senza nome”: narratività e immagini in appartamenti o stanze di Carmen Gallo.