Immaginare un luogo. Farlo a lungo, a fondo, con passione. Immaginarlo anche inconsapevolmente, magari camminando, scrivendo o sbucciando una mela, e rendersi conto un giorno di aver coltivato un’idea sotto forma di città, concimata con letture e racconti, foto altrui e desideri propri.

Poi partire, vivere questo luogo, sovrapporre all’idea la realtà, e sentire d’un tratto l’inconsistenza di quella prima città pensata. Anzi non sentirla, non riuscire a ricordare più, già dopo poche ore dall’arrivo, che forma si era data all’altrove, prima che l’altrove diventasse un qui.

Quindi ricominciare a costruire, chissà se meglio o peggio, lo spazio dietro un nome.

Il nome, nel mio caso, è stato Kyōto.

Da queste due sillabe, dal suono di questi due kanji, sono ripartita per cercare di ricordare cosa fosse per me prima di arrivare in Giappone. Il legame più lontano a cui mi pare di poter risalire è quello col Protocollo del 1997. Che fosse del 1997 ho dovuto in realtà cercarlo in rete, ma quel che sapevo senza dubbio è che a questo Protocollo sono associate le mie prime consapevolezze ambientaliste, su una scala più larga della raccolta differenziata a cui sono stata educata da tempi non sospetti, della bici con cui ho fraternizzato sin da bambina, delle domeniche nelle oasi e dei pomeriggi al parco. Nel 1997 “ambientalismo” diventava per me anche una questione mondiale. E il mondo era sotto quel nome breve ma evocativo di lunghe distanze: Kyōto.

Oggi che la percezione della crisi climatica si è espansa davvero su scala globale e sembra finalmente entrare nelle agende pubbliche come priorità, è possibile percepire a Kyōto qualche traccia di quell’ambientalismo della prima, o forse seconda, ora? Difficile a dirsi, come è difficile definire gran parte della cultura giapponese. Probabilmente perché definire è in sé un’attività di chirurgia razionale, di notomizzazione distintamente occidentale che poco si attaglia a questo luogo. Sprovvisto di forchetta e coltello tanto a tavola quanto nel pensiero, il Giappone si nutre piuttosto di mistero e allusioni, simboli e intuizioni. Non posso dunque che raccogliere qualcuno dei miei pensieri, ben consapevole di quanto siano parziali, opinabili, relativi. Solo sussurri, in risposta a quelli suggeriti da una città che mi ha accolto per qualche mese, in una coda di inverno che si è fatta lentamente, stupendamente, primavera.

kodaiji

Declivio di bambù nel giardino del Kōdaiji

Mi rendo conto scrivendo, scorrendo con la memoria questi mesi, che la bellezza di Kyōto sia fortemente debitrice proprio nei confronti della memoria, nel senso primo di processo cognitivo. Perché i ricordi, si sa, sono selettivi. E di quella che è nota come “città dei mille templi” tendono a rimanere immagini dei templi, appunto, delle ville, dei rispettivi “mille giardini“, per usare il titolo di un racconto giapponese di Calvino. L’asfalto e il cemento che circondano queste oasi di bellezza si disperdono, tendono a non sedimentarsi nella mente. Eppure ci sono, occupano la gran parte della vita quotidiana e, credo di poter dire, sono piuttosto lontani dal bello, almeno tanto quanto lo sono dalla natura.

Sembra come se, sottostante alla città e in grado di darle forma, agisca il principio cardine dell’haiku, forma poetica distintamente giapponese, brevissima, fatta di tre versi afferrabili con un solo colpo d’occhio e, volendo, un’unica emissione di voce. Basta aprire una qualsiasi raccolta di haiku per capire: si troveranno pagine per lo più bianche, con questi poemetti a galleggiare leggeri di tanto in tanto, nella loro espressione condensata. Ecco, l’equivalente della pagina bianca nelle raccolte di haiku, e originalmente nel sumie (il dipinto a inchiostro e acqua in cui l’haiku trova il proprio ambiente d’elezione, composto in incantevoli caratteri calligrafici), l’equivalente di quello spazio vuoto è oggi, in una città come Kyōto, lo spazio pieno di asfalto e palazzi, pali della luce e fili elettrici, automobili e semafori, nonché suoni e rumori costanti. Potrà apparire paradossale, ma posso assicurare che non lo è, almeno non del tutto.

La bellezza e la natura ci sono, sì, ma concentrate, raffinate: non solo perché squisite, ma proprio perché frutto di un processo di raffinazione. Processo di natura storica, essendo Kyōto stata la capitale dell’Impero giapponese per più di mille anni, dal 794 al 1868. Ma in fondo anche di carattere topologico, la bellezza andando ricercata con dedizione in una geografia che tende a nasconderla. E così, si diceva, si attraversano le brutture dei vicoli e degli stradoni con la stessa avidità di ricompensa estetica con cui l’occhio sorvola lo spazio bianco di una composizione sumie. Ma se in quest’ultimo il vuoto assume un valore fondamentale per l’equilibrio della composizione stessa, viene da chiedersi se il contrasto sia davvero imprescindibile nella città. Fosco Maraini, in Ore giapponesi, risponde al quesito rilevando una matrice filosofica e una più eminentemente pratica dietro la disarmonia urbana, in una cultura in cui altrimenti l’armonia avrebbe un ruolo portante: da un lato «il bello ch’è subito bello ha già in sé una vena di volgarità»; dall’altro «il bello, essendo per lo più recondito, è necessariamente aristocratico. Accostare dunque la città, il luogo dove tutti vanno e vengono, il territorio pubblico per eccellenza, all’idea di bellezza sarebbe un controsenso».

Una bellezza interdetta, quindi. Eppure una bellezza che quasi sempre è esaltata ed esalta la natura, che è per antonomasia qualcosa di libero, accessibile, comune. Un altro paradosso, forse apparente forse no. Il paradosso dei giardini di Kyōto. Qui la natura, quella natura sulle cui tracce era partito questo percorso, finalmente è scovata, affascinante e superba, in forme sempre diverse. Dal dolce declivio di mormoranti bambù nel Kōdaiji al placido lago accostato al Daikakuji, dalle pietre e dai ciottoli del Ryoanji allo specchio d’acqua che duplica l’incanto del Kinkakuji, dal muschio dorato del Gioji ai mezzi coni e ai coni di sabbia del e del Kamigamo, dai ciliegi del castello Nijō ai pini di villa Katsura. Pietre, acqua, muschi, cespugli e alberi che si combinano seguendo ritmi su cui non si smetterebbe mai di cercare nuove prospettive. Perché il paradosso, allora? Non è forse quella, non è forse lì la natura?

Ecco, forse no. Non solo perché per vederla quasi sempre si paga un biglietto, pur basso, che è il biglietto d’ingresso al tempio o alla villa che il giardino cinge. Dunque manca la gratuità che è caratteristica primaria del mondo naturale. Non solo, poi, perché ne è ammesso un godimento puramente intellettuale, a distanza, che senza dubbio eleva spiritualmente (e lo fa davvero, che ci si creda o meno, che si sposi o meno la filosofia Zen) ma sottrae anche un grado di prossimità a cui l’essere umano tende per istinto in quanto creatura naturale, pur se pensante. Ma perché, come in tutti i giardini del mondo, la natura è qui tutt’altro che franca, libera, selvaggia, bensì irreggimentata, figlia di un processo culturale che tende a celare sé stesso eppure non manca di agire.

La letteratura sui giardini giapponesi e sulle differenze rispetto a quelli occidentali è folta e a crescita rapida quasi quanto un bosco di bambù. Volendo ridurla a un nocciolo minimo, si può dire che mentre nel giardino all’italiana gli elementi naturali sono piegati a simmetrie e disegni geometrici, chiusi in aiuole, vasi, spalliere e bordure da cui la presenza antropica si leva come una voce autoritaria, nei giardini giapponesi si hanno piuttosto asimmetria e disordine, angolazioni impreviste e variazioni continue. Qui dunque si preferisce ascoltare, più che sovrastare, la voce della natura, imitando le forme che questa assume allo stato originario. L’artificio si nasconde, l’effetto di naturalezza è incantevole, a volte quasi estatico. Però la naturalezza non è vera e propria natura. Ci si avvicina molto, anche moltissimo, ma non lo è del tutto. Con questo non intendo sminuire la bellezza e il valore dei giardini giapponesi, solo provare a contestualizzare il rapporto della cultura nipponica con la propria natura, al di là di facili mitizzazioni e piuttosto frequenti fraintendimenti.

kamogawa

E fuori dai giardini, cosa è della natura al di fuori? Mi pare che gli abitanti di Kyōto siano particolarmente legati al Kamogawa, il fiume che lambisce il lato est della città, lungo il quale sorge gran parte dei templi, l’Università di Kyōto, nonché il Palazzo Imperiale. Eppure, anche in questo caso, per apprezzare la bellezza del fiume, del suo letto largo e del suo fluire placido, bisogna riuscire ad astrarsi dal cemento che lo irreggimenta – compito forse più arduo rispetto all’entrare in un giardino, che nel suo insieme non è disturbato da brutture così prossime. Anche il cosiddetto Sentiero del Filosofo sollecita uno sforzo mentale simile. Una delle mete preferite di locali e turisti durante la fioritura dei ciliegi, questa passeggiata segue il corso di un canale in quella stessa zona orientale della città di cui si è detto, fecondissima di templi più o meno imponenti. A fine marzo i ciliegi le donano una copertura rosa pallido simile a quella di una nevicata al tramonto. Ma, anche in questo caso, per arrivare al sublime naturale non si può non passare per cemento bigio e pietre squadrate, quelle del canale e dei frequenti ponticelli che lo attraversano.

Credo sia dovuto a questa onnipresente incombenza del grigio che, in primavera, gran parte dei Giapponesi fotografa i fiori a distanza millimetrica o, in alternativa, puntando l’obiettivo verso l’alto, così da avere il cielo come unico sfondo. La forma mentis legata all’haiku torna così a far valere le proprie ragioni: come Bashō che esclude l’universo per concentrarsi su una rana che salta in uno stagno, così il punto focale è ridotto al minimo e lo scatto è salvo, pronto ad essere inserito in quella selezione di punti focali che è ogni bacheca Instagram, raccolta poetica della post-modernità. Ma è, questa, solo una tendenza di massima. Per il resto non mancano fotografie agli alberi in fiore che coinvolgano anche sfondi di dubbia estetica, scattate di sfuggita persino mentre si è sul bus (ho potuto avere contezza della frequenza di questi scatti fugaci perché i telefoni giapponesi, per scoraggiare i maniaci da metropolitana e le loro foto a tradimento, producono il caratteristico ‘clic’ anche se la modalità è silenziosa). E forse questo dato è ancora più triste del ripiegamento sul focus minimo, perché denota in fondo una certa assuefazione al brutto, che può avere effetti disastrosi su ampia scala.

Di questi effetti disastrosi parla lo yamatologo Alex Kerr, con sincero dolore, in un libro il cui titolo italiano (Il Giappone e la gloria) tradisce la sensazione di rimpianto centrale nell’originale Lost Japan. Da questa narrazione affascinante si può ricostruire, tratteggiata tra aneddoti biografici invidiabili e affondi sulla cultura e l’arte giapponesi, la forbice che dagli anni ’70 in poi ha separato, forse inesorabilmente, prosperità economica e armonia ecologica. Si legge addirittura che un metodo per riconoscere se un film sia stato girato davvero in esterna oppure in un paesaggio ricostruito in studio sia l’individuazione di elementi antropici: se assenti, allora il paesaggio è quasi sicuramente riprodotto, visto che nella realtà non esiste più alcun angolo di Giappone in cui l’uomo non sia arrivato a imporre un proprio marchio di dominio, sia esso un cavalcavia, un traliccio o un filo elettrico. Non saprei valutare la veridicità di questa stima, inquietante soprattutto quando si abbia in mente l’imponenza atavica della natura giapponese, quando si pensi alle cryptomerie, ai ginkgo e ai canfori, all’incanto di isole come Yakushima o Miyajima, ai paesaggi nascosti di Nikkō, del monte Koya o del monte Murō, chissà se turbati per sempre. Ma pur in un contesto come quello di Kyōto, antropico per eccellenza, è vero che piloni e reticolati elettrici pesano sul paesaggio urbano più di quanto un occhio occidentale sia abituato a notare. Come nel resto dell’Asia una complicata trama di fili e fibre non interrati incombe sulle strade, maggiori o minori che siano, e anche a questo progressivamente, quasi inconsapevolmente, certo con una buona dose di amarezza, si finisce per fare l’abitudine.

Non solo, poi, l’elettricità che questi fili trasportano si nutre di un pegno estetico, bensì anche, forse soprattutto, di un pegno ambientale non indifferente. Come si legge in documento redatto nel 2017 dal Ministero di Economia, Commercio e Industria e dall’Agenzia per le Risorse Naturali e per l’Energia, al 2016 il Giappone dipende per l’89% da combustibili fossili, per il 10.3% da energie rinnovabili e per lo 0.8% dal nucleare. E se la percentuale di fonti non rinnovabili e più altamente inquinanti di per sé colpisce, ancor più allarmante è – a mio parere – la tendenziosità del documento: la pagina relativa alle energie rinnovabili sottolinea con sospetta insistenza l’inefficienza di queste fonti; la mappa relativa alla distribuzione dei rifiuti radioattivi è, forse non casualmente, l’unica dell’intero dossier ad essere scritta a caratteri così piccoli da risultare illeggibili; e in generale la sensazione che se ne trae è quella di un certo fastidio per la cattiva pubblicità che l’incidente di Fukushima ha generato, facendo crollare il nucleare dall’11.2% del 2010 al decimale odierno, e la volontà di tornare a investire in questo senso più che su un efficientamento delle energie verdi. Una voce critica in questo senso è da anni quella dello scrittore Ōe Kenzaburō, divisivo in patria ma efficace al punto da raggiungere il Nobel per la Letteratura nel 1994. Forse in Italia troppo poco conosciuto.

sentiero del filosofo

Il ‘Sentiero del Filosofo’ e la sua nevicata di petali

Si potrà obiettare che tutto questo ha poco a che fare con la città e il suo quotidiano. Non credo sia così. Al contrario, l’atteggiamento di un Paese nei confronti della questione ambientale, se problematico come in questo caso, non può che riflettersi anche nella consuetudine delle persone. Ma forse problematico non è l’aggettivo più adatto, perché quel che a me pare di vedere è proprio un’assenza di problematizzazione. Il caso della plastica è particolarmente significativo. Basta entrare in un qualsiasi supermercato o konbini (calco giapponese su convenience store) per essere aggrediti, anche visivamente, da un predominio assoluto delle confezioni in plastica. Le verdure sono quasi sempre imballate singolarmente, talvolta tagliate in metà o quarti accuratamente avvolti in immancabile film trasparente; alle mele è concesso anche il privilegio di una rete speciale che attutisca i colpi. I bento (pasti monoporzione che spopolano tra impiegati e studenti all’ora di pranzo) sono quasi sempre esposti in piatti di plastica dura, con ulteriori plastiche colorate a contenere le piccole porzioni di sottaceti, vegetali, riso e pesce o carne che costituiscono il tipico pasto giapponese, cui si aggiungono coperchio trasparente e eventuali salsine in piccole buste squadrate. Vicino ai distributori di caffè è comunissimo trovare della panna per macchiare la bevanda, rigorosamente monoporzionata in plastica. La totalità dei pesci esposti fa da carne in un hamburger di polistirolo e cellophane. Poi c’è il paradosso della dimensione delle confezioni: tutto è in miniatura, dagli yogurt ai filoni di pane agli snack, col risultato che gli imballaggi singoli finiscono per moltiplicarsi. Per arrivare a casi quasi esilaranti di matrioske di imballaggi, il più paradossale dei quali si ha trovando persino le buste per riciclare l’organico in confezioni di plastica.

In effetti, tanto la plastica è diffusa quanto è minuziosa e restrittiva la raccolta differenziata, col suo ruolo di discreta importanza anche nell’equilibrio della socialità: ogni famiglia è chiamata ad occuparsene a turno per il vicinato, dimostrando la propria affidabilità in un meccanismo di lontana matrice confuciana. Per questo mi sembra che il problema sia la mancata problematizzazione. In un luogo in cui il senso civico è così alto ed efficiente, basterebbe portare all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità di non produrre, prima ancora che di riciclare, rifiuti plastici, per ottenere un alleggerimento dell’impatto ambientale che non si stenta a immaginare invidiabile. E invece si è finito per far introiettare ai cittadini (certamente non solo di Kyōto) diverse consuetudini antiecologiche di seria portata: dall’accettazione alla cassa di sacchetti anche per il minimo acquisto, alla quasi totale assenza di opzioni vegetariane o vegane nella maggioranza dei ristoranti, passando per le ubique vending machines distributrici di bottigliette o per l’uso del simpatico ma energeticamente dispendioso woshuretto, immancabile in ogni bagno (un water elettronico con una serie di funzioni accessorie, come il bidet incorporato, la musica per coprire i rumori sgradevoli, il riscaldamento costante della tavoletta e molto altro, a seconda dei modelli: il tutto inevitabilmente collegato 24/7 a una presa di corrente).

Ed ecco qui che il racconto sembra essersi trasformato nella solita critica dell’Occidentale, arrivata a imporre i propri parametri su un mondo che conosce da troppo poco tempo. Ma il punto è che il tempo non c’è, né in Giappone né altrove – e in Occidente le cose non vanno certo meglio. Il punto è che la crisi climatica che nel 1997, ai tempi del Protocollo, sembrava un rischio futuribile, è oggi una realtà, a prescindere dalla longitudine. Sarebbe piaciuto anche a me abbandonarmi alla contemplazione dei templi, scrivere solamente del bello che ho visto ed astrarmi da questo presente in caduta verticale. Ma un po’ sono stata spaventata dalle vette altissime che il bello può raggiungere in questa città, forse proprio perché attorniato dal suo opposto. Un po’ credo sia arrivato – già da qualche tempo – il momento di affrontare con consapevolezza ecologica ogni aspetto del proprio vissuto, esplorazioni e viaggi inclusi. Del resto proprio il Giappone ha molto da insegnare: ichi go ichi e, «una volta soltanto» è concesso l’incontro con questa vita, col bello, con la natura. E sarebbe giusto che questa volta fosse la più armonica ed equilibrata possibile.