Non c’è stata nessuna battaglia (Marsilio 2019) è l’ultimo romanzo dello scrittore padovano Romolo Bugaro, quattro anni dopo Effetto domino (Einaudi 2015). Il libro è strutturato secondo due piani narrativi paralleli, che procedono a capitoli alternati: da un lato una giornata (come molte altre, e irripetibile) di un gruppo di ragazzi nella Padova degli anni Settanta, il racconto dei loro rapporti, dei loro conflitti, della loro quotidianità; dall’altro, le loro vite nei decenni successivi a quel momento, tra matrimoni in crisi, tossicodipendenza, fallimenti aziendali, trasferimenti oltreoceano.
Come nelle opere precedenti, la prosa di Bugaro, precisa ed eloquente come un sismografo, riesce a raccontare in pochi tratti intere parabole individuali e collettive; a rivelare, in pochi giri di frase, gli effetti di sommovimenti tellurici nell’interiorità e nelle classi sociali dei protagonisti. Se Effetto domino raccontava «una terra dove non esistono posizioni stabili» (p. 14), un mondo in preda alla frenesia di agire e di cambiare i rapporti e i confini interpersonali, Non c’è stata nessuna battaglia sembra andare nella direzione opposta: la terra delle posizioni stabili è il passato, e i suoi effetti si riverberano sui protagonisti per tutte le loro vite.
Malvestio: Mentre Effetto domino era un romanzo quasi interamente incentrato su aspetti economici e finanziari, mi è parso che Non c’è stata nessuna battaglia torni al modello dei tuoi romanzi più vecchi, come Il labirinto delle passioni perdute. Allo stesso tempo, introduce grossi elementi di novità. Mi sembra che per la prima volta in Non c’è stata nessuna battaglia si parli non solo di traumi privati, ma anche di traumi collettivi storicizzati, come la stagione della lotta armata e l’eroina, che non mi sembra siano mai apparsi in altri tuoi libri.
Bugaro: Hai ragione. In Bea vita parlo un po’ della stagione degli anni Settanta, della politica incandescente, violenta. Padova in quegli anni è stata una città estremamente difficile – gli anni Settanta sono stati anni creativamente fantastici, ma anche molto duri. In questo libro parlo di alcuni movimenti collettivi facendone, in un certo senso, dei personaggi. Provo una certa stanchezza per forme di narrazione molto ancorate al personaggio: “Antonio si alzò, andò alla finestra, guardò fuori…”. Secondo me la scrittura è infinitamente più elastica di così. Ho cercato di trattare in forma narrativa delle categorie molto più ampie, una delle quali è quella dei ragazzi che non hanno partecipato alla stagione delle lotte degli anni Settanta.
Che è un’angolazione abbastanza inedita da cui guardare a quegli anni, vista la fortuna letteraria e cinematografica della lotta armata.
Assolutamente. C’è tantissima memorialistica, molti film e romanzi che hanno raccontato i movimenti di quegli anni. Ma nel mio romanzo gli scontri e le manifestazioni sono a margine dei protagonisti. Accanto a loro, però, ci sono le altre categorie di cui mi sono occupato: quella dei membri del movimento antagonista e quella dei neofascisti di allora. Ecco, queste categorie ho cercato di trattarle, come cerco di fare da tempo, come personaggi collettivi.
E una cosa che traspare abbastanza nella tua scrittura, in effetti, è il fatto che non solo passi spesso dal narratore in prima persona a quello in terza, ma che ti metti a raccontare di personaggi individuali parlandone come di entità collettive. Allo stesso tempo, questi ritratti collettivi sono estremamente localizzati: descrivi con attenzione, precisione e realismo la quotidianità e le aspirazioni di quelli che non sono personaggi singoli, ma collettivi, categorie umane[1].
Esistono le psicologie collettive, i vestiti, i gesti, il parlare collettivi. Ci sono categorie di persone molto omologhe le une rispetto alle altre, che si somigliano in tutto, si cercano, tendono ad aggregarsi. Un bar di fighetti o i luoghi di ritrovo dell’ultrasinistra si prestano a un racconto soggettivato ma collettivo. Non c’è contraddizione tra i due termini. Si può farlo perché queste persone condividono tutto, sono raccontabili come un’entità unica perché in un’ampia zona del sé sono veramente omologhe. Io racconto quella zona indifferenziata dove tutti sono quello.
Quello che traspare dalle pagine di Non c’è stata nessuna battaglia è appunto un romanzo di formazione collettivo; e a me sembra che nella tua scrittura, anche al netto di questa parti su categorie umane collettive, l’interiorità dei tuoi personaggi perda di importanza rispetto alle relazioni (personali, sociali) che intercorrono tra loro. Nei tuoi romanzi capita di trovarsi davanti a relazioni sentimentali che si interrompono non per incompatibilità di carattere, ma di posizione sociale – come succede tra Gianni Carraro e Giovanna in Effetto domino.
Credo che le cose vadano proprio così. In Non c’è stata nessuna battaglia, per esempio, i ragazzi non politicamente impegnati di cui dicevamo sopra, che poi sono ragazzi socialmente avvantaggiati, incontrano una ragazza molto seducente e restano esterrefatti quando lei dice loro che deve andare a Eraclea l’estate a fare la cameriera: lei si manifesta come diversa da loro, cioè socialmente inferiore, e la relazione si interrompe immediatamente. Ci sono naturalmente molte eccezioni, ma il meccanismo di base è questo: ci si incontra prevalentemente fra omologhi e ci si accetta o ci si esclude sulla base della posizione sociale di vantaggio o svantaggio propria e dell’altro.
A questo proposito, leggendo i tuoi libri, sono sempre stato molto colpito dal modo in cui tratti il denaro. Quando il cinema e la letteratura italiana trattano del denaro, o lo fanno in maniera iperbolica, per cui i ricchi che si vedono al cinema sono tutti favolosamente, irrealisticamente ricchi, come ne Il capitale umano di Virzì o La grande bellezza di Sorrentino; o lo trattano con moralismo, quasi come se il denaro, quando c’è, fosse un peccato originale di cui provare vergogna, e si desse per scontato che non può essere stato acquisito con mezzi onesti (ho in mente La ferocia di Lagioia, per esempio; ma la speculazione edilizia è un tema dalla storia lunga…). Nei tuoi libri, mi sembra invece che manchi uno sguardo moralistico: i personaggi vivono in una dimensione che è regolata così, a cui non ci sono alternative. Per non parlare del realismo con cui il denaro è affrontato: ci si trova sempre davanti alle cifre precise che questi personaggi spendono o incassano, come in Flaubert o Balzac.
Io mi occupo di denaro per lavoro – stiamo parlando in uno studio legale, io sono avvocato, tratto soprattutto aziende in crisi, dove il problema principale è sempre la finanza, la liquidità. I protagonisti di Effetto domino sono figure che ho avuto modo di vedere da vicino. All’inizio della stesura del libro non mi piacevano granché, questi costruttori: ma strada facendo, nei tre o quattro anni in cui ho lavorato sul romanzo, sono stato preso da una specie di… pietà umana per loro. È gente che spesso nasce povera, che ha desideri di rivalsa. Non leggono, non vanno a teatro, né al cinema, però è troppo facile per me, figlio di un medico e cresciuto in una casa piena di libri, bollarli come zotici e ignoranti. Loro spesso sono nati in case col pavimento di terra battura, e non vogliono saperne che i loro figli vivano in quelle condizioni, con la stessa paura di non mettere insieme il pranzo con la cena. Peraltro, uno scrittore non deve né assolvere né condannare: la moralità di uno scrittore sta nell’osservare una cosa e cercare di restituirla con la massima esattezza, la massima precisione, la massima verità, non nel giudicarla.
Peraltro (ma è una cosa di cui è difficile rendersi conto fuori dal Veneto, forse già fuori dalla provincia di Padova) i nomi dei personaggi sono tutti nomi generici, da everyman – Rampazzo, Beltrame, De Faveri, Carraro…
Assolutamente. Ho lavorato molto sui nomi.
Una cosa che si nota subito, leggendoti, è una certa laconicità dello stile – pure pronto ad aprirsi in parentesi liriche, come anche nel finale di Non c’è stata nessuna battaglia. Non è certo uno stile sciatto, anzi, rifiuta quasi sempre il luogo comune e la frase fatta, ma si regge su una semplicità nitida della costruzione della frase, che tende a essere breve, quasi paratattica. La domanda che mi viene da farti, allora, è: quali sono i tuoi modelli di scrittura?
Io scrivo da tanti anni, e i modelli che avevo da ragazzo (la narrativa americana, Hemingway in primis, poi Salinger, Carver, in Italia Pavese), dopo un po’, si sono allontanati. Gli anni passano, si continua a scrivere, e alla fine si resta sempre più soli sulla propria pista. Io ora lavoro su disarticolazioni della frase che aprono a diverse possibilità, suggerendo di nuovo una dimensione collettiva del racconto: “L’ha incontrata in questo posto, oppure in questo…”.[2] Non mi rispecchio più nello stile di nessuno, è passato troppo tempo. Alla fine di tutto questo, forse, e comunque non solo per lo stile, mi ritrovo a sentirmi vicino allo scrittore da cui tutto è cominciato[3], Pier Vittorio Tondelli, alla sua capacità di passare dalla leggerezza alla malinconia; mentre un altro autore al quale penso spesso è Roberto Bolaño. La struttura di Non c’è stata nessuna battaglia, che si fonda su una pluralità di voci diverse, per certi versi è simile a quella de I detective selvaggi.
Una cosa affascinante dei tuoi libri è che i tuoi protagonisti sono investiti da eventi che arrivano all’improvviso, ma sono in realtà in preparazione da ere geologiche, quasi – come i fallimenti finanziari di Effetto domino o, prima ancora, de Il labirinto delle passioni perdute. I protagonisti dei tuoi romanzi non solo non sanno come reagire, ma hanno in realtà chiaro che non c’è niente che possano fare per reagire. I giochi sono già fatti.
Questa secondo me è una delle vere caratteristiche della contemporaneità. Noi tendiamo a pensare che i nostri risultati dipendano dall’entità del nostro impegno: la vita è il risultato dell’impegno individuale. Ma oggi questo principio è probabilmente modificato. Io, per mestiere, mi ritrovo spessissimo davanti a interruzioni della catena della responsabilità. Il nostro mondo è ormai talmente interconnesso e collegato a una tale infinità di luoghi di instabilità che, per dire, la cattiva gestione dei mutui immobiliari dall’altra parte dell’oceano causa un’onda d’urto che travolge delle persone da questa parte dell’oceano. Per restare più vicini a noi, il crollo delle banche venete, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ha provocato uno tsunami per famiglie e imprese che spesso è letteralmente piovuto dal cielo. Noi viviamo in un mondo infinitamente migliore che in passato – più risorse, più libertà, più salute – ma paghiamo tutto questo con l’incertezza, l’instabilità. Non sappiamo come fronteggiare fenomeni che arrivano da lontano e che sono imprevisti e incomprensibili.
In Non c’è stata nessuna battaglia, in un certo senso, mi sembra che ci sia un’inversione di questa costruzione narrativa: se Effetto domino raccontava movimenti inintelligibili che si manifestano in un’epifania improvvisa, in Non c’è stata nessuna battaglia si parte da un momento, se non epifanico, che ha un valore particolare che si riverbera su tutte le vite dei personaggi.
È vero. Questo è un libro molto più intimo, più personale. Per me è un romanzo sul tempo (non lineare, ma complesso, frastagliato): sul tempo della vita e sul tempo della fine della vita. Per un lungo periodo non ho più pensato ai miei quindici anni, e poi sono tornati a trovarmi da chissà dove. La mia generazione, quella degli anni Sessanta, è stata falcidiata dall’eroina; personalmente ho avuto diversi amici carissimi morti di droga. Volevo raccontare queste cose lontane, che sembravano sul punto di dissolversi e invece non si sono dissolte. Questo libro serve a parlare di come il tempo ci costruisce e ci destruttura.
Un’ultima cosa – una domanda stupida, forse. Quasi tutti i tuoi libri sono ambientati a Padova, e anche da questa chiacchierata mi sembra emerga che tu tendi a scrivere di cose che conosci. Mi chiedevo se valesse lo stesso anche per Padova: è l’ambientazione dei tuoi libri perché ci abiti, o è un luogo in grado di esemplificare qualcosa di specifico?
È un luogo che mi favorisce la scrittura, perché lo conosco bene, e mi è più facile farci dialogare i personaggi. Un luogo diverso risulterebbe probabilmente artificioso. La mia scrittura è sempre più ancorata all’esperienza, anche quella del paesaggio, dei luoghi. In Effetto domino questa esperienza era il mio lavoro: io vedo cose che la maggior parte della gente non immagina neanche esistano, e trovo che sia anche democratico raccontarle. In Non c’è stata nessuna battaglia questa esperienza è il passato, la vita di un gruppo di ragazzi, alcuni dei quali poi incontreranno l’eroina – anche se non ne parlo mai, parlo del prima e del dopo. Come già detto, la mia generazione è stata pesantemente segnata dall’eroina, la situazione attuale non è nemmeno paragonabile a quella di allora: negli anni Settanta ogni weekend c’erano due, tre, quattro morti. Un massacro silenzioso, che non ho mai potuto dimenticare.
Però è vero anche che la tossicodipendenza in generale, e l’eroina in particolare, ha un carattere di inevitabilità: una volta che si è cominciato, è quasi impossibile sfuggirvi.
È vero. Spesso racconto storie in cui, a un certo punto, si attraversa un confine: e da quel momento in poi è impossibile tornare indietro. L’eroina di Non c’è stata nessuna battaglia, per certi versi, è parente della catastrofe finanziaria di Effetto domino.
[1] «Sono figli di operai della Travis con busta paga di novecentomila al mese, iscritti alla Cgil dall’inizio degli anni Sessanta e membri storici della Rsu della fabbrica, oppure figli di docenti di diritto commerciale ben inseriti nel giro degli arbitrati e dei pareri pro veritate, con due giovani assistenti sempre a disposizione ed entrate a molti zeri, oppure figli di rappresentanti di commercio rovinati dai troppi bicchierini di Fernet e Stravecchio, uomini che negli anni buoni alzavano due o tre milioni al mese solo con la Indesit, ma adesso si ritrovano senza entrate, senza risorse, perché è difficile agganciare nuovi clienti e procurare nuovi contratti quando hai il labbro rotto dopo l’ennesima caduta uscendo dal bar» (Non c’è stata nessuna battaglia, p. 62).
[2] «Un giorno, a una festa organizzata nel giardino dell’Antonianum da quelli del rugby, i figli dei medici e degli avvocati e dei farmacisti incontrano una brunetta di nome Monica o Giada o Serena […]» (Non c’è stata nessuna battaglia, p. 44).
[3] Bugaro ha esordito con un racconto pubblicato nell’antologia Belli e perversi, curata da Pier Vittorio Tondelli per Transeuropa nel 1987.