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Quaderno XIV – Su “La settimana bianca” di Raimondo Iemma

Nei peggiori casi la sindrome di Barlow può condurre fino all’arresto cardiaco. Scoperta dall’omonimo medico sudafricano negli anni 60 del Novecento, la patologia consiste in un cosiddetto “click sistolico”, una complicanza nella regolarità sistolica della valvola mitrale del cuore; è attorno all’idea di questo male cardiaco che si sviluppano i testi di Raimondo Iemma.
La settimana bianca, divisa in tre sezioni (J.B. Barlow, La settimana bianca e Cade la Jugoslavia), si presenta come un operetta in cui il piano allegorico intrude e devia costantemente il significato letterale, provocando cortocircuti che forzano l’attenzione del lettore a risemantizzare continuamente il testo, in un gioco tra il paratesto dei titoli e i quadretti testuali.
Al centro di questi sta poi la vicenda “cardiaca” e il soggiorno in ospedale (è questo che si intende con “settimana bianca”) in un percorso poetico di non sempre facile decifrazione. Possiamo ipotizzare che alla sezione intitolata a Barlow, caratterizzata dalla descrizione di luoghi specifici (spuntano toponimi, spazi definiti e perimetrati) apparentemente immersi in un vuoto di stasi, inerisca la scoperta del male cardiaco, per cui si accede poi al corpo centrale, La settimana bianca, che inquadra la degenza in ospedale. Discorso a parte è invece l’ultima sezione, brevissimo corpo di quattro testi, il cui legame con le altre due parti trova soluzioni meno solide; mentre nella sezione centrale il titolaggio viene abbandonato, qui ritorna essenziale per cogliere il messaggio del testo, ora inaspettato capovolgimento nel finale (Un discorso di lotta armata), ora variazione sul tema (Pensare agli ascensori), ed è forse per la disomogeneità che ne deriva che questa sezione pare essere se non più la fragile di certo la più accessoria.

La rarefazione della lingua, il testo come piccolo quadretto, la costruzione sintatticamente ardimentosa, che procede per accumuli di sintagmi (p. 207) o per un mono-periodi senza frase reggente (pp. 209, 214) sono tratti che trovano la loro prova più completa nella sezione centrale dove la vicenda del mal di cuore assume anche una duplice valenza reale-biologica ed emotivo-sentimentale (divenendo “mal d’amore”). È fin dal titolo, come dicevamo, responsabile di un equivoco tra una dimensione genericamente positiva (la vacanza in montagna) e una negativa (la degenza ospedaliera) che Iemma con animo scanzonato indica la strada al lettore: nessuna delle due condizioni che attanagliano il cuore – quella biologica e quella metaforica – sono da registrare in termini tragici. Accanto ai macchinari in metallo, ai camici bianchi degli operatori sanitari, si svolge infatti un gioco che assume ora i tratti della farsa militaresca in cui i commilitoni sono gli altri pazienti:

Nel soggiorno militare il rancio
viene servito tre volte al giorno
tra i rimbombi della camerata
e mentre una sonda ci nutre eternamente
un drappello di camici all’orizzonte
è forse una legione di Tartari
qualcuno protetto dallo stipite li avvista

Ora le vesti di un tradizionale gioco di corteggiamenti tra pazienti e infermieri:

I malati sono belli, allettati
tra le rose del giardino, sono i pazienti
mobili che discretamente affollano
il reparto e proprio in quanto infermi
i loro tratti si fanno decisi
la luce sulla pelle più corposa
ogni infermiera in gran segreto
se ne innamora

L’ospedale assume quindi una fisionomia gioiosamente distorta in cui la medicalizzazione del paziente si fa occasione leggera, addirittura di meraviglia dove la zona dell’incisione diventa «il punto di ancoraggio alla missione | la stele che immortala i grandi esploratori», le persone in visita sono «turisti truffati» e i bendaggi un «involucro di addobbi nuovi». Anche quando compare in forme più oscure, l’ambiente ospedaliero non si risolve mai nell’inquietudine, nel drammatico o nel macabro, ma, grazie ad una serie di scelte oculatissime, la lingua vira sempre verso altri registri, comici o addirittura blandamente erotici, ricordando l’impasto tragicomico di una serie tv come La linea verticale di Mattia Torre, che ha superato la tradizionale rappresentazione della realtà ospedaliera:

Lo hanno riportato al suo giaciglio
è un involucro con gli addobbi nuovi
bendato dalla parte sana e l’altra
inoperata, ancora umana, cioè malata
nella tenda da campo c’è silenzio
si attende l’ordinanza del degente
solo un congiunto lo apostrofa dicendo
ecco il nostro visconte dimezzato

I malati come soldati intenti a perpetrare una goliardia da caserma, gli specializzandi come «pulcini», le infermiere oggetto di desiderio, ecco l’universo ospedaliero composto da Iemma. Tuttavia in questi quadretti sembra a tratti faticare l’emersione dell’intenzionalità dell’autore. O per la brevità come cifra stilistica o per l’eccessiva frammentazione dei contesti che si danno come singole visioni, sembra difficile intendere movimenti che si discostino dal solo intento ludico-descrittivo. Le immagini di Iemma hanno senz’altro il merito di fornire – attraverso un uso lavorato e personale della lingua – una visione fresca e inusuale, recuperando la capacità della poesia di mostrare le prospettive molteplici e complesse riguardo a oggetti e situazioni tradizionalmente intesi come monolitici, ma tendono, forse perché ammantate dal continuo gioco intellettuale di rimandi ed equivoci tra significati, a non lasciar penetrare il lettore negli strati più profondi del testo e nelle mire dell’autore che di certo non mancano.