Ferdinando Camon, padovano, classe 1935, è riconosciuto come una delle penne più originali e corrosive della sua generazione. Scrittore, giornalista, impostosi negli anni tra gli intellettuali di maggior peso nel panorama italiano, nel 1978 vince il premio Strega con il suo Un altare per la madre, tradotto in tutto il mondo e definito “opera d’arte sublime” da Raymond Carver. Nel 2016 gli viene conferito il premio Campiello alla carriera per aver saputo raccontare «in modo magistrale, tra gli altri, il tema della crisi: della civiltà contadina e dell’Occidente, dell’esistenza individuale e della famiglia, del terrorismo e dell’immigrazione.» Quest’anno, per Guanda, è uscito il suo ultimo libro: Scrivere è più di vivere. Sempre nel corso dello stesso anno viene ripubblicato, per i tipi Storia e Letteratura, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, un libro di interviste ai grandi autori del Novecento la cui prima edizione risale al 1973. Parliamo con lui proprio di questa ristampa.

 

Parto da una premessa: le sue conversazioni critiche, pur offrendo lo spaccato di un’Italia che non esiste più e di un fervore intellettuale inevitabilmente legato a un preciso periodo storico, aprono a riflessioni attualissime, fondamentali se parliamo del rapporto tra arte e società; al contempo hanno il pregio di restituire i profili intimi degli scrittori, i loro “tic” e i loro atteggiamenti nei confronti della vita e della scrittura. A quale di questi autori si è sentito più intellettualmente vicino? E perché?

Intellettualmente, e anche umanamente, mi sono sentito molto vicino a Pasolini, il quale era già stato mio “padre” – quando finii il primo libro, lo mandai per posta in un pacchettino all’editore nel cui catalogo volevo entrare, che era Garzanti. Passati venti giorni mi sento chiamare al telefono la mattina presto, io dormivo ancora. Dico: “Chi è?” e dall’altro capo mi rispondono: “Sono Pasolini. Ho qui il suo dattiloscritto. Me l’ha mandato Livio [Garzanti]. Vorrei farci una prefazione, se lei è d’accordo.” Ovviamente accettai e il libro uscì. Poi fece anche la prefazione alle mie prime poesie, e scrisse anche un piccolo saggio, incluso nei suoi Scritti corsari, sul mio primo libro di critica. Quindi è stato, oltre che padre in questo senso, una persona a cui ero molto legato umanamente: anche per la sua sofferenza, per il tormento che lo segnava, per i processi che subiva. Per questi motivi colui a cui mi sentivo più legato era Pasolini. Però avevo una strettissima amicizia con Alberto Moravia – ci davamo del tu -, con Vasco Pratolini – abbiamo visto intere partite di calcio alla sua televisione -, con Paolo Volponi – che fu mio estimatore, mio protettore al premio Strega-, con Roberto Roversi – mio carissimo amico che abitava a Bologna, che fu più volte a casa mia con la sua Volkswagen. Insomma erano molti gli amici, ma più amico di tutti fu Pier Paolo Pasolini.

Per la prossima domanda vorrei partire da un’osservazione fatta da Moravia. Dice l’autore romano che nel periodo fascista la letteratura era ritenuta «un’attività bizzarra, decorativa e innocua, anche per la sua incapacità, in Italia addirittura secolare, di esercitare un’influenza qualsiasi sulla società». Lei pensa che la letteratura venga ancora considerata una pratica innocua, incapace di incidere sulle coscienze e di entrare a buon diritto nel dibattito politico? Secondo lei che ruolo ha o dovrebbe avere, oggi, l’arte?

Il fascismo era un regime dittatoriale. Violento, repressivo, antidemocratico. Quindi che avesse questa opinione della letteratura è normale: non era certo una strumento che poteva scalfirlo o minacciarlo. Oggi siamo in un regime borghese: tutto è denaro, tutto è merce, conta soltanto il guadagno e tu vali per quello che guadagni. La letteratura rende poco, i libri sono una merce in decadenza, non si vendono più, e i giornali lo stesso. Chi scrive libri o scrive articoli, nella società borghese, è ininfluente. Oggi, se sei uno scrittore, conti poco. Conta di più un politico, un industriale, un imprenditore, conta di più chi ha capacità di intervento nel mondo della produzione e della politica: lo scrittore è un personaggio minore nella società contemporanea. La società è abbastanza refrattaria a tutto ciò che viene dal ragionamento, dal pensiero, dalla scrittura. È una società borghese e come tale è sensibile al denaro, ai potentati economici, ai soldi insomma.

Quali sono, se ci sono, gli intellettuali del presente che avrebbe il piacere di intervistare e antologizzare in una raccolta simile?

Mi è dispiaciuto non poter intervistare a fondo alcuni scrittori che stimavo molto, penso in particolare a Giuseppe Pontiggia e ad Antonio Tabucchi. Sono i massimi scrittori della generazione successiva a quella dei miei intervistati, purtroppo sono morti presto. Sono grandi autori, non sono riconosciuti per quel che valgono e questo perché noi tutti, scrittori contemporanei, non possiamo essere grandi: viviamo in un’epoca in cui le civiltà si succedono rapidamente l’una all’altra. Uno come me, per esempio, che è nato prima della fine della seconda guerra mondiale, che ha vissuto la guerra e quindi il fascismo, poi la democrazia cristiana, l’impoverimento della mia regione, il Veneto, l’esodo di massa dentro e fuori dei confini d’Italia, e poi la crescita impetuosa del potere politico della Chiesa, la morte del Pci, il boom e l’impoverimento, beh, ha vissuto molte civiltà, diverse l’una dall’altra, separate e incomunicanti; se ha fatto lo scrittore ha rappresentato piccoli strappi di ciascuna di queste civiltà. I grandi scrittori come Goethe e Thomas Mann, sono grandi perché hanno descritto sempre una sola civiltà: hanno lasciato un’opera che è un blocco unico, una testimonianza lunga e grandiosa di una civiltà nel suo funzionamento. Noi abbiamo fatto dei piccoli ritratti, restituendo piccoli lembi di queste civiltà, e perciò non abbiamo grandezza. In questo senso, nessuno di noi scrittori contemporanei può avere grandezza.

Estrapolo dal suo sito personale: «Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è già stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. È lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé». Mi spieghi meglio.

Prendiamo Pasolini, ad esempio. Quando parliamo di lui, oggi, sappiamo di riferirci a un grande scrittore. Però, a suo tempo, Pasolini fu messo in prigione per Ragazzi di vita. Fu condannato per oscenità, imprigionato, ecc. C’è bisogno di tempo, insomma, perché un grande scrittore venga capito e accettato: quando appare con la sua irruenza e la sua violenza, viene avvertito come un disturbatore, uno che danneggia l’ordine esistente e quindi viene osteggiato. Questo succede in letteratura ma succede anche nel cinema, nella pittura: è nota la storia di quella corrente francese – l’Impressionismo – che non trovava nessuna galleria disposta a ospitare le loro opere e che allora decise di esporle in una galleria a parte, tutte insieme, e questa esposizione fu chiamata Salon des refusés. L’artista, ai suoi inizi, urta contro l’incomprensione dei contemporanei: sarà capito più avanti, sarà accettato più avanti. Questo perché la novità che ogni nuovo autore porta è sì contenutistica, stilistica, lessicale, ma è anche morale: e la novità morale è sentita come turbante quindi inaccettabile. Questo fa sì che Moravia, Pasolini, Bassani e altri, agli inizi, siano stati rifiutati. È normale che uno scrittore trovi questo sbarramento di fronte a sé. Deve resistere e deve vincerlo.

Quindi sta dicendo che se si viene “canonizzati” fin da subito, c’è qualcosa che non va?

Vuol dire che non si sta apportando niente di nuovo, vuol dire che lo scrittore è in linea con la contemporaneità, con il pensiero dominante; non apporta turbamento alcuno, dunque è già uno scrittore scaduto.

Per concludere, mi rifaccio al titolo del suo ultimo libro. In che senso scrivere è più di vivere?

Io consiglio a tutti di scrivere. Scrivere non è soltanto un’attività consolatoria, è anche un’attività di comprensione: chi scrive fissa meglio la vita, la comprende meglio e la vive di più. Quando, ad esempio, sento dire da una donna dalla vita meschina che tiene un diario, sono contento per lei e per chi come lei affida la sua quotidianità alla pagina bianca. Il dare forma scritta ai propri sentimenti e alle proprie esperienze arricchisce la vita, la rende più comprensibile. Perciò dico: vivere senza scrivere è un banale esistere.