C’è un cadavere (quello della nutria del titolo), un protagonista che indaga (che tenta di svelare il mistero della morte dell’animaletto ritrovato sul pianerottolo di casa) e c’è una soluzione all’enigma. Insomma, Il giorno della nutria (Tunué 2019), il romanzo d’esordio di Andrea Zandomeneghi (classe 1983, in passato direttore della rivista letteraria «Crapula» e autore di articoli e racconti pubblicati in diverse antologie) si fonda, almeno in apparenza, sulla canonica struttura del giallo. Ma, tanto per cominciare, il cadavere non è quello di un uomo, ma quello di uno degli esseri viventi meno letterari della letteratura, uno di quei roditori da cui gli autori si sono costantemente tenuti alla larga, per quanto ampio spazio abbiano dedicato a esseri altrettanto abietti (basti pensare al Maus di Art Spiegelman o allo scarafaggio della Metamorfosi kafkiana). Il vero reato, ad ogni modo, non è l’uccisione della nutria ma il rilascio del suo corpo esanime davanti alla casa di Davide Aloisi. Il protagonista — nonché colui che “svolge le indagini” — non è né un commissario di polizia, né un giornalista di cronaca nera, né un medico legale, ma un «cefalgico cronico» (per essere più precisi, egli soffre «di cefalea tensiva cronica quotidiana») convinto che la nutria provenga da una sua colpa. Ha quarant’anni e una laurea in architettura (mai sfruttata); vive a Capalbio («questo porcile di Itaca») ed è costretto dal costante malessere all’interdizione di qualsiasi attività lavorativa; dotato in più che discreta misura di tempo libero, è vittima di un mal di testa che non passa mai, se non con le regolari ubriacature. È un essere cerebrale e cervellotico, sopraffatto da un vago e onnipresente senso di colpa, invadente e soverchiante, che la nutria acuisce. Il suo appetito sessuale è dilagante ma difficilmente trova sfogo e rimane intrappolato nella palude delle sue divagazioni.
Un episodio su tutti, presente nella «Parte prima», può fornire una precisa esemplificazione del carattere del personaggio: una mattina, risvegliatosi di soprassalto da un incubo, sentendo rincasare in dolce compagnia il suo ventiquattrenne e promiscuo nipote Giulio, comincia a trastullarsi; nel mentre inizia a pensare a un passaggio di Gilbert Adair, al film The Dreamers («nel film la storia è tutta edulcorata ed eteronormativizzata in maniera demente»), per poi dedicarsi ad alcune considerazioni sulla questione del «dissolvimento dell’identità». Va da sé che «la sega non andò a buon fine».
Il romanzo è suddiviso in due parti, la prima preceduta da un prologo, o capitolo zero, e la seconda da un interludio, dedicato alle prime letture del protagonista da ragazzo e a un ricordo di bambino, occasione per tracciare un paragone tra il giovane indifferente e padrone della situazione e l’uomo vinto da una complessa vulnerabilità. Il plot prende il via da una notturna ed estenuante partita a Risiko, complicata dagli pseudointellettuali soliloqui di Don Stefano, dalle copiose quantità di vino ingollate da Davide, dalle canne di nero preparate con attenzione da Esteban e conclusasi con la vittoria di Emanuele, l’unico tra i concorrenti a mantenere fino alla fine un qualche controllo di sé.
Terminata la partita, il gruppo si dirige verso il bar Le Burle, dove prosegue la seduta alcolica e nel giro di qualche bicchiere il protagonista perde il dominio delle proprie facoltà. Egli si sveglierà la mattina successiva con i ricordi annebbiati e un cadavere di nutria con cui fare i conti.
Il romanzo, che si regge su un lungo monologo interiore del protagonista, interrotto solo da brevi e circoscritti dialoghi, è composto da pochi e ben definiti personaggi. Questi si muovono nel ristretto spazio offerto da alcuni luoghi che, più che descritti e raffigurati, vengono misurati in base alla distanza dai centri maggiori; ed è così che Capalbio, «questo agro dimenticato da dio ma non dai turisti romani», si configura subito come un luogo «a metà strada», «tra le lagune di Orbetello e la foce dell’impianto di raffreddamento della centrale elettrica di Montalto» e «tra l’estuario del Fiora e quello dell’Albegna». Il luogo dove si svolgono i principali eventi della storia, però, è la casa di famiglia, dove il protagonista abita con la madre malata e il nipote orfano. La pianta della casa, non a caso, ha l’aspetto di una «mantide religiosa»: all’interno delle sue mura il protagonista si arrabatta nel precario equilibrio che gli consente la sua nevrosi. Tra i personaggi principali figura Don Stefano, «un compulsivo divoratore di Philip Roth, un instancabile rilettore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco e un eccentrico (diciamo fantasioso) interprete dell’opera di Jung»; tutt’altro che integerrimo nel rispetto dell’ordine di castità, per passatempo scrive e spedisce lettere a diversi scrittori (in primis Roberto Calasso, citato anche in epigrafe al romanzo). Ci sono poi Esteban, fascinoso ventenne cubano che dopo il liceo ha raggiunto la madre Dorota in Italia, ed Emanuele, «uno di quelli che considera la Calzecchi Onesti l’unica traduttrice di Omero accettabile, uno di quelli che è capace di non parlarti per due settimane se ti sente dire per caso Ippolito Pindemonte o Vincenzo Monti». Si tratta di un gruppo di intellettuali ipercolti, non esenti da atteggiamenti snobistici e al contempo tagliati fuori da ogni privilegio di classe, da ogni genere di lavoro altamente qualificato come, di norma, dovrebbe prevedere la loro preparazione culturale. Incapaci di ricavare dalle loro conoscenze benefici, stabilità e sicurezza, sempre pronti a perdersi in divagazioni e futilità, sono capaci di parlare letteralmente del sesso degli angeli:
secondo Esteban (che credeva nella loro esistenza) potevano essere sia maschili che femminili; secondo me (che trattavo l’argomento come mi sarei approcciato a un’indagine erudita sull’ircocervo) invece risultava dalle fonti che fossero tutti maschi, partendo dai loro nomi, passando dalla distruzione di Sodoma e Gomorra, per arrivare a quando, prima del diluvio, gli angeli s’arrapano per le figlie degli uomini e ci trombano e ficcano loro bimbi («Nephilim» mi corresse Emanuele svogliatamente) in pancia.
Il loro rapporto con la realtà circostante è ambiguo e complesso e, per il protagonista in particolare, il racconto del reale finisce quasi sempre per ridursi alla discussione delle premesse culturali del sapere e dell’esistere, per cui qualsiasi referente diventa occasione per una dissertazione estemporanea (e non sempre attendibile). Incapaci di prendere parte alle logiche della comunità organizzata e del vivere sociale, non riescono neppure ad inserirsi nelle odierne dinamiche del mondo culturale e ad assumere una posizione nella sua rete rigida e inospitale. Anche chi ne ha fatto parte — come Dorota (che a Cuba si è laureata in studi danteschi e ha fatto la lettrice d’italiano all’università) — ora ne è estromesso. I quattro personaggi si fanno interpreti di un’idea di cultura disinteressata e appassionata, svincolata da ogni fine utilitaristico. L’approfondimento, il bello stile, la precisione lessicale, il pensiero organico assumono il calibro di valori assoluti: tutto ciò che se ne allontana porta verso «la desolazione umana che avanza».
(io mi sono accorto che in sostanza tutti, tutte le persone, sono in parte new age, cioè prendono un po’ qua e un po’ là con la massima superficialità frammenti di roba che esprime l’oltre e il sacro come fossero al centro commerciale e non si sforzano, nemmeno un minimo sforzo, di riassemblarli in qualche stupido modo anche solo sincretistico: si limitano a indossarli, come cappellini e orecchini e scarpe, e questo mi fa anche piuttosto incazzare)…
A venir criticata è «l’ironica meccanicistico-mondana-pseudoerudita alla Corrado Augias», quel modo di fare cultura presente nei media di massa, che il protagonista dalla sua realtà quotidiana minima e domestica incontra per mezzo di Youtube, della rete e dei libri, quella cultura che punta solo al «superamento delle superstizioni oscurantiste, riconoscimento dell’irrazionale in quanto irrazionale, smascheramento della naturalizzazione di fatti squisitamente culturali». Una controcritica alla posizione dei personaggi è presente già nella storia e viene sostenuta da Dorota, la coltissima domestica.
della cultura non fate che prendere solo i vantaggi secondari. Elevazione spirituale? Figuriamoci. Miglioramento di se stessi, dell’uomo, della società? Neanche per sogno! La usate per smarcarvi dalle convenzioni sociali, per allentare le maglie etiche, civili, anzi no, meglio: i costumi. La cultura vi serve per fregarvene – e anzi magari sentirvi un po’ superiori – di fare gli acquisti che solitamente le persone fanno. Per comprare meno vestiti. Per non avere Sky. per legittimare la vostra vita inoperosa. Per decostruire, come fosse uno stupido mito, il valore del lavoro. per bere la mattina. per non avere l’iPhone. Per risparmiarvi di dover essere come sono le persone che vi circondano. Due paia di scarpe, non di più. Mai al ristorante, mai una pizza. Niente automobile, niente benzina. La cultura non vi serve per essere qualcosa, vi serve per scardinare l’avere che è opportuno e dignitoso avere.
Insomma, il romanzo pare contenere in sé i propri anticorpi. Ogni posizione non risulta mai definitiva ma viene ribattuta e ribaltata da contro-argomentazioni, dando l’impressione di un pensiero che si attorciglia su se stesso. All’invalsa e sterile idea di cultura oggi professata dai più, tuttavia, non viene contrapposta una proposta nuova e più efficace. La letteratura, più simile al paracetamolo che a una vera opportunità di crescita, sembra assumere la medesima funzione annebbiante e catartica che i personaggi cercano nell’alcol, come testimonia una serie di istruzioni redatte dallo stesso protagonista: «Ogni nuova immersione nel libresco è omicidio del vecchio sé non libresco». E ancora: «Disseccare l’altro non libresco, costruire dighe a deviare i flussi del senso, dell’importanza, del valore, della priorità. La realtà non libresca diviene solo fonte di pericolo: può nuovamente risucchiare nel suo inferno». Tante pagine, per altro, sono dedicate agli effetti sui protagonisti delle sostanze stupefacenti e psicotrope. Diverse (troppe?) al tema dell’alcol, per altro trattato senza grande originalità (l’alcol inibisce «i moduli comportamentali propri del nostro armamentario culturale», e così via).
Il protagonista racconta gli abissi della malattia, l’abuso di alcol a cui è costretto per soffocare il dolore, le proprie fantasie sessuali, gli impacciati tentativi di approccio e i bassifondi esistenziali e sociali da cui non pare riuscire ad emergere. Facendo ciò, si perde in disquisizioni teoriche che tanto spesso hanno poco a che fare con la desolante realtà che lo circonda, con la quale, come si è visto, gli risulta assai difficile fare i conti. Ogni accadimento, dal più irrilevante al più considerevole, viene trasfigurato, fino ad assumere proporzioni ingannevoli e connotazioni grottesche. Così facendo, Zandomeneghi dà vita una totalizzante commistione tematica e stilistica che prende il via dal profondo e efficace lavoro sulla lingua e sulla sintassi, il cui risultato è un pastiche, rapsodico ed equilibrato, che passa con agilità dal racconto del prurito alla caviglia sinistra all’elenco dei libri presenti nel settore B2 della biblioteca del protagonista. L’autore nella narrazione mescola non solo diversi registri ma anche generi testuali (dalla prosa saggistica al divertissement letterario, passando per il romanzo umoristico) e riferimenti culturali (dal Signore degli anelli a Will e Grace alla Teoria del romanzo di Guido Mazzoni). Tra le pagine prettamente narrative — distribuite tra le ventiquattro ore in cui si articola il presente della narrazione e numerose analessi —, si inseriscono brani di cocente autoanalisi e, come li definisce la voce narrante, gli «ipertrofici svarioni teorico-stilistici», ovvero capitoli tipicamente saggistici. Strizza costantemente l’occhio al lettore colto o ipercolto, detentore delle competenze necessarie alla fruizione di un testo del genere e più vicino a quelle tematiche su cui i personaggi non elemosinano elucubrazioni («la questione del non-cognitivismo euristico», per fare un esempio tra i tanti). Il genere giallo, popolare per tradizione, conserva la sua capacità di coinvolgimento e di attrazione ma non la sua larga accessibilità, spostando il target dall’amante del giallo al lettore colto in cerca di svago. Il ritmo è sempre sostenuto, il tono leggero, anche quando si abbandona alle divagazioni più teoriche.
L’impressione, insomma, è che Zandomeneghi con questo romanzo abbia dato vita a un’Odissea domestica sperimentale e ricercata. Il romanzo ha una struttura solida e fa largo uso degli effetti di suspense messi a disposizione dal genere, per il resto decostruito, scarnificato e ribaltato nella maggior parte dei suoi elementi costitutivi. La cultura enciclopedica dell’autore si inserisce nei cardini del romanzo e si fa materiale narrativo. La storia assume in maniera progressiva contorni sempre più grotteschi, in un tripudio di accoppiamenti pansessuali e di questioni scatologiche affrontate con grande serietà.
Andrea Zandomeneghi, Il giorno della nutria, Tunuè, Latina 2019, 152 pp. 16,00€